Herbert Maisch, insigne clinico e psicoterapeuta di Amburgo, ha chiaramente spiegato cosa sia il ‘voyerismo’, e come non debba confondersi con la curiosità. Infatti, si ha voyeurismo solo quando si osservano segretamente oggetti o situazioni sessuali per provarne eccitazione sessuale e soddisfacimento. Freud, del resto, ha precisato che la curiosità diventa voyeurismo quando è l’unica o dominante meta sessuale nel comportamento di una persona. A me, fin dalla tenera età, è sempre piaciuto ‘vedere ed ascoltare’, insomma impicciarmi di cosa fanno e cosa dicono le persone. Non è che rimanga assolutamente indifferente allo spettacolo e all’audizione, ma non ne traggo godimento sessuale. Un po’ d’eccitazione, certo, ma che poi sfogo con regolari e gratificanti rapporti con l’altro sesso. Quest’ultima attività, logicamente, ho potuto soddisfare da un certo momento in poi della mia vita. Allo scopo di appagare la mia curiosità mi sono sempre avvalso, come ho potuto, dei moderni ritrovati della scienza e della tecnica, da quella piccola microspia… Ma devo raccontare come andò la mia prima esperienza di private detective a tempo perso. E le conseguenze. Ero abituato ai normali registratori collegati a un microfono portatile. Nella vetrina del negozio di prodotti elettronici avevo visto uno strano aggeggio, con una targhetta ‘ReMiRec’, composto da una piccola scatolina, più o meno tre centimetri per tre, e da un’altra più grande, circa quattro per otto, dove s’intravedeva un piccolo nastrino registratore e dalla quale usciva un filo collegato a un auricolare. Entrai e chiesi cosa mai fosse. Mi fu spiegato che era un Remote Mini Recorder, cioè un apparecchio che poteva raccogliere suoni prodotti non nello stesso ambiente di registrazione. La scatoletta piccola era il microfono del tipo micromike, alimentato da due pile a bottone, che si doveva mettere nel locale che si voleva sorvegliare, quella grande conteneva registratore alimentato con batterie dello steso tipo e collegato all’auricolare, il nastro effettuava registrazioni della durata di circa quaranta minuti. Il raggio di utilizzazione era definito ottimo entro 100 metri all’aperto e entro 20 metri se tra micro e registratore vi erano pareti interposte, a patto che non fossero metalliche o schermate. Il prezzo era entro i limiti dei miei risparmi. Lo acquistai, lo riposi nel cassetto centrale della mia piccola scrivania, e mi misi a ‘studiare’ le istruzioni che, per fortuna erano anche in italiano. Molto facile: situare il micro, che era dotato di autoadesivo, premere il pulsantino rosso, andare dov’era il registratore, portare la levetta su ‘on’ e registrare, si poteva contemporaneamente ascoltare con l’auricolare, l’oscillare d’una lucetta azzurra avvertiva della registrazione in corso. Dove mettere il micro? Ero curioso di sapere cosa i miei genitori pensassero di me, se ne parlassero tra loro… Quindi, la loro camera da letto. Avrei ascoltato le piccole confidenze di mamma Gianna e di mio padre, Alvise, quando credevano d’essere al riparo da orecchie indiscrete. L’antico lettone di legno pesante aveva la testiera non molto spessa, con un bordo grosso, per cui era facile attaccare il micro sul muro e riaccostare il letto. Cosa fattibilissima quando Angela, la colf, spostava tutto, il sabato, per le pulizie a fondo. Con mamma a scuola, dove insegnava al classico, e l’ingegnere a studio, era un gioco da ragazzi, e così fu. Angela non si accorse di nulla. La nostra era una famiglia abbastanza tranquilla, con abitudini ricalcate su antiche tradizioni. Orari abbastanza rispettati, pasti legati ai giorni della settimana, scambi di visite in certi altri giorni (del resto quasi sempre di domenica) e così via. C’era anche abbastanza armonia, ogni tanto ero io l’argomento più dibattuto. Avevo problemi? Quali? Cosa avrei fatto dopo la maturità che mi attendeva tra qualche mese? Avevo la morosa? Chi era? La conosceva la bella Gianna? Si, mamma Gianna era molto bella, bellissima! Quarantacinque anni da compiere e un fisico mozzafiato, con certe curve che tutti ci avrebbero fatto volentieri più d’uno slalom gigante. La Luisa, che aveva giusto un anno più di me, era sempre e tutta presa dai suoi disegni, dalla pittura, dall’Accademia della quale frequentava il primo anno, ma di lei, chissà perché, si fidavano di più che non di me. Questione di fortuna! Il ‘sior paròn’ l’ingegnere Alvise, era un cinquantenne sportivo, ben portante e simpatico. A volte, però, quando ci si metteva, riusciva a ‘rompere’ che in materia gli avresti assegnato il Nobel. Angela era una portentosa Cadorina ‘tec’, bruna e riccioluta, che spesso canticchiava, e nessuno sapeva cosa facesse quando aveva il suo tempo libero. Era anche elegante, e molto graziosa. (A proposito, ‘tec’ sta per tette e culo, data la vistosa rilevanza di quegli attributi.) Sabato sera. Luisa a teatro col moroso e poi in discoteca. Angela a nanna. Mamma, papà ed io a vedere un po’ di TV. Alle undici mi salutarono, dissero che andavano a dormire. Risposi che anche io avrei fatto lo stesso. Spensi la TV. Ognuno nella propria camera. Registratore ‘on’. Auricolare all’orecchio. Rumore d’una porta che si apriva e richiudeva, poi la voce della mamma che, certamente, usciva dal bagno dove s’era preparata per la notte. “Tutto bene Gianna?” Questo era il babbo, certamente già a letto. “Benissimo, Alvise, e ti?” “Benone.” “Ti se’ stracco?” “Per niente.” “Ti vol far un giretto in gondola?” “Ostrega!” “Remo mi, però.” Le voci ora erano vicine l’una all’altra. S’udì un fruscio di coperte, un soffocato scricchiolio del letto. “Vien Gianna, para la gondola.” “Vengo tesoro… eccomi… ” Ancora qualche lieve rumore. “Ciapa il remo, cara… brava… s’è andà proprio ben…” Ci fu un certo silenzio, poi percepii un respirare sempre più forte, quindi un lungo gemito… incalzante… sicuramente era la mamma… si era di donna… Il micro registrava anche il sobbalzare del letto, sempre più frenetico e quel gemito crescente… Ecco la voce del babbo, sommessa. “Dai cara che siamo in porto… dai… bravissima… ecco che rivémo… ecco…” Poi quella di lei, rotta dall’affanno, gutturale. “Si, Alvise… si…. Adesso carissimo…. Adesso… si… si… così… che bello… che marea… oooooooooooooooh!” Silenzio. Avevo seguito tutto, con curiosità. Avevo scoperto la vita intima, la sessualità della bella Gianna e del suo uomo. Non posso affermare di non essermi un po’ eccitato, ma soprattutto perché vedevo nella mente la bella Gianna, nuda, con quelle sue splendide tette e quelle natiche di sogno, alle prese col remo che faceva ben navigare la sua guizzante gondola. Nello spegnere il registratore pensai: