Che le cose non andassero benissimo tra loro lo sapevo. Me lo aveva detto Salvatore. La moglie era gelosissima, e dava corpo ad ogni ombra. Vedeva il male dappertutto. Lo accusava di eccessiva galanteria verso quasi tutte le donne. Lei la chiamava ‘galanteria pelosa’. Gli rimproverava di averlo visto mentre conversava allegramente con Franchina, al parco comunale, seduto accanto a lei e vicino alla carrozzina della seconda figlia di Franchina, che era stata sua compagna di banco. “Salvatore” -gli aveva gridato- “non è che quella picciridda è figlia tua?” Lui, però, era anche un po’ sciocco: si sfogava con gli altri, con quelle che Sara -la moglie- credeva sue amiche; e quelle, tanto per dare sfogo alla cattiveria di cui erano impastate, invece di metterci una buona parola, seminavano maggior zizzania. Quando, poi, era presente anche Sara, assumevano atteggiamenti di grande confidenza, con Salvatore, come a voler far capire che ‘tra loro….’! E Sara rodeva dentro. Quando Salvatore mi raccontava tutto questo, io lo guardavo, un po’ incredulo, perché lui non mi sembrava proprio il tipo da attrarre le donne. Vero è che in materia è difficile capirle le donne, ma quel tipo un po’ insignificante, non brillante nella conversazione, pieno di luoghi comuni, e mentalmente limitato, non riuscivo a vederlo nelle vesti del ‘concupito’. Sara non era una sconvolgente bellezza, ma certamente una ‘bedda picciotta’ che riscuoteva eloquenti occhiate dagli uomini, insomma una ‘fimmena’ che faceva tirare la minchia. Si erano conosciuti alla piscina comunale. Lei, un po’ affaticata dalle vasche nuotate, si era fermata sul bordo, e vi si era appoggiata, esibendo una notevole e gradevolissima ipertrofia mammaria. Insomma, un paio di tettone che il bianco costume bagnato non nascondeva, ma evidenziava. Quando, poi, si ‘tirava su’, il quadro era completato da un personalino niente male delle belle gambe, un deretano a mandolino. Tolta la cuffia, era una cascata di capelli corvini. Erano in molti a guatarla, e come Salvatore fosse riuscito a farsi sposare non era ben chiaro, anche per il fatto che, pur guadagnando molto bene, non se la poteva essere acchiappata per denaro, anche perché lei aveva del suo. Io non ero andato al loro matrimonio. Non ricordo bene il motivo. Conobbi Sara l’anno successivo, quando Salvatore volle assolutamente che fossi il padrino del suo primo bambino, Lucio. In effetti non mi fece una cattiva impressione. Era cordiale, anche affettuosa, premurosa. Mi disse che il marito le aveva sempre parlato di me, il cugino più grande che viveva al Nord. Lui, Salvatore, è figlio della sorella di mia madre, quella che aveva sposato un simpaticissimo avvocato dell’isola, molto noto, ma è rimasto orfano di entrambi i genitori quando era appena maggiorenne, rimasti uccisi in un tremendo salto di corsia, mentre tornavano da Enna, dov’erano andati a trovare degli amici. Sara non volle assolutamente che andassi in albergo, che pure avevo prenotato, e sembrava che ci conoscessimo da sempre. Salvatore era venuto a rilevarmi all’aeroporto. Ero seduto il salotto. Lui era andato dal parroco per gli ultimi accordi. Doveva essere una cerimonia solenne. Aveva invitato tantissimi amici. Sara entrò con un vassoio dove erano due tazzine di caffè. Sedette sul divano, accanto a me, col vestito a mezza coscia e una scollatura che sembrava dire: ‘guarda un po’ cosa tengo’! Veramente fiorente, il petto, specie ora che allattava e che erano trascorsi solo due mesi dalla nascita del bimbo. Anche le cosce, però, veramente