Non riuscivo più a trattenerla. Avevo percorso tutta la strada da Bari a Lecce senza concedermi una sosta ed ora la mia povera vescica era sul punto di scoppiare. E non era il caso di presentarsi in quelle condizioni di fronte alla mia datrice di lavoro Stefania. Madam Stefania, per chi non la conoscesse. Raggiunta Villa Corsupoli lasciai l’auto al portiere, un ragazzo che indossava una divisa rossa e nera con ancora le pieghe della stiratura, e mi diressi lungo i chilometrici corridoi dell’antico maniero. Villa Corsupoli è un luogo d’incontri clandestini a tema sadomaso. Non ne esistono molti in Italia e di quei pochi nessuno è come Villa Corsupoli. Lì le dominatrici sono delle vere dominatrici. Lì gli aspiranti schiavi non sono clienti da soddisfare, sono schiavi in tutto e per tutto: vengono introdotti dalle inservienti, giovani ragazze carine e disponibili nelle principesche stanze delle mistress e vi vengono lasciati per un tempo proporzionale al loro pagamento. Il tempo lo stabiliscono le cinque dominatrici supreme di Villa Corsupoli. Stefania è una di loro, le altre le conosco solo per nome. Si chiamano Isabella, Maddalena, Elena e Valentina e vengono alla Villa di tanto in tanto, per il resto si dice trascorrono il loro tempo in villaggi turistici e lussuosi castelli, spendendo i lauti proventi delle loro attività. La Villa è grande, circondata da un giardino immenso e curato nei minimi dettagli. E’ posta in periferia tanto per non dare nell’occhio. Le stanze delle dominatrici sono ampie e ben soleggiate, arredate con letti a baldacchino e mobilio del più costoso. Ogni padrona ha a disposizione tre stanze comprensive di camera da letto, salotto e sala delle torture e può disporre di due inservienti a sua scelta. Queste ultime coccolano e soddisfano ogni desiderio ed ogni capriccio delle dominatrici in assenza di clienti. A loro il compito di pulire, spazzare e lucidare gli angoli delle stanze, rifare il letto, stirare e lavare i raffinati abiti delle mistress, lucidarne le scarpe e gli stivali. Come avrete notato gli spazi riservati a ciascuna padrona non dispongono di un bagno. Vi è solo una doccia adiacente alla camera ma non esiste water. Le inservienti servono anche per questo. Si, sono i cessi delle mistress. Le padrone se ne possono servire come e quando vogliono, per il loro fabbisogno ed il loro divertimento. Io sono solo un contabile, a me non è permesso giocare con le inservienti (chissà perché Madam Stefania si ostini a chiamarle così, visto che non sono altro che schiave) tuttavia a Villa Corsupoli i cessi non esistono non solo per le dominatrici, ma anche per i semplici dipendenti come me, per i portieri e per camerieri. Per noi la Padrona Isabella ha adibito gabinetti speciali in cui vengono fatte sgobbare le schiave che non hanno ben lavorato durante la settimana. Ogni inserviente che delude una mistress è presa e tenuta come water umano nei nostri bagni per sette giorni, lontana dalla sacra orina della sua dominatrice ed a contatto con gli infimi rifiuti corporali di noi dipendenti. Raggiunsi il bagno più vicino al mio ufficio che avevo già le mani sulla patta dei pantaloni. In quel punto il corridoio compie una curva ad angolo retto verso destra. Il mio studio è situato poco prima dell’angolo, sul lato destro del corridoio. Il bagno è situato proprio di fronte, sul lato sinistro. Aprii la porta d’impeto e mi trovai nell’anticamera dei cessi. Davanti a me una fila di quattro lavandini splendenti e puliti di fresco ancora odoravano di detersivo in polvere. Sopra ai lavandini erano posti gli specchi, rotondi e brillanti. Ai lati dell’anticamera si aprivano gli uscetti di quattro gabinetti, due per lato. Entrai in quello più vicino alla porta, sulla sinistra. Prima ancora di far scattare la serratura alle mie spalle riconobbi l’inserviente di turno posta in quel gabinetto. Era Latrina. -“Ciao”- la salutai. -“Buongiorno, signore”- rispose lei. Latrina era una ragazza giovane e carina, capelli a caschetto biondi, occhi grigi come l’ardesia e pelle di porcellana. Ne vedevo solo la faccia sporgere all’altezza del mio inguine dal foro praticato in una falsa parete di cartongesso. Sapevo già come funzionava. Le ragazze erano trattenute in ginocchio al di là di quella parete falsa per mezzo di un’imbracatura di lacci di cuoio e catene. Il foro ad ogiva ad un metro e venti d’altezza dal pavimento permetteva loro di sporgere fuori con la faccia e l’unico movimento concesso era quello di aprire e chiudere la bocca. Erano cessi. Peccato, però. Se Latrina non avesse avuto un carattere così remissivo l’avrei vista bene con un completo di pelle nera, stivaloni alti al ginocchio e con frusta in mano. Per l’età non vi sarebbero stati problemi o controindicazioni. Molte mistress erano più giovani di lei ed anzi, fin dagli esordi della sua carriera Latrina era stata affidata a padroncine con due o tre anni meno di lei, quindi appena maggiorenni. L’ultima era stata Barbara, una bellezza dalle origini siciliane che ancora mescolava corretta dizione delle parole con termini dialettali e quell’inconfondibile accento di provincia. Madam Stefania aveva scelta Latrina per essere una inserviente. Per il carattere, e forse anche per la bassa statura. -“Che cosa ci fai qui, piccola?”