urca che ciavàda! Era perfetto quell’apparecchietto, le voci erano nitide, riconoscibili, i rumori identificabili. Seguitai le loro esercitazione eroatletiche anche nei giorni successivi. La mamma disse che domenica sarebbe andata a Treviso, dalla sorella, che era in clinica per un piccolo intervento chirurgico, cosa di donne aggiunse, ma il marito si scusò per non poterla accompagnare perché proprio quella domenica mattina aveva una conferenza al Rotary. Luisa si offrì di farle compagnia. E così, a pranzo, eravamo solo io e papà, con Angela che ci serviva, sculettando e facendoci godere la vista delle sue belle tette generosamente ammiccanti dal grembiule di cui aveva dimenticato di chiudere gli ultimi bottoni. Veramente non aveva abbottonato anche la parte bassa del vestito, perché quelle polpose ma tornite cosce occhieggiavano ad ogni passo. Dopo il caffè mio padre disse che andava a fare un riposino. Io mi ritirai nella mia camera, senza uno scopo preciso. Guardai un libro, poi andai alla finestra, tornai vero il tavolino, distrattamente aprii il cassetto. Mi venne, istintivamente di portare la levetta del registratore su ‘on’, la lucetta lampeggiò, stava registrando. Portai l’auricolare all’orecchio. “Ma siòr Alvise selo assatanato ancùo, ma cossa selo… più del campanil…” Era Angela! Sicché Alvise oggi era assatanato! E bravo! Il letto doveva sobbalzare con violenza perché se ne sentiva il rumore. “Dai cocca, dai che te fasso godér…” “Godo, sì, godo… ma che foga…. La me sta a distrugger la mona…” “Distrugger?” “No… se fa per dire… me piase… si… me piase… sto tutta un bagno… la me gà sbrodolà tutta… o signor… che paradiso…” E poi silenzio. Sentii Angela uscire dalla camera da letto. Andai all’uscio, lo aprii, lei stava entrando nella sua cameretta. Dopo poco sentii la voce di papà che ci informava che andava al circololo, e che sarebbe andato la sera, alle otto, a prendere mamma e Luisa, a Santa Lucia, al loro arrivo da Treviso. Attesi che uscisse di casa, lo vidi attraversare il campiello, poi il ponte sul rio e sparire. Avevo un discreta eccitazione. Era inutile perdere tempo. Andai, deciso, nella cameretta di Angela. Si vede che aveva fatto la doccia, perché era nuda, intenta ad ammirarsi nello specchio. Non sembrò spaventata quando mi vide, ne fece cenno di ricoprirsi. Le andai vicino, “Non ti preoccupare, bella, che non ti distruggo niente.” Mi guardò, sorpresa. Come se fossimo pienamente d’accordo, mi spogliai rapidamente. La spinsi verso il letto, la feci voltare, la sospinsi ancora. Fece finta di cadere pesantemente ma dal come si posizionò, vicino alla sponda, una gamba fuori del letto, le mani in alto il bacino ben prominente, invitante, era chiaro che, forse non cercava altro, era venuto il momento, per lei, di procedere all’analisi comparativa dei campanili, quello del siòr e quello del signorino che non perse tempo a infilarglielo dentro e a cominciare a stantuffare con foga giovanile e tanto desiderio di sfogarmi, finalmente, perché era da tempo che non capitava una simile occasione. Era veramente bella, Angela, un culo meraviglioso, e mi accoglieva con tanto calore e tanto entusiasmo che non sembrava essere reduce da un non lontano assalto erotico. Si dimenava egregiamente, si avvicinava e allontanava con tempismo esemplare, aveva una mona da sogno, si contraeva e rilassava come meglio non avrebbe potuto fare una mungitrice. A un certo punto cominciò a mugolare, a gemere. “Dai Pierino… dai… ostrega che tocco de palo… selo drento tutto?” Senza smettere, le risposi che era drento quanto lei poteva contenere. “Perché, caro, avansa un tocco?” “Un tochettin.” “Eccome che vegno, damme tutto, belo, tutto… ma non te desmentegar che go’ anche el de drio che te vol.” Raggiunse un orgasmo spettacolare e travolgente qualche secondo prima che l’invadessi col mio seme bollente. Giacque affannata, ma raccolse il liquido che le usciva tra le gambe e lo spalmò sul suo bellissimo buchetto tra quelle natiche ammalianti. Si pose sul dorso. Alzò completamente le gambe. Il mio fallò si rizzò prontamente, ancor più rigido di prima, e fu delizioso affondarlo in lei che l’attendeva avida. “Ora tutto, Piero, me raccomando, tutto, vogio sentir le palle sulle ciape!” Le sentì, fin quando non rantolò di piacere e non mi svuotò completamente, come una pompa aspirante. Ad un certo momento dovetti lasciarla. Lei doveva preparare la cena, prima del ritorno degli altri. Strano effetto quell’esperienza con Angela che, quando le avevo chiesto se non temesse di restare incinta, mi disse che prendeva più pillole lei che non una vecia catarrosa. Strano effetto. Quando mamma e Luisa rientrarono, e, come d’uso mi baciarono, io m’attardai nell’abbraccio, le strinsi con interessato vigore, cercai di palpeggiare le loro belle natiche che nulla avevano da invidiare a quelle di Angela, e me le immaginai nella stessa posizione che poco prima aveva assunto la colf. Tutte e due. Mamma Gianna con un sedere decisamente più prosperoso, ma non meno attraente l’affascinante mandolino della Luisina. Pensai al vecchio proverbio: differo non est deleo! Rimandare non è cancellare! Stavo pensando anche da chi cominciare, perché ormai m’ero fissato, dovevo andare in gondola e provare quale delle due reagisse meglio al remo. Una voce mi diceva che con tanta grazia di dio in giro non era proprio il caso di quel pensierino. In attesa di giungere a una decisione, non facile, le quotidiane eccitazioni favorite da tutto quel girare per casa di femmine desiderabili venivano placate dalla completa disponibilità di Angela che, pensavo presuntuosamente, mi sembrava avesse optato per lo ‘junior’ della famiglia che, a quanto diceva, sembrava proprio fatto per la sua cosina. Con quel suo misto di dialetto e italiano, e la sua voce dolce e suadente, mi sussurrava che lei aveva la giusta ‘moneta’ per il mio ‘cassetto’. In verità, quei diminutivi poco si attagliavano ad entrambi: né la sua era una ‘fighetta’ e tanto meno il mio poteva definirsi ‘cazzetto’. Io ero normalissimo, senza stupidi atteggiamenti da superdotati. Ero fiero della mia normodotazione! A rinviare la necessità di affrontare la soluzione del dubbio amletico, Gianna o Luisa, giunse il premio per la maturità. Un meraviglioso viaggio, da fare da solo. Sì, i genitori mi consegnarono i biglietti per qualcosa che avevo sempre sognato: visitare l’oriente. Prima tappa Tokyo, poi Hong Kong, Bangkok….. All’andata, rotta polare: Venezia, Amsterdam, Tokyo. Ero fuori di me dalla gioia, euforico, eccitato in tutti i sensi. Meno male che c’era Angela camomilla! Preparativi rapidi e precisi. Partenza. Tokyo, Marita Airport. Quasi