stimolanti. Riuscii a trattenere il sorrisetto che stava per affiorare sulle labbra. “Piero” -mi dissi- “ma che cavolo, pensi sempre alla stessa cosa! Questa, ricordalo, è la moglie di tuo cugino. E fra l’altro, è poco più che una bambina; ha quasi vent’anni meno di te!” Tutto esatto, comunque era un bocconcino prelibato, e subito pensai che era proprio sprecato per Salvatore. Non so come mi venne in testa di chiederle come andava la sua vita di sposa. Si accomodò meglio sul divano. Ebbi la sensazione che si fosse avvicinata a me. Fece un lungo sospiro. Tolse dalla mia mano piattino e tazzina, li mise sul tavolino. Mi fissò negli occhi. “Tuo cugino, caro Piero, è un farfallone, un playboy da strapazzo, una persona fatua. E’ chiddu che cerca l’aceto fuori casa e non s’accorge della malvasia che ave in casa!” Cercai di smorzare il tono che andava assumendo la conversazione. Le sorrisi, le presi la mano. “Però, mi sembra che il dolce nettare casalingo l’abbia più che libato, vista la ragione per la quale mi avete invitato.” “Certo che quando si è a letto e si è giovani, e non si ha acqua al posto del sangue, la natura ti porta a fare certe cose. Ma credimi, non è che Salvatore sia, come dire, generoso in proposito. Anzi, mi domando, quelle gran…. lasciamo andare…. che gli fanno il balletto davanti cosa ci trovino. Io credo che… lo facciano solo per un dispetto… per farmi sentire umiliata, schernita … ma…..” Non finì la frase. I suoi occhi fiammeggiavano. Le sue gote s’erano imporporate, le sue labbra carnose sembravano più piene, più rosse. La sua mano stringeva forte la mia. Che carattere, però! E quel fesso di Salvatore…. Cerimonia sfarzosa, come se fosse un matrimonio importante. La sagra dell’apparire. L’unico che non s’agitava, che non si metteva in mostra, era Lucio. Dormiva beatamente e si mosse appena quando gli furono versate sul capo poche gocce d’acqua tiepida. Per fortuna l’Arcivescovo, che si era degnato di battezzarlo, fu molto conciso nel dire le solite ‘quattro parole’ che, per la verità, furono appropriate e prive di retorica: Si scusò, però, di non poter venire al rinfresco, per precedenti inderogabili impegni (formula di rito), ma incaricava Monsignor Ausiliario di rappresentarlo. Quindi, tutti nei sontuosi saloni di Villa Igiea, sulla salita Belmonte. Sfoggio di tolette, di tette e sederi, in genere prosperosi. Se i gioielli non erano riproduzioni, c’erano in giro svariate fortune al collo, ai lobi, alle braccia delle signore, di cui alcune veramente belle. Da far girare la testa. Del resto, Salvatore ricopriva un incarico che lo rendeva prezioso nella campo della finanza regionale. Eravamo appena arrivati alla Villa, che Sara mi chiamò. “Padrino, vuoi vedere come mangia il tuo figlioccio?” Non era certo un invito da rifiutare. Lucio era nella carrozzella, allegro e sorridente, in attesa di farsi la sua solita bevuta. Mi prese per la mano, Sara, e ci avviammo verso una grande porta di noce. Entrammo in una specie di salottino. Sedette sul divano, mi fece cenno di sedere in poltrona, di fronte a lei. Sbottonò il vestito, ne emerse una grazia di dio da far restare senza fiato. Le tirò fuori tutte e due. Tettone come globi di marmo candido, con venuzze bluastre, turgide, invitanti, eccitanti. La guardavo incantato. “Vedi che lo tratto bene il tuo figlioccio. Che dici?” “Resto senza parole e pieno d’invidia. Beato lui.” “Che fa’, Piero, fai il galante?” “Ma figlia mia, non è galanteria, complimento: è deliziosa e paradisiaca visione. E’ vero che non sono più giovane… ma…come