- chiesi. -“Madamigella Barbara, signore. Non mi sono dimostrata all’altezza delle sue necessità”- rispose la fanciulla con sguardo mogio. I suoi occhi andarono alla patta dei miei pantaloni, già aperta. Povera Latrina. -“Che hai combinato?”- -“Sono caduta”- -“E allora?”- -“Madamigella Barbara era seduta su di me”- -“Ah, capisco”- dissi -“Le facevi da sgabello?”- Molte mistress usano le inservienti come sedie. -“No, mi stava cavalcando”- L’immagine della procace Dea siciliana che vestita da cavallerizza spronava la ragazza a galoppare come una bestia sul pavimento della sala delle torture entrò prepotentemente nella mia mente. Conoscevo Barbara. Sapevo quale gusto provasse nel sentire le schiave e gli schiavi inermi sotto di se. Sotto ai piedi bellissimi che le aveva dato madre natura. Sotto al suo sedere perfetto. Vermi doloranti ed esausti, sul punto di collassare, che si sforzavano di resistere per far stare la padrona nella posizione più comoda possibile. Forse una frustata di troppo, forse un colpo con gli speroni più forte del dovuto nei fianchi della bestia e Latrina s’era distesa sulle assi del pavimento. -“Come ti tratta Barbara?”- chiesi. Pura retorica. Conoscevo già la risposta. -“Benissimo. Madamigella è buona con me”- -“Già, certo”- Aprii completamente la patta e scostai l’elastico delle mutande. Il membro era fuori. Lo trovai più duro fra le dita di quanto non avessi creduto possibile per quelle poche parole. -“Hai sete?”- chiesi. -“No”- -“No?”- -“La dottoressa Morea è stata qui pochi minuti prima di lei”- -“Bè, mi spiace. Allora dovrai farti un’altra bevuta. La tengo da Sesto Fiorentino”- Latrina assunse un’aria avvilita e sconfitta. Forse aveva creduto che mosso a compassione me ne andassi a pisciare nella bocca della schiava del bagno a fianco. Povera ragazza. Sono quasi cinque anni che lavoro qui a Villa Corsupoli e mi sono abituato alle strane usanze imposte da Madam Stefania dopo solo pochi giorni. Pisciare fra le labbra di una bella ragazza o in una tazza di porcellana per me è la stessa identica cosa. Peccato che le ragazze fuori dalla Villa non si facciano usare come water. Solo di questo mi rammarico. Forse sono un po’ bastardo, io però preferisco definirmi pratico, un cinico disilluso. Così presi l’uccello fra le dita e lo avvicinai alla bocca di Latrina. Lei lo osservò a distanza ravvicinata come si osserva la punta di un pugnale che si avvicina inesorabile alla gola. -“Su, apri bene, è l’ora dell’urinoterapia”- scherzai. -“Si, signore”- Infilai la cappella nella “O” di “signore” ed il resto della parola uscì masticato dalla sua bocca. -“Meno parole e più fatti. Apri bene”- dissi. Latrina annuì, senza poter parlare. Il mio amico non è piccolo e nelle sue piccole labbra sottili appariva ancor più grande e prepotente. Rilassai completamente la vescica. Macché, niente da fare. La ragazzina era riuscita con nulla a portarlo quasi all’erezione. Mi ci aveva condotto con la sua aria innocente e remissiva, i suoi occhioni bassi e lucidi, la sua fedeltà commovente nei confronti di una ragazza di un paio d’anni più giovane di lei che dalla mattina alla sera la costringeva a camminare come una cagna, a leccarle gli stivali ed a baciarle i piedi. -“Me l’hai fatto venire duro”- -“Mmmmhhmmmpf…”- -“Si, vabbé! Dai, muovi la lingua. Se prima non vengo non mi s’ammoscia”- dissi, iniziando a spingere in avanti ed indietro col bacino. I suoi occhi si riempirono di lacrime al terzo colpo. Mi dispiacque solo del fatto che la sua testa fosse incastrata dentro a quella parete di cartongesso. Avrei voluto prenderla per i capelli e manovrarla a mio piacimento. Invece ero io a dovermi prendere il disturbo di entrare ed uscire dalla sua bocca. Fra le sue labbra sentii il mio pene che acquistava sempre più forza e vigore. L’erezione era completa. All’improvviso un suono di tacchi alti risuonò nel corridoio. -“Accidenti!”