due ore per raggiungere l’albergo dove avevo prenotato, oltre 60 chilometri. Ero come in una nuvola, tra la lunghezza del viaggio, il fuso orario, quelle insegne che non sapevo leggere, una lingua totalmente sconosciuta… Non appena, disimpegnati rapidamente gli adempimenti dell’arrivo, salii nella camera per rinfrescarmi. Ero ansioso di vedere la vita giapponese, le ultime novità tecnologiche… Logicamente, andai subito alla ricerca del grande negozio di articoli elettronici, Nella strada principale, la Ginza. C’era da perdersi tra tutto ciò che era esposto, novità che non conoscevo neppure attraverso le riviste specializzate. Nella teca di cristallo, nel centro della prima galleria del negozio, c’era il ‘secret eye’ il corrispettivo video del ‘ReMiRec’. Una minuscolissima microcamera, in effetti una piccola semisfera di plastica trasparente, e una specie di telefonino sul cui schermo, a comando, appariva l’immagine rilevata dalla microcamera. Il tutto registrabile e trasferibile in PC o TV. Le dimensioni dell’apparecchiatura di ripresa erano davvero ridottissime, meno di un centimetro, e la trasparenza mimetizzava tutto. La dimostrazione fu impeccabile. Potevo portare la microcamera all’occhiello del giubbotto, muovermi liberamente, e il grande schermo, cui attraverso il telefonino era collegata, riproduceva tutto nitidamente, anche in precarie condizioni di luminosità. L’acquistai. Mi sorpresi a camminare guardando lo schermo del telefonino mentre la microcamera riprendeva a destra e manca. Necessitava, però, un collaudo diverso. Dove, come, quando? In albergo avevo notato una coppia, un giovanissimo ‘lui’ e una matura ‘lei’ che sembravano molto affiatata, e in modo un po’ strano perché lui la chiamava ‘mom’. Lo spiritello della curiosità mi suggerì che era il caso che andavo cercando. Occupavano la camera di fronte alla mia. L’indomani mattina, mentre le cameriere erano intente a riassettare le camere, con indifferenza, facendo finta di guardare distrattamente, entrai un po’ in quella camera, tenendo in mano la mvc (microvideocamera) e l’attaccai dove ritenevo che dominasse il più possibile l’ambiente. Uscii, presi con me il telefonino ed andai a visitare la città. Ogni tanto accendevo il contatto: camera vuota, e così fu fino al primo pomeriggio. Ero sul terrazzo della Tokyo Tower, molto simile alla torre Eifel, e mi collegai alla mvc. I due erano in camera e lui, che poteva avere intorno ai venti anni, era intento a un diligente esercizio orale, quello che i latini chiamavano il cunus lingere, e noi più volgarmente leccata di fica, con sommo godimento di lei che doveva essere tra i 40 e i 45. Molto diligente il giovane, e lei gli carezzava dolcemente i capelli, mentre il suo ventre palpitava e fino al mio ricevitore giungeva il sommesso mormorio di lei… I’m coming, darling… yes…I’m.. oh… son… sooooon! E che venisse, grazie alla lingua di ‘son’, del figlio, fu più che evidente. Ma la madama evidentemente non era paga. Si sdraiò comodamente, attirò su di sé il baldo partner e mentre lui riprese a frugarle tra le gambe con la lingua, lei si applicò premurosamente a restituirgli il godimento con abile scappellamento manuale e deliziosa fellatio, che significa ‘ciucciata’. Tutto più che chiaro. E si dilungarono abbastanza, tanto che tolsi il collegamento e ripresi la visita turistica, ripromettendomi di approfondire l’indagine in seguito. La vista dalla Torre era molto interessante. Vi erano molti turisti che si aggiravano, e alcuni si fermavano presso bravi e sveltissimi disegnatori che in pochi momenti ti ritraevano con fisionomia decisamente nipponica. Non posso nascondere che quella intesa erotica mi faceva tornare alle perplessità che da tempo mi arrovellavano. Mi sorse il dubbio che quei due non fossero madre e figlio. Dovevo accertarlo. Feci in modo, la sera, al diner, alla cena, di essere al loro tavolo, nella piccola ma graziosa saletta da pranzo dell’Albergo. Chiesi il permesso di sedere, per pura formalità, perché non vi erano tavoli riservati, e la signora mi rispose con un gentile sorriso. Dopo qualche minuto, fui io a rompere il ghiaccio, con la più stupida delle domande. Poiché avevo sentito che tra loro parlavano in inglese, sfoderai tutto il mio sapere e chiesi nella stessa lingua se Tokyo piacesse loro. Mi risposero che era molto interessante. Mi domandarono da dove venissi, si complimentarono con Venezia, dissi che era in viaggio premio per la maturità, e, finalmente seppi il loro legame familiare. Billy, il figlio, era in Giappone perché avrebbe voluto intraprendere lo studio della lingua e letteratura giapponese, e voleva rendersi conto del tipo di vita che si conduceva nel paese del sol levante. Avevo capito bene, madre e figlio. Madre, però, che dal punto di vista estetico, diciamo meglio del fisico, nulla aveva a vedere con la mia, la incantevole, affascinante, attraente Gianna. Parlammo ancora del più e del meno. Poi mi dissero che erano stanchi e andavano a riposare, l’indomani l’attendeva la gita ad Hakone, la città santa. Attesi pochi minuti e, sorseggiando un American Drink, che poi era bourbon, in un angolo del bar, accesi il videotelefonino. Erano stati rapidissimi, non avevano perduto tempo, da quello che vedevo doveva essere lei quella più assatanata, perché mentre lui sedeva sulla sponda del letto gli si era bellamente messa a cavalcioni e si dimenava impetuosamente, mugolando e sbaciucchiandolo sul volto, sulla bocca, sugli occhi. Doveva essere anche una ‘quick coming’, una che giunge presto l’orgasmo, perché non ci volle molto e la sua agitazione aumentò fortemente, poi giacque stretta al ragazzo, quindi riprese a cavalcare fino al nuovo raggiungimento del traguardo. Era insaziabile la ‘albionica’ e pur coccolando il suo giovane partner si vedeva bene che era per lei uno strumento di godimento. Quel viaggio era una vera e propria scorpacciata di sesso e non voleva perdere neppure un minuto delle forze del rampollo che, a quanto avevo veduto ed ora confermato, dovevano essere ragguardevoli. Ritenni che per questa volta il sipario sarebbe sceso, ma proprio quando stavo per spegnere l’apparecchio, ci fu un movimento che mi suggerì di attendere gli eventi. Non capivo se questa nuova iniziativa partisse da lei o da lui, ma fu tutto un cambiar di ruoli. Da come proseguirono le cose, arguisco che era lui, adesso, a voler prendersi la sua quota di piacere, ma non ne ero certo, perché i sobbalzi di lei stavano a dimostrare che non era ancora paga. Fu un bel match, non tanto breve, ma da come giacquero, poi direi che chiuse alla pari. Spensero la luce. Tornai in camera. Loro l’indomani