si dice… sempre masculo sono!” “Che dici, Piero, vecchio? Ci fossero giovani come te!” In effetti il seno di Sara era eccitante, e ne subivo le conseguenze. Lucio cominciò a succhiare, voracemente, avidamente. “Ha fame…” “Vieni a vedere come tira… vieni… avvicinati.” Mi avvicinai a lei, con la poltrona, mi chinai sul piccolo che poppava. Era uno spettacolo incantevole. Sara mi guardò. “Senti come sono dure, se non beve mi si incordonano.. senti…” Allungai una mano, sull’altra poppa. La sfiorai, azzardai una carezza, ne saggiai la compattezza, il capezzolo rubino si eresse di colpo, turgido. Sara si morse il labbro inferiore. “Il tuo figlioccio stringe, forte… come il suo padrino…!” Ancora una carezza, poi tornai a sdraiarmi sulla spalliera della poltrona. “Sei veramente bella, comare mia. Si’ bianca e rossa comme ‘na cirasa. La cirasa che si sta godendo Lucio, e che si gode tuo marito…” “Lasciamo stare. Ecco, ora lo passo all’altra parte.” Attaccò Lucio all’altro capezzolo, e quello seguitò a ciucciare. Nei saloni, intanto, si affollavano al fornitissimo buffet. In uno, l’orchestra invitava alle danze. Quando Lucio fu sazio, e lo dimostrò sonoramente, Sara lo affidò alle cure di Agata, la domestica, mi disse di andare anche noi di là. Mi ricordò che il padrino doveva fare il primo ballo con la madre del battezzato. Fummo accolti da un susseguirsi di complimenti, auguri, presentazioni, strette di mano, sorrisi stereotipati o ebeti, frasi senza senso. Tutta gente che, secondo me, non avrei mai più visto di nuovo. Evidentemente Sara aveva impartito egli opportune disposizioni all’orchestra, perché al nostro ingresso nel locale dove suonava, e tra i battimani degli astanti, iniziò un vecchio tango argentino: Plegaria, preghiera. La gente si manteneva in giro, attendendo che il padrino e la madre del battezzato iniziassero le danze. Sara, invece, li invitò a ballare tutti La festa era per Lucio, ma tutti dovevano parteciparvi, insieme. Si formarono le coppie. Noi eravamo al centro. Non sono un provetto ballerino, e il tango non è il ballo che conosco meglio. D’improvviso, sentii che Sara s’era appiccicata a me come un francobollo, come una ventosa. Non solo le sue poppe premevano sul mio petto, ma il grembo si strofinava in modo inquietante, le gambe si aprivano, accoglievano la mia, la stringevano. Un po’ era vero, molto era la fantasia, ma sentivo il suo sesso sulla mia coscia, mi sembrava addirittura di percepire il turgore delle sue grandi labbra, e lei, accortasi dell’evidente effetto della manovra, era ineguagliabile nell’approfittarne. Un po’ troppo, perché con tutto quella dovizia della natura tra le braccia (e tra le gambe) le conseguenze possono essere più che imbarazzanti. Era una furbacchiona, Sara. Ad un certo momento disse che aveva bisogno d’aria e ci avviammo al balcone. Il parapetto al quale eravamo appoggiati era un po’ la mia salvezza. Salvava le apparenze. Mi guardò negli occhi. Era un po’ su di giri. Pose la sua mano sulla mia. “Che fa’, Piero, sei eccitato anche tu?” Quel ‘anche tu’ mi sorprese e per un istante non sapevo come reagire. Scelsi la strada d’una cauta ma decisa esplorazione. “Io si. E tu?” “E come vuoi che rimanga indifferente! Con quel tuo… promemoria che mi fruga…!” “Scusa.” “No, non devi scusarti. Una fimmena è sempre orgogliosa di sollevare certe attenzioni… ma…..” “Ma, cosa?” “Niente… volevo dire che forse abbiamo scelto il momento meno opportuno.” Il sondaggio doveva proseguire. Mi avvicinai di più a lei. Le parlai sottovoce, nell’orecchio. “Qui, però, hanno