- pensai -“Madam Stefania che viene nel mio studio. Avesse bisogno di me…”- Trattenni il fiato e fermai il bacino. Dovevo sapere se la donna nel corridoio fosse la mia datrice di lavoro. Invece Latrina continuò a slinguazzare ed a singhiozzare. Estrassi il membro dalla ragazza e la schiaffeggiai sulla guancia un paio di volte. Con più forza di quella realmente necessaria. -“Zitta! Non emettere un suono!”- ordinai. Lei si zittì all’istante, ma le lacrime continuarono a scendere. La punta della cappella era proprio a pochi millimetri dalla sua bocca. Sospirando come in preda all’affanno, ignara del motivo che m’aveva spinto a fermarmi, Latrina si sporse per quanto le fosse possibile e baciò dolcemente la punta del mio membro. Il suono dei tacchi passò e non udii il gemito della porta del mio studio che si apriva. Non era Stefania, per fortuna. Poteva trattarsi solo di un’altra mistress ma di quelle non ho motivo di preoccuparmi. Gli incassi della Villa non riguardano loro. Così mi rilassai. Latrina continuava a distribuire lacrime e bacetti sul mio cazzo. -“Apri bocca”- Lei obbedì. Io vi infilai l’uccello senza alcun indugio e spinsi fino a che non sentii sparire le palle nella bocca della schiava. La ragazza mugolò, prima contrariata, poi di dolore ed infine di spavento. Stava soffocando. -“Me ne fotto”- pensai -“L’unica cosa che conta è sborrare e pisciare. Non mi preoccupo di certo delle condizioni psicologiche e fisiche di un sanitario”- Venni. Un fiume. Latrina bevve tutto, guardando un po’ me e un po’ il mio arnese, non so se con espressione di supplica o di disprezzo e non m’interessa. Non mi faccio supplicare dai cessi. Li uso per lo scopo per il quale sono stati creati. E naturalmente non mi curo del disprezzo che un oggetto può nutrire nei miei confronti, sarebbe il colmo. Latrina dovrebbe solo sentirsi onorata del fatto che abbia scambiato qualche parola con lei quando sono entrato nel gabinetto. Solo pochi altri lo fanno. Quando il membro si fu rilassato un poco iniziai a scaricarmi. La schiava nel frattempo mi aveva ben slinguazzato la punta rimuovendo da essa ogni goccia di liquido seminale. Quanto ne ha ingoiato, povera ragazza! Se si può mettere incinta qualcuna per via orale credo che Latrina avrà dei gemelli. Devo ammettere che dopo un pompino ben fatto, anche se praticato in una posizione tutt’altro che comoda, e dopo aver trattenuto una pisciata da Sesto Fiorentino a Lecce, lo scaricarmi fu proprio corroborante. Così mi gustai un piccolo divertimento offerto dalla Villa Corsupoli. Ad intervalli regolari rallentavo il flusso d’orina, dando alla schiava l’impressione di aver terminato la pisciata e poi, senza preavviso, irrobustivo il getto, cercando di farle andare di traverso il liquido o di causare una fuoriuscita d’orina dalle sue labbra. M’avesse sporcato i pantaloni e fossi andato a fare rapporto a Madam Stefania la vita di Latrina sarebbe peggiorata ulteriormente nella Villa. Lei lo sapeva. Fece buon viso a cattivo gioco e sopportò con stoica determinazione ogni mia angheria. -“Sei proprio una fogna, mia cara”- le dissi -“Bevi tutto come un tombino e non t’intasi mai”- Latrina cercò d’annuire. Nel frattempo la mia riserva s’era andata esaurendo. -“Pulisci”- Latrina obbedì. Sfilai il membro di colpo e lo usai per colpire il suo viso disfatto dal pianto. Le guance erano tutte umide dalle lacrime e la sua fronte era calda e arrossata dallo sforzo appena provato. Riposi il membro nelle mutande, strofinai il pacco sul suo viso come ultima dimostrazione di quanto le volessi bene e poi chiusi la patta. -“Ora vado al bar e mi scolo due birre d’un fiato, così fra qualche ora mi riviene voglia di pisciare. Ti userò per tutta la settimana, solo tu e nessun altra, non sei contenta?”- Latrina fece un cenno come per annuire ma non disse nulla. Aprii l’uscetto alle mie spalle e sbirciai nell’altro vano. Un’altra ragazza era rinchiusa con la testa nella parete di cartongesso. La riconobbi. Era Rosaria, una puttanella alle dipendenza di Padrona Maddalena. Rosaria era una che tratteneva le lacrime e le sue labbra non avrebbero fatto attizzare neppure un cinghiale in primavera. Per me poteva crepare di sete. -“Si, ho deciso. Userò solo te”- confermai, ritornando nel gabinetto di Latrina. -“Ringraziami”- Nessuna risposta. Le assestai un ceffone, causando un nuovo scoppio di pianto. -“Ringraziami, ho detto!”- -“G…grazie, signore”- -“Brava. Apri bocca e guarda in alto”- Latrina obbedì. Le sputai in gola, attesi di vederla deglutire la mia saliva ed uscii. Mi recai nel mio studio, dall’altro lato del corridoio. Accesi il computer e mi sistemai sulla poltrona. L’ufficio era moderno ed accogliente. Veduta panoramica del lago Trasimeno, aria condizionata, frigobar…Tutti i comfort. Era il lunedì di un’altra interessante settimana.
Aggiungi ai Preferiti