sarebbero andati ad Hakone, io, terminata la mia breve settimana nipponica, sarei partito per Osaka, con treno veloce, e poi da li, per Hong Kong, altra tappa del mio viaggio nelle terre d’Asia. La tratta da Tokyo a Osaka, poco più di 550 chilometri, l’avrei coperta in meno di tre ore col treno veloce, lo ‘shinkanzen’, la sera, poi avrei lasciato Osaka alle 18,20 e sarei giunto a Hong Kong alle 21,45 (ore locali). Dovevo essere ben attento a rispettare gli orari per non perdere le prenotazioni. L’indomani mattina, abbastanza presto, mi venne la voglia di curiosare nella camera del ‘duo’, anche perché dovevo provvedere a ritirare il microeye. La maniera di prepararsi per la visita al sacro tempio di Hakone non differiva dalla loro prediletta attività se non nella maniera. Mi sembrava sempre più indubitabile che era lei a soddisfare la sua fantasia. Supina, mani dietro alla testa, gambe ben sollevate in alto, tese, e lui che, poggiato su ginocchia e mani, era tutto intento a non deludere le aspettative della insaziabile partner. Lei cominciò al alzare aritmicamente il bacino, a stringere la testa di lui tra le sue gambe, e non nascose il montante orgasmo che l’andava travolgendo. Doveva essere molto brava, però, perché il ragazzo seguitava con evidente compiacimento, e a un certo momento si spinse, palpitando, evidentemente benedicendola col frutto del suo aspersorio. Rimasero così per qualche tempo, poi, l’orario del pullman per Hakone li costrinse a separarsi. Quando tornai a Venezia, dopo Hong Kong, Manila e Bangkok, ero pieno di immagini nella mente e nelle apparecchiature che avevo con me, e soprattutto ero sommerso dalla perplessità sul come comportarmi. Durante quelle tre settimane avevo fatto qualche ‘sveltina’ mercenaria, ma non riuscivo a allontanare le visioni ‘domestiche’, soprattutto Gianna che, tra l’altro era venuta a rilevarmi al Marco Polo, più bella e più giovane che mai. Bastò quell’abbraccio, sentire quelle tette strette a me, vedere le sue forme nel leggerissimo vestito estivo, che l’eccitazione m’invase diabolicamente. Mentre il motoscafo ci portava verso casa, presi la decisione di usare (è un termine brutto, lo so, ma esprime pienamente la finalità) assiduamente la ‘gondola’ di Angela di modo che la sazietà dei sensi agisse come lenitivo sui continui stimoli. La sorpresa fu che al posto di Angela c’era una anziana donnetta che la doveva sostituire mentre la procace giovane assisteva la madre malata, in quel di Santa Giustina di Feltre. D’accordo, c’era la splendida Luisa, ma non era la stessa cosa. Ci mancava pure questa. Inoltre, io sapevo che Luisa m’attraeva moltissimo, ma lei? ‘Sound out’, ‘lancer un ballon d’essai’, ‘untersuchen’, insomma sondare, tastare il polso, saggiare il terreno. Facilissimo a dirsi, ma come? Mi venne in mente di prenderla alla larga, con l’aiuto dei… sussidi audiovisivi. Dovevo tentare quando Luisa ed io eravamo soli. Quel lunedì mamma Gianna aveva una riunione straordinaria al liceo, l’ingegnere Alvise era alle prese con la discussione della variante al piano regolatore, Luisa ed io ne avremmo profittato per andare al Lido. Se ci fosse piaciuto avremmo fatto colazione al bar dello stabilimento, riposato un po’ sotto l’ombrellone o in cabina, per ritornare verso il tramonto. Se, invece, ci fossimo annoiati facevamo sempre in tempo a tornare. Misi nella borsa il normale telefonino, ma anche il ‘secret eye’ il cui contenuto avevo passato su CD ma non avevo cancellato. Vaporetto abbastanza affollato, così pure l’autobus, ma lo stabilimento del Club, essendo riservato ai soci, era un’oasi di tranquillità. Luisa era allegra e pimpante, come al solito. Durante il viaggio le avevo chiesto come andassero i suoi legami, diciamo così, sentimentali. Mi rispose che al momento non solo era completamente libera, ma che la cosa cominciava a pesarle. Essere ‘single’ proprio durante il periodo di maggiore libertà. Si informò sul mio viaggio, mi ripeté che la collanina con rubino, portatale dalla Tailandia, era veramente bella e mi ringraziò nuovamente con un sonoro bacio. Ma cosa avevo visto di particolarmente interessante? “E’ tutto interessante, sorellina, perché ancora ci sono modi di vivere abbastanza diversi dai nostri. E’ vero, però, che non si finisce mai dall’apprendere comportamenti che a volte sollevano perplessità.” “Ad esempio?” Le raccontai che nell’albergo di Tokyo c’era una mamma che se la faceva col figlio. “Ma che ne sai, Piero, che fossero madre e figlio. Forse era una tardona che rimorchiava un giovane.” “No, no. Lui la chiamava mom, mommy, e lei son, sonny. Condividevano la camera.” “Dormire nella stessa camera non significa necessariamente avere rapporti intimi, sessuali.” “Ne ho le prove.” “Le prove?” La misi al corrente della mia apparecchiatura elettronica e di quanto avevo registrato, in video e in audio. “Vuoi vedere il documentario, Luisa?” “Ma si, tanto per curiosità.” Quando giungemmo allo stabilimento, prendemmo un ottimo gelato e poi ce ne andammo alla nostra solita cabina. Luisa aveva il suo minuscolo costume sotto il vestito, mentre io avrei dovuto cambiarmi. Posai la borsa sul tavolino. Luisa mi era vicina. “Allora? Queste testimonianze audiovisive?” Ero dietro di lei. Aprii la borsa, presi il telefonino ‘secret eye’, lo accesi. Apparve subito la prima immagine, poi si udirono le voci, Lei guardò attentamente, ascoltò. “Eh, si, hai ragione tu, Piero, sono proprio madre e figlio. Tutto qui?” “Un momento, ti faccio vedere il resto.” Passai al secondo quadro, poi al terzo. Luisa era divenuta seria, ma avevo notato che il suo culetto non riusciva a stare fermo, lo sentivo strusciarsi sul mio pisello che a quel contatto s’andava rapidamente ergendo. “Lo sai, Piero, che queste immagini mi fanno eccitare, che dici, sono una guardona?” “E’ normale, sei una giovane sana e di normali reazioni. Capita anche a me.” “Lo sento…” E s’accostò ancor più a me. “Guarda il seguito.” Quello che la colpì maggiormente fu la donna con le gambe al cielo. Sembrava che le sue belle natiche volessero dischiudersi e imprigionarmelo. Venne spontaneo afferrarle le tette. “Vedi, Piero, che uno venga assalito da una prepotente e improvvisa eccitazione quando è giovane, e quando da troppo tempo è all’asciutto, lo comprendo, ma tra quella tardona e quel pivello non lo riesco a capire.” “Cioè, vuoi dire che può giustificarsi tra giovani?” “Certo.” “Anche tra fratello e sorella.” “Perché, non ci sta capitando? Un altro po’ e me lo infili di dietro…” “Ti dispiace?” “Stupido, come può dispiacermi!” Si voltò e con gesti precisi e rapidi, lasciò cadere vestito, reggiseno, slip. Rimasi un istante