delle belle e accoglienti camere…” “Pazzo sei? Qui, dove tutti mi conoscono, con tutta questa gente… Ma che fa’, scherzi?” “Allora?” “Torniamo dentro, altrimenti… sai domani i discorsi… Anzi, sai che devi fare? Devi invitare a ballare la moglie del sindaco… Faglielo sentire anche a lei… che ne ha bisogno più di me…!” Tornammo nelle sale. Erano trascorsi circa sei mesi da quel giorno, dal mio anticipato e precipitoso ritorno in sede, con la trita scusa di improvvisa, imprevedibile e indispensabile esigenza della mia presenza… Sara mi guardò fisso negli occhi, cercando di comprendere il motivo di quella fuga. Mi abbracciò con foga, incurante della presenza del marito che mi avrebbe accompagnato all’aeroporto. Ringraziò per il ‘pensierino’ che avevo avuto per il mio figlioccio, disse che quello era il bacio che mi dava per conto del bambino, strofinò le belle tettone sul mio petto, e rimase al balcone a vedere l’auto che si allontanava. Sara telefonava, ogni tanto. Diceva che il piccolo voleva rivedermi, mi faceva sentire come i vagiti s’andavano trasformando in gridolini… Poi fu Salvatore a chiamarmi. Mi chiese se avessi qualche ‘amico’ presso un certo Ente che avrebbe selezionato una ‘assistente’ per la Sede di Palermo. Sara aveva fatto domanda ed era stata invitata a Roma per il lunedì successivo. Lui non poteva assolutamente accompagnarla. Aveva prenotato una camera all’Hotel X, perché non voleva darmi fastidio. Capii che, forse, vi erano anche altri motivi per questa decisione di non accettare la mia ospitalità e, quindi, le mie insistenze furono solo deboli e formali. Lo assicurai, comunque, che sarei andato io a Fiumicino ad attendere Sara, e che sì, conoscevo qualcuno, si dava il caso che fossi amico del Direttore del Personale di quell’Ente. Finita la telefonata, mi sorpresi a pensare a Sara, a quella specie di frenesia che m’era presa, e che le era presa, durante il breve soggiorno in occasione del battesimo. Certo, meditavo, è una bella donna, un bocconcino che solletica, che ingolosiva. Fui perfino assalito da qualche scrupolo: è la moglie di mio cugino. Poi finii col concludere che stavo facendo i conti senza l’oste. Io facevo finta di riflettere se fosse il caso o meno di portarmi a letto Sara, ed ero perfino disposto a rinunciarci perché… perché, forse, lei non si stava! Questa la verità. Telefonai al mio amico, mi disse che ‘ci avrebbe pensato lui’, che stessi sicuro. Ordinai dei fiori da far trovare nella camera dell’albergo. Domenica, il volo AZ 1782 era incredibilmente in orario. Sara era più bella che mai ed elegantissima nella sua semplice tenuta da viaggio. Mi sembrava appena un po’ più magra, e più attraente. Aveva occhi sfavillanti. Notai, però, che nel salutarmi, non fu esuberante com’era suo solito. Il caratteristico baciare lieve sulle guance, quasi un accennarlo, e senza avvicinarsi, senza abbracciarmi. Attendemmo il bagaglio. Mentre eravamo vicini alla ‘giostra’ che doveva restituirci la valigia, mi sussurrò che c’era un sacco di gente che la conosceva, amici di Salvatore e, soprattutto, malelingue. Mi parlò del piccolo, che cresceva bene e faceva progressi quotidiani. Le dissi che mi spiaceva che non avesse voluto accettare la mia ospitalità. “Io? Ma è stato Salvatore, non tanto perché è geloso lui, ma anche perché se la ‘gente lo venisse a sapire chissà cosa direbbe’! Capisci?” “Ah!” “E sta sicuro che mi telefonerà in albergo, che chiederà anche se è venuto qualcuno a cercarmi… Lui alla forma ci tiene moltissimo…!” Bagaglio ritirato, messo