perplesso, poi la imitai, e il mio fallo le disse quanto fossi pronto. Non attese. Si aggrappò al mio collo, mi cinse con le sue gambe bellissime, e attese che le ponessi il fallo tra le sue gambe per infilarvisi palpitante. Era calda e ospitante la mia sorellina. Il suo culetto balzava nelle mie mani, e la sua vagina stava poppandolo golosamente. “E’ bello, Piero, e sono eccitatissima, non è mai stato così bello. Avevo l’oro a portata di mano e m’accontentavo dell’orpello.” Cercavo di fare del mio meglio. Un’intesa che forse neppure adusati amanti conoscevano. “Sei meravigliosa, Luisina, un vero incanto.” “Ti sono gradita?” “Mi delizi.” Intanto ci muovevamo all’unisono. Sentivo aumentare le sue contrazioni, e quando le sfioravo il buchetto erano ancora più intense.”Sto godendo Piero, e non mi capita sempre, mai così, comunque… sto godendo… ecco… tu seguita fin quando puoi… oddio Piero…. Ooooh!” Fu percorsa da tremore, da brividi, e quando sentì invadersi dal mio seme caldo, si rilassò, col capo reclinato. Stava quasi per cadere. Dovetti sorreggerla. Eravamo entrambi sudati e affannati. Si abbracciò a me, stretta, sorridente, beata. Come me. Quando riuscimmo a rientrare in noi stessi, ci guardammo sorridenti. Sembrava che non fosse accaduto nulla di meno che naturale. Ancora baci e carezze indiscrete. Decidemmo di andare sotto l’ombrellone. Dopo aver indossato i costumi, logicamente. Stendemmo i teli sulla sabbia e ci sdraiammo, per alcuni minuti rimanemmo in silenzio. Fu Luisa a parlare per prima. “E’ stato bellissimo, Piero, più di quanto immaginassi, e dire che ogni tanto non nego che un pensierino su di te l’ho fatto. E tu?” Stesi la mano, incontrai la sua, si strinsero. “Io ti ho sempre nella mia mente, non ogni tanto, e per me tu sei sempre stata un pensiero fisso.” “Davvero?” “E’ così.” “Io, invece, ho scambiato i tuoi sguardi, i tuoi abbracci, anche le tue toccatine un po’ qua e un po’ là, come l’appagamento del momento di un ragazzo un po’ eccitato a causa della sua età.” “Eccitato, eccitatissimo, a causa della tua bellezza, del tuo volto, del tuo corpicino, della tua passionalità mascherata dietro il tuo visetto innocente. E non mi sbagliava. Zitta, perché sto di nuovo andando su di giri.” “Un tuffo?” “Forse è meglio.” Corremmo verso l’acqua, ci gettammo tra le onde, subito. Per me affrettarmi era necessario per mascherare la mia eccitazione. Poi decidemmo di affittare un moscone, di quelli che hanno il piano per prendere il sole. Ci allontanammo dalla riva, ma intorno era tutto un pullulare di bagnanti, di natanti. Luisa, indifferente a quanto ci circondava, aveva tolto il reggiseno e le sue tettine svettavano prepotenti al sole, con i capezzoli bel eretti: montagna d’avorio che andava imbrunendosi con una succulenta ciliegina. La piccola striscia dello slip, tra le gambe, lasciava sfuggire i suoi peletti corvini perché, lo sapevo, lei non amava troppo depilarsi. Le piaceva la naturalezza dell’essere. Non potevo fare a meno di fissarla e, quindi, di arraparmi. Glielo dissi, sorridendo. Mi rispose che prima o poi saremmo tornati in cabina, dovevo pazientare, come, del resto, stava facendo lei, perché già sentiva l’imperio di ripetere la deliziosa esperienza precedente. Per me era un invito, atteso e irresistibile. Tornai a riva. Scendemmo, la presi per mano e ci avviammo alla cabina. Mettemmo i due teli sul pavimento, l’uno sull’altro, e intanto avevamo sfilato i ridotti costumi che indossavamo. Sedetti sui teli. Luisa venne a cavalcioni, curando che la sua bella fichetta si dischiudesse per ricevere il mio sempre più eccitato fallo. Era una buongustaia… Portò il glande tra le sue grandi labbra e lo strofinò al clitoride, poi tra le piccole, facendone entrare solo un po’, con abile movimento del bacino. Quindi si spinse in avanti, il più possibile, fin quando incontrai il fondo della sua palpitante vagina che si contraeva incantevolmente. Poi sembrò andare in altalena, con gli occhi semichiusi, il capo reclinato, e le labbra che emettevano un lungo gnaulio che m’eccitava sempre più. Era aggrappata al mio collo e le gambe erano quasi sulle mie spalle. Mi sostenevo con le mani al pavimento. Contraccambiavo appassionatamente quel suo altalenare, col suo gemito che andava incalzando. Non nascondo che temevo che s’udisse anche fuori della cabina, e certamente si intese il grido che sottolineò il suo orgasmo travolgente, seguito da un dolce rilassarsi del suo grembo, e subito dopo da nuove sussultanti contrazioni quando il mio seme si sparse in lei. Salì ancor più su me, con le gambe aperte, mi abbracciò strofinando al mio petto i suoi capezzoli rigidi, e ci baciammo a lungo, Senza che il fallo sgusciasse da lei. La sua voce era affannata. Le sue labbra mi sfioravano l’orecchio. “Piero, stiamo benissimo insieme. Non dimentichiamolo, non tralasciamo di rinnovare il nostro amore. Sempre.” Quanto avevo ascoltato e veduto, registrato, sperimentato, e più ancora ciò che mi attraeva fascinosamente, Luisa e Gianna, mi faceva riflettere sull’origine dei comportamenti. Conclusione: sesso! Gondola e remo di Gianna e suo marito. Massima disponibilità della ‘moneta’ d’Angela. Duo albionico scatenato, in quel di Tokyo. Insuperabile sessualità della languida Luisa. Proprio veri i detti del mio compagno di banco, un romano scanzonato, che li attribuiva ad ‘anonimi quiriti’. “Se lavora e se fatica, soprattutto pe’ la fica!” Ma c’era anche l’opinione di una lei: “Nun se magna e nun se regna, senza cazzo nella fregna!” Era primo pomeriggio di una giornata abbastanza calda. Me ne stavo sdraiato sul letto, indossando solo i calzoncini del pigiama, con le mani sotto la nuca, gli occhi fissi al soffitto, in questa sorta di riflessione nella quale dominava sempre e comunque , qualcuno potrebbe dire maniacalmente, la figura meravigliosa, splendida, incantevole, di Gianna. Ormai nella mia mente era solo una magnifica femmina nuda, seducente artista del piacere. Preceduta da un leggero bussare, la porta si aprì, ed era lei, come se fosse stata attirata dal mio pensiero, dal mio desiderio, dalla mia bramosia: questa volta era l’attraente che andava all’attratto. Era mia madre, con quel suo viso incantevole, che, sorridente, entrava e richiudeva la porta. Sedette sul mio letto. Era in una leggera vestaglia che poco la copriva, o nulla, e lasciava intravedere il prosperoso seno a stento contenuto nel reggipetto a balconcino, e un po’ del rosa trasparente delle sue mutandine. “Ti disturbo, Piero?” “Come potrebbe, la mia brunetta preferita?” Mi sorrise e pose la sua mano, aperta, sulla mia coscia, dove terminava il corto pantaloncino. Fui attraversato da una scossa, che mi percorse tutto, e andò a scaricarsi sul mio parafulmine che non rimase inerte. “Ascolta, Pierino, devo andare a Livorno, per un convegno, per due o tre giorni. Tu sei mai stato a Livorno?” Facevo quasi fatica a parlare. Mi raschiai la gola, la voce uscì chioccia. “No, ma’, non ci sono stato mai.” “Mi accompagneresti?” Altra scarica! La sua mano era entrata nel calzoncini, carezzava lentamente. Non poteva non essersi accorta della mia ormai totale erezione. “Mi faresti questo regalo?” La mano carezzava sempre. Sentivo, o era pura fantasia, che aveva incontrato i peli del pube. “Perché sarebbe un regalo?” “Tutto quello che mi dai è un regalo.” Insisteva, certo aveva sfiorato il mio fallo, ma sembrava non farci caso. “Vedi, dapprima ho pensato di andarci in aereo. Si partirebbe da Tessèra alle 18 per essere a Pisa circa alle 22, perché si cambia a Linate, poi devi aggiungere l’auto per Livorno. Col treno si parte alle 10,30 si cambia a Firenze e poco prima delle 15 si è a Livorno. Si può mangiare in treno. Io sarei del parere di andarvi in treno, Tu cosa pensi?” Con quella mano che non stava ferma, e che ormai frugava apertamente nei miei peli e sfiorava il mio fallo, come potevo pensare? Riuscii a spiccicare qualche parola. “Credo che sia meglio il treno.” “Sono contenta che tu sia d’accordo. Prenoto subito, è per domattina. Grazie. Ciao.” Lo afferrò proprio, sia pure di sfuggita. Si chinò su di me e mi baciò. Sulla bocca, e mi sembrò di sentire la sua lingua sfiorare le mie labbra. Mi guardò con un’espressione meravigliosa, con gli occhi che lampeggiavano. Uscì. Era troppo, non appena sentii richiudersi l’uscio della sua camera, mi levai, in silenzio, e raggiunsi Luisa, che sonnecchiava, ma che fu felice di essere destata a quel modo! Non volle che qualcuno ci accompagnasse a Santa Lucia, il nostro bagaglio era ridottissimo, specie per me. Treno semivuoto, posti comodissimi, uno di fronte all’altro, in partenza eravamo solo noi nello scompartimento. Altri due viaggiatori salirono a Mestre. Guardavo la mia splendida mammina, elegante e, almeno per me, provocante. Avrei voluto essere seduto vicino a lei, non di fronte, sentire il tepore del suo corpo che certamente non avrei voluto imprigionato nel suo leggero vestito. Come se mi avesse letto nel pensiero (si rinnovava il fenomeno di quando era entrata nella mia camera proprio mentre più intensamente pensavo a lei) si alzò e sedette al mi fianco, vicinissima, tanto che guardai di sottecchi gli altri per notare se si fossero accorti di quell’essere così incollati, malgrado il caldo che pur si sentiva con tutto l’impianto di condizionamento. Mamma prese una rivista, l’aprì, e mi indicò un articolo. “Per favore, Piero, vuoi leggerlo tu, io ho dimenticato gli occhiali. Leggi sottovoce, però, per non disturbare i signori.” Lo aveva detto in modo che gli altri avessero sentito bene. Si avvicinò ancora di più, mise la mano sul mio pantalone. Cominciali a leggere, distrattamente, cercando di comprendere cosa significasse tutto questo, perché mamma non porta gli occhiali. Ma lei non guardava il foglio, seguiva le mie labbra, attentamente. Quando finalmente giunsi alla fine, mi ringraziò, mi sorrise. Poggiò la sua testa sulla mia spalla e chiuse gli occhi. Poco prima di Bologna passarono per la prenotazione del ristorante. Mamma fece segno con la mano, per due persone. Fummo pregati di raggiungere il ristorante prima della fermata a Bologna. Dopo un po’, mamma mi disse che doveva andare alla toilette. L’accompagnai, rimasi sulla piattaforma. Quando uscì mi suggerì di prendere il bagaglio e di andare al ristorante. Andai nello scompartimento, presi le due valigette, salutai le persone, aggiungendo che ‘anche la mamma’ li salutava, e calcai su ‘mamma’. La raggiunsi, andammo nel vagone successivo, il ristorante. Era tutto calcolato, cinque minuti prima di entrare nella stazione di Firenze, il servizio era terminato, riscossione compresa. Pasto modesto, ma noi preferimmo saltare la pasta e farci servire del prosciutto e melone. Firenze. Cambio di treno, immediato. Per Livorno vetture più antiche, condizionamento peggiore, gente pochissima. Nello scompartimento eravamo solo noi. Mamma tornò a sedere vicino a me. “Allora, Piero, mi è stato detto che hai fatto delle scoperte interessanti in Giappone.” “Scoperte?” “Chiamiamole così.. Ho saputo che hai uno strano apparecchio che ti consente di violare la privacy altrui…” “Ma no, ma’, è una specie di giocattolo.” “Un giocattolo che fruga nell’intimità, con molta indiscrezione. E’ da molto che lo hai questo aggeggio?” “L’ho acquistato a Tokyo.” Mi sembrò che tirò un sospiro di sollievo. “Ma questo occhio spia, lo si vede quando è installato?” Mentii spudoratamente. “Certamente.” “E quelli non se ne sono accorti?” “Credo che avessero altro a cui pensare.” “Ah! Ma sei proprio sicuro che fossero madre e figlio?” “Certo, ma’, la signora me lo ha presentato, mi ha detto che era suo figlio Ed.” Altra bugia. “Beh, del resto può accadere che dall’affetto per la madre, quando si scatena una certa tempesta ormonica, si passi all’attrazione sessuale.” “Accade pure l’inverso?” Alzò un po’ le spalle, ma il suo viso avvampo’. “Certo, anche la madre è una femmina, con tutte le pulsioni, le tendenze istintive della femmina, e quando inizia o attraversa un periodo che altresì può definirsi di modifica ormonale, ed è sollecitata da un bel maschio, giovane e avvenente, specie se a lui è già legata da un sentimento, è abbastanza facile che questo si trasformi in attrazione sessuale.” Rimasi in silenzio, ma mentre parlava, le avevo poggiato la mano sulla gamba. Sentivo che tremava. Cercai di cambiare discorso. “In quale albergo hai prenotato, ma’?” “Uno abbastanza centrale, vicino alla sede del convegno, che si tiene a Piazza Grande, è il Giappone!” Sorrisi. “Guarda che coincidenza, stavamo parlando del Giappone.” “Dici che è una coincidenza?” Il treno procedeva, ma non velocemente, e fermava in molte stazioni. Mamma pose la sua mano sulla mia. “Quando torniamo a casa, posso vedere quella registrazione?” “Il telefonino con la registrazione video e audio ce l’ho qui. Lo uso come cellulare.” “Posso?” Esitavo, non sapevo se dovessi mostrare o meno quelle immagini esplicite e e far ascoltare quei sospiri, a mia madre. Gianna di guardò. Mi carezzò il volto, invitante. “Dai Piero, siamo adulti tutti e due, ormai.” Presi l’apparecchietto, lo accesi, richiamai la prima immagine, quella in cui lui la leccava, passai lentamente alle altre, alzando al massimo l’audio, per far intendere i gemiti, il chiamarsi ‘mommy’, ‘son’, il confidarsi il