sul carrello, e ci avviammo al parcheggio. “Sara, ormai è l’una, ora di pranzo. Che fa, vuoi andare prima in albergo?” “Forse è meglio, mi do anche una rinfrescata. E’ lontano?” “Lontano da dove? Da casa mia è a cento metri, ed è nella zona dove tu devi avere il colloquio di selezione.” “Salvatore mi ha detto che tu hai amici, là!” “Si, un mio caro amico. Gliene ho parlato.” Eravamo giunti all’auto. Trasbordai la valigia, aprii lo sportello per farla salire, andai al posto di guida. Sara girò lo sguardo intorno, non c’era nessuno. Mi buttò le braccia al collo, mi baciò freneticamente, golosamente. Da togliermi il fiato, sì, ma il messaggio era giunto rapidamente… all’interessato che non riusciva a star fermo. Quindi, rimanevano i miei scrupoli! Ma quali? Le sorrisi con aria da stupido, ma ne profittai per una bella ispezione tattile coscio-mammaria. Tutto OK! Ci avviammo all’Albergo, appena entrati in città, nella zona che era stata destinata all’Esposizione Universale di Roma, mai realizzata a causa della guerra, prima, e poi per la sparizione del regime che l’aveva ideata e programmata. Ottimo Hotel, e, tra l’altro, non distante dal luogo del famoso colloquio che doveva affrontare Sara. Alla Récéption controllarono la prenotazione, chiesero un documento, dettero la chiave della camera all’incaricato di accompagnarla. Io, ad alta voce, e in modo che mi notassero e sentissero, dissi a Sara che l’avrei attesa al bar. Comunque, io giocavo ‘in casa’. Abitavo sulla piccola collina dalla quale si poteva vedere il laghetto artificiale, l’edificio dove doveva recarsi Sara. C’era, poi, da scegliere tra vari ristoranti, da quello pseudo-sofisticato per ricchi turisti, con cucina anonima, a qualche simpatico e caratteristico locale dove si poteva mangiar bene. Ero al bar, dietro i vetri che guardavano sulla piazza. Mille idee, forse mille illusioni. Comunque, Sara era un gran bel pezzo di… (ognuno aggiunga il termine dialettale che conosce), con poppe superbe e deretano in concorrenza; senza parlare dei lunghi capelli, delle gambe snelle… e di quella focosità che emergeva di quando in quando. Certo, che nell’intimità doveva essere ben passionale. Mentre stavo così rimuginando nella mente, non lasciando in pace l’impaziente strumento interessato, Sara giunse alle mie spalle. Sì, era proprio bella. Soprattutto bbbbona! “Sei proprio un incanto, comare mia. O preferisci che ti chiami cugina?” “E se mi chiamassi Sara?” “Era per…avvicinarti di più.” “Perché mi senti distante?” “Veramente…” “Piero… ho fame!” Le chiesi se preferisse la forma o la sostanza. Mi guardò con un certo sorrisetto. “A volte la forma è anche sostanza. In ogni modo, desidero che tu mi faccia conoscere qualcosa di speciale. Da te me lo attendo.” “OK. Se non ti dispiace, possiamo andare a piedi. Non è lontano.” “Si, sento proprio il bisogno di muovere le gambe.” Poi pensai che se dopo il pranzo avesse accettato di venire a casa a prendere il caffè, era meglio avere l’auto pronta. Mi venne in mente di dare le chiavi dell’auto al portiere, pregandolo di farla parcheggiare dinanzi al ristorante che gli indicavo; dopo aver sistemato la macchina, il fattorino doveva, gentilmente, cercarmi e ridarmi le chiavi. Così avevo il piacere di camminare per un breve tratto con lei, e non le lasciavo tempo di pensare troppo, dopo il pranzo, per dire si o no al mio invito. Simpatica e allegra commensale. Qualcuno si girava per guardarci. In effetti era un po’ giovane per me e l’aspetto era quello di una coppia in cui lui é abbastanza più