reciproco piacere e lei annunciare gli orgasmi che la travolgevano. Mamma guardava attentamente, la sua mano aveva stretto fortemente la mia e la mia stringeva la sua coscia, anzi s’era portata sul suo grembo, sentiva i riccioli del suo pube, e il palpito del suo ventre. “Spegni pure, Piero. Si vede che si desiderano. Sai, c’è un racconto del nord Europa che, in fondo, spiega questo tipo di incontro motivandolo col desiderio della donna di concepirlo di nuovo e quello di lui di ritornare nel seno materno.” “E’ bello, poetico.” Sospirò profondamente. “Gratificante…!” Eravamo a Livorno. Non ci volle molto per raggiungere l’albergo, salire nelle camere. Erano intercomunicanti. Appena fummo in camera, mamma disse che sentiva la necessità d’una doccia e poi di un riposino. Faceva ancora abbastanza caldo. Mi venne in mente di salutarla con un bacio, prima di lasciare la sua camera, ed ella mi strinse a sé e mi baciò, teneramente, dolcemente… sulla bocca. “Ciao, ma’. Buona doccia e buon riposo.” “Non chiudere la porta, Piero.” Mi trattenni abbastanza a lungo nel bagno, facendo tutto con molta lentezza, e rimuginando tante cose. Soprattutto il fatto che nella camera accanto alla mia, nel letto, ci fosse la splendida Gianna, e che la porta rimanesse aperta. Questo mi sconvolgeva. Ero convinto che avrei dovuto prendere un distensivo, un tranquillante, un ‘dearrapante’! Avvolsi attorno ai fianchi il telo a spugna e andai in camera per prendere il pigiama dalla sacca. Ma’ era già a letto, sotto il solo lenzuolo. “Piero?” “Si, ma’?” “Vieni qui.” Mi accostai al suo letto. Scostò il lenzuolo, era nuda. Tutto mi turbinò intorno, mi sembrava di cadere. “Vieni qui, lascia cadere il telo.” Oddio. Quelle erano le sue tette, quelli i suoi fianchi, il suo meraviglioso sedere…. Il suo volto era più incantevole che mai. Si mise su un fianco, volgendomi la schiena. “Abbracciami, Piero.” Non credevo alle mie orecchie, ai miei occhi, le fui vicino, l’abbracciai, il mio fallo prorompente s’inserì tra le sue natiche che l’accolsero dolcemente. Un tepore da impazzire. Il glande era vicino alla vagina di Gianna, di mia madre! Incredibile! Una mia gamba era tra le sue, l’abbracciavo, la mano le carezzava il ventre, scendeva tra le sue gambe. Carezzavo la mia mamma, nuda, tra le mie braccia. Stavo entrando tra le sue grandi labbra, sentivo il suo clitoride vibrare, il suo sesso che si dischiudeva. Era rorido, palpitante, si mosse per invitare le mie dita a visitarlo, si agitava. Quella era Gianna la sognata, la desiderata, bramata, concupita. Quelle le sue tette, quelle che avevo ciucciato da bambino. E lei si muoveva piano, con la mano aveva preso a guidare il mio glande, a portarlo dove prima erano le mie dita, e spingeva per accoglierlo, con decisa dolcezza. Quando fui in lei non potei frenarmi, e presi a stantuffarla con golosità, mentre le mani le tormentavano le tette, i capezzoli, il clitoride. Era una sensazione inimmaginabile, che superava ogni sogno. Quello che ancor più m’eccitava era che sentivo il suo piacere, sentivo che ad ogni spinta si contraeva sempre più. Voleva mungermi in lei, strapparmi il sesso, nasconderlo in lei. E beccheggiò sempre più, priva, ormai, d’ogni controllo, fino a un lungo soffocato grido. “Piero… Piero mio.. Pieroooooooooooooo!” E scaricai in lei la lunga attesa che m’aveva tormentato. Rimanemmo così, sudati e ansanti, ancora vibranti per il piacere che ci aveva accomunati e travolto, col fallo che pulsava, ricambiato dalle sue voluttuose contrazioni. Dopo qualche minuto, voltò il viso verso me. Aveva un’espressione estatica, gli occhi lucidi. La sua voce era calda, sensuale, bassa. “Sei contento Pierino?” Mi guardava teneramente. La strinsi a me. “Sono felicissimo, ma’. Sei splendida.” “Avevo compreso da tempo la tua ossessione, il pensiero che ti tormentava: fare l’amore con la tua mamma. Mi accorgevo che mi possedevi con gli occhi. Vedevo il tuo turbamento, la tua eccitazione. Sapevo che la tua passione ti faceva soffrire, ti tormentava. Ho pensato che se tu per una volta avessi potuto realizzare il sogno che ti faceva perdere la testa, tutto sarebbe rientrato nella normalità.” Rimase in silenzio, guardandomi come non aveva fatto mai. Respirò profondamente. “Ti ringrazio, mammina, ti ringrazio…” Scosse leggermente il capo, fece in modo che mi sfilassi lentamente da lei, si voltò del tutto verso me, mi prese il volto tra le sue mani. “Il fatto è, Piero…. che… mi riesce difficile dirlo… che non prevedevo, non credevo… che potesse verificarsi quanto è accaduto…” Le parole uscivano con difficoltà dalle sue labbra. Mi venne d’istinto di baciarla. Proseguì, sommessamente. “Perché il mio fine era di farti togliere un capriccio, e sapevo che… che… che… avresti goduto. Il fatto è che ho goduto anche io! Come non mai! E credo anche d’aver capito che il tuo non era, non è, un semplice capriccio. Piero, sei bellissimo, ed è stato bellissimo. E dire che ti avevo voltato le spalle perché non volevo che tu mi vedessi in viso in quei momenti. Ma ho anche perduto di vedere il tuo volto, mentre mi amavi.” Andava scaldandosi, eccitandosi, e mi trasmetteva il suo entusiasmo, il suo calore. Si avvide facilmente del mio rinnovato turgore e mi guardava fissamente. Ero supino. Salì su me, con le gambe aperte. Spettacolo divino, incantevole. Le belle tette gonfie e prominenti, gli scuri capezzoli eretti, il riccioluto boschetto tra le sue gambe nel quale era il solco della voluttà. Le grandi labbra erano enfie, carnose. Prese il mio fallo, come se compiesse un rito, con due dita, delicatamente, lo liberò dal prepuzio, lo avvicinò alla sua vagina fremente, vi si impalò lentamente, con gli occhi chiusi, mordendosi leggermente il labbro inferiore della bocca. Rimase ferma, immobile, tanto che fermai a metà strada le mani che volevano stringerle il seno. Poi iniziò un dondolio lento e lungo, languido, struggente, appassionato. Teneva le mani dietro la schiena, e ondeggiava: avanti e dietro, stringendo sempre più il mio fallo dentro di lei. Il ricordo di alcune frasi, mi portò alla mente, il mare che accoglie il remo, il remo che entra ed esce dall’acqua, e la gondola che va… A mano a mano che s’avvicinava l’approdo, il dondolio accrebbe, divenne frenetico. Poi si placò, quasi di colpo. Rimase in lieve tensione per accogliere quando dilagava in lei. S’abbatté sul mio petto, col viso alto, e mi guardava. Aveva detto, che io ‘se per una volta avessi realizzato il sogno…’ Quella limitazione, con mia somma gioia era già caduta. Non fu senza difficoltà che ad un certo momento ci alzammo, facemmo insieme la doccia, ci vestimmo ed uscimmo. Era un