attempato. Quando, al termine del pranzo, le proposi di andare a prendere il caffè da me, mi guardò con espressione molto seria, e mi disse che ci avrebbe pensato andando verso l’auto. Quando il fattorino dell’albergo mi aveva dato le chiavi della vettura, aveva creduto che le avessi lasciato al bar. Ci avviammo all’uscita. L’auto era lì. Mi avvicinai, tenendola lievemente per un braccio, aprii lo sportello. Sostò per un attimo. Salì. Non abitavo lontano, guidai molto lentamente, affrontai con la massima calma la breve salita, aprii il cancello col telecomando, andai a fermarmi dinanzi al piccolo portone di legno chiaro. L’aiutai a scendere, entrammo. “Sei solo?” “Oggi sono tutti a riposo, è domenica.” “Scusa, dov’è la toilette?” “Vieni, ti accompagno.” Accesi le luci del vasto ingresso, spinsi il pulsante per alzare le serrande, la condussi al piano di sopra. Le indicai il bagno. Lei entrò, notai che non chiuse la porta a chiave. Mi avviai verso il salottino, aprii il balcone, andai a sedermi sul divano. Sara, uscendo dalla toilette, vide la luce della stanza dov’ero e vi si diresse, entrò, mi sorrise, andò al balcone, la raggiunsi. “E’ bello. Quell’edificio laggiù, sul laghetto, è dove mi attendono per la selezione?” “Si. Preferisci un caffè o un cognac?” Mi guardò sorridendo. “Diamoci alla pazza gioia, vada per un cognac.” Entrai, presi due bicchieri, la bottiglia del cognac e misi tutto sul basso tavolinetto. Andai a sedere sul divano. “Sara!” “Si?” “Il cognac!” Entrò. “Ti dispiace se siedo sulla sedia, di fronte a te? Mi piace vederti così.” “Prego.” Presi la sedia, l’accostai al divano. Sara sedette. Non era male, la gonna lasciava scoperte le gambe, sopra al ginocchio e, accavallandole, mi gratificava di uno spettacolo incantevole e invitante. Riempii i bicchieri, gliene porsi uno. “Alla tua bellezza, Sara!” Alzò il bicchiere senza dire nulla. Non sapevo da che parte cominciare, se prenderla alla lontana o andare direttamente allo scopo. “Hai una bella casa, Piero, silenziosa.” “Se siedi qui, di fronte al balcone, avrai una bella vista.” Si alzò. Le presi la mano. La tirai dolcemente verso me, la feci sedere sulle mie gambe. Non credo che se lo aspettasse, ma ci si accomodò dolcemente, sorridendomi con aria di complicità. La strinsi un po’, abbracciandola. Sentivo il desiderio di cullarla, di carezzarla, di baciarla. E cominciai a cullarla, delicatamente; poi a baciarle il collo, a carezzarla. Mi sembrava una bambina un po’ cresciuta. Ma era bello tenerla così. La mano andò sulla sua coscia, sotto la gonna, salì, sentì la pelle nuda, liscia e vellutata, e per un po’ restai così. Lei aveva gli occhi socchiusi, era alquanto abbandonata, si vedeva che ‘stava bene’. Pensai se… procedere… o temporeggiare. Comunque, andare un po’ più su con la mano non voleva significare nulla. Le sue gambe erano ben strette. Sentivo, però, il tondo e sodo tepore dei suoi glutei che non mi lasciava insensibile. Andai più su. Ecco, quelle erano le mutandine. Mi infilai in esse, incontrai il folto dei suoi riccioli: erano tantissimi, serici, il pube era ornato d’un folto bosco che avvolgeva tutto. Dovetti farmi strada in esso, con le dita tremante e curiose, per sentire il turgore delle grandi labbra. Strinse le gambe. Mi prese il volto tra le mani. “Piero, ti prego… no… non adesso… Mi piace stare qui, ma, ti prego… togli la mano…” Tolsi la mano e la strinsi a me, baciandola piano piano. Rimanemmo così, a lungo. ^^^ Il mio caro amico Giorgio, al quale avevo segnalato Sara, aveva elegantemente esercitato la sua