bene, disse Gianna, lasciare quella camera… almeno per un po’. E questo suo dire mi fece esultare. Gironzolammo per il centro, senza meta, poi ci avviamo, senza una ragione specifica, verso il Porto Mediceo. C’era abbastanza gente, qualche turista. Le ombre della sera avevano avvolto la città, reso scuro il mare sul quale s’andavano specchiando le luci dei lampioni. Ci accorgemmo che ci tenevamo per mano. Mamma era bellissima. Sembrava quasi mia coetanea. Ogni volta che la guardavo sentivo i brividi voluttuosi che m’aveva procurato. Trattoria tipica, ‘Al caciucco’. Mamma mi guardò interrogativamente. Assentii con la testa. Sedemmo a un tavolo, all’aperto. Durante la gustosa cenetta parlammo di tante cose, ma nessun accenno a quanto avevamo vissuto nell’intimità della pronuba camera d’albergo. Forse tutti e due pensavamo al ritorno. Io si. Quando ci alzammo dal ristorante, riprendemmo la strada per l’hotel Giappone. La bella Gianna era pensosa. C’era una gelateria. Mi fece cenno di sedere. Sembrava voler ritardare il rientro. Ci portarono la lista dei gelati, con le foto. C’era la coppa del buongustaio, dove sulla appetitosa cupola di crema svettava un grosso lampone. Pensai alle tette di mamma, a come le avrei voluto ciucciare. Scelse una granita di caffè. Anche io. S’avvicinava la mezzanotte. La folla era di molto diminuita. Mamma fece un profondo sospiro, si alzò. Riprendemmo la strada per l’albergo. Si mise sottobraccio, mi prese la mano e la strinse al seno. “Hai visto la foto di quella coppa, Piero?” “Ho pensato a te.” “L’ho capito.” E si strinse ancor più a me. Sentivo che nulla s’era chiuso dinanzi a me. Anzi. Prendemmo la chiave delle camere, salimmo con l’ascensore, e fummo di nuovo nella nostra intimità. “Sei stanco Piero?” “Di che?” “Forse ho abusato di te.” Le andai vicino, l’abbracciai. Ci baciammo appassionatamente, mentre le mie mani irrequiete la percorrevano dovunque. Mi guardò sorridendo. “Mi fai compagnia?” “Come potrei lasciarti sola.” Ormai non avevamo ragione per girare intorno alle cose, per mascherare il nostro desiderio, per non rituffarci ancora in quel delizioso oceano di voluttà. Io avevo anni di arretrato da compensare. Giacque sul letto, nuda, invitante, palpitante. Con quel suo modo solito di tenere le mani dietro la nuca. La penetrai lentamente, come avevo appreso che a lei piaceva, e soprattutto mi adoperai che fosse lei a raggiungere il piacere. Il glande la frugava, cercava il punto dove il contatto le procurasse maggior godimento, le dita s’erano interposte tra noi e le titillavo il clitoride. Mi abbassavo a succhiare i capezzoli. Sentivo che andava rapidamente su di giri, che sobbalzava come una molla, ed aveva abbandonato ogni controllo, la voluttà la possedeva, l’orgasmo giunse improvvisamente, con un rantolo di liberazione, e si rilassò lentamente. Le contrazioni della vagina rallentarono, cessarono, e mentre mi svuotavo in lei sentii che eravamo entrambi appagati, lieti, felici. Volle che l’abbracciassi, e dormì tra le mie braccia. Ora era lei la bambina. Mi svegliai durante la notte. Era accaduto, più meravigliosamente del previsto. Cosa mi aspettava, dopo? Sarebbe tutto finito con quella magnifica scorpacciata? Dopo aver conosciuto le delizie di quel giardino incantato, sarei tornato all’orticello ancillare, o alla pur fiorente aiola di Luisa? Mentre ero intento a pensarci, seduto sul letto e con la schiena appoggiata alla testiera, la splendida si svegliò, si stiracchiò, mi scorse nella penombra appena attenuata dalle luci che filtravano dalle finestre, e con la massima spontaneità e naturalezza, venne ad accomodarsi sulle mie ginocchia, di fronte a me, curando solo che, nel sedersi, il mio palo le si infilasse dentro a mo’ di sostegno. E quel cullar già noto ci accompagnò sapientemente a lungo. Le tette mi sfioravano, s’offrivano alle mie labbra golose, e le ciucciai avidamente. “Ti piace questo gelato, Piero?” S’era liberata da ogni blocco, la mammina, ed ora ero il suo maschio col quale s’accoppiava freneticamente, in ogni guisa. Mi auguravo che quel suo fuoco fosse duraturo e non limitato nel tempo e per il luogo. Chi altro m’avrebbe saputo donare simili sensazioni? Ed anche quella conclusione fu di nostra massima soddisfazione. S’andava facendo giorno. S’avvicinava l’ora del convegno. C’era ancora tempo, e Gianna voleva profittarne. Forse anche lei era incerta sul futuro. Meglio, quindi, approfittare del presente. Si avvicinò alla sponda del letto, guardandomi con aria maliziosa. Si sdraiò sulla schiena con le gambe penzoloni, le alzò completamente, e con la mano mi invitò ad avvicinarmi a lei, in piedi. Lo spettacolo era incantevole, mi balzò alla mente la ‘boca do infierno’, vicina a Lisboa, ma quello era l’ingresso del paradiso che, infatti, trasformò immediatamente il mio rosso diavolo in angelo beato non appena lo accolse in lei. Pose le sue manine sui fianchi e guidava il mio stantuffare che accompagnava magistralmente con le spinte del suo bacino. Era incantevole ammirarla così, e quel modo anche a lei doveva piacere perché mi scrutava fisso e cercava di cogliere ogni modifica della mia espressione quando lo stringeva, contraendosi, e lo mungeva deliziosamente. Il suo volto andava trasfigurandosi, esaltato, accesso, impallidito, estatico. Le labbra dischiuse, le nari frementi. Il grembo palpitava sempre più, e poi, raggiunto il piacere, s’acquietava, dolcemente, e le sue gambe m’abbracciavano la vita. Quando sgusciai da lei, le sue dita affusolate vollero accertarsi della consistenza del mio sesso, e dovette essere contenta della constatazione, perché, senza perdere tempo, si mise in ginocchio sul letto, con la testa sul lenzuolo, e disse che voleva provare così, per sentire tutto me stesso, e provare il piacere dei testicoli che le battevano le natiche. Per fortuna il mio remo era ancora attivo, e come, e la sua gondola ricominciò la navigazione da poco sospesa, ed approdò a sempre più incantevoli rive del piacere “E’ un balsamo, Piero, un balsamo…” E godeva sentendosi invadere dal mio caldo ruscello. Giorni indimenticabili e indimenticati, quelli di Livorno. Eravamo quasi a Mestre quando, nel corridoio del treno, guardando fuori del finestrino, e carezzandomi con le sue magnifiche natiche, mi parlò sottovoce. “Alvise, come sai, va a Trento ogni settimana, sia per la lezione all’università che per la consulenza alla Centrale. Esce di casa alle cinque del pomeriggio, per prendere il treno delle 17,50; torno il giorno dopo, alle 22,00. Ricorda, ti attenderò sempre, perché solo tu potrai dire basta alla mia attesa.”
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