determinante influenza. Il colloquio fu una mera formalità. Sara fu accolta con molta cortesia. I selezionatori, colpiti dalla procace carnalità della candidata, malignarono sui rapporti tra la donna e il ‘boss’ che era intervenuto. Avevo accompagnato Sara. Giorgio mi aveva detto di andarlo a trovare, avremmo fatto due chiacchiere mentre Sara avrebbe incontrato coloro che l’avevano convocata. Lei prese l’ascensore per il dodicesimo piano, a me toccò andare all’altro, quello riservato al diciannovesimo. Mentre stavamo ricordando gli anni dell’università, a Giorgio giunse una telefonata. Ringraziò l’interlocutore e lo pregò di far accompagnare la signora da lui. Dopo poco, la segretaria annunciò che c’era il dottor Rossi con una signora. Si era disturbato il capo selezionatore in persona (in effetti era curioso di assistere all’incontro tra raccomandante e raccomandata). Giorgio disse di farli entrare. Si alzò. La porta si aprì, entrò Sara seguita dal suo accompagnatore. Io feci le presentazioni. “Sara, questo è il mio amico Giorgio. Giorgio, mia cugina Sara.” A mia volta, conobbi Rossi che aveva una strana espressione di sorpresa sul volto. Non immaginava che il ‘boss’ incontrava Sara per la prima volta. Giorgio chiese a Rossi come fosse andato il colloquio. Gli fu assicurato che Sara era certamente in testa alla lista delle idonee. Giorgio ringraziò, gli strinse cordialmente la mano. Sara lo gratificò di un incantevole sorrise, gli tese la mano. Poi fu la mia volta a salutarlo. Rimanemmo ancora un po’. Giorgio si scusò, ma precedenti impegni gli impedivano di invitarci a pranzo come avrebbe volentieri fatto, ma si riprometteva di incontrarci di nuovo. Ci accomiatammo. Nell’ascensore Sara mi schioccò un caloroso bacio sulla guancia. “Sei una potenza, Piero!” Appena fuori dell’edificio, prese il cellulare e telefonò al marito. “Tore, tutto bene è andato. Tuo cugino, il nostro compare, importante é. Ha pensato a tutto. Si, te lo passo. Io credo che verrò questa sera, mi sembra che ci sia un volo che arriva verso le dieci e mezzo…. No, devo tornare nel pomeriggio per alcuni adempimenti formali… te lo passo…” Mi dette il telefono e non fu facile arginare la valanga di affettuosi ringraziamenti da parte di Salvatore. Il cielo era limpido, sereno. Gli occhi di Sara sfolgoranti. Si mise sottobraccio. Respirò profondamente. Le tette sembravano voler esplodere! “Piero, ho fame. Che ora sono?” “Ora del pranzo.” “Che fa, andiamo allo stesso ristorante di ieri? Mi piace. Dopo vorrei passare un momento in albergo. Ho in mente una sorpresa, per te. Ti devo far vedere come so ballare!” “In albergo?” Rise divertita. “No, a casa tua. Ma devo prendere alcune cose. Tanto per essere a Fiumicino alle otto e mezza di sera ci vuole tempo. Posso chiamare un taxi da casa tua…” “Ti accompagno io…” “Si, ma adesso devo prenotare l’aereo…” Prese di nuovo il cellulare, chiamò la compagnia aerea. Le assicurarono che c’era ancora posto sul volo AZ 1797, per Palermo, e le raccomandarono di fare per tempo il check-in per non perdere la prenotazione. Si aggrappò al mio braccio. Andammo al parcheggio, salimmo in auto. In breve fummo al ristorante. Trovammo perfino posto per parcheggiare. Ordinai dello champagne, per brindare. Sara era euforica. Dopo il pranzo, durante il quale cinguettò piacevolmente, mentre ogni tanto metteva la sua mano sulla mia, mi propose di passare per l’albergo. Avrebbe pagato il conto, preso la valigia e, una vota a casa mia, si sarebbe esibita nella sua danza. “Che danza, Sara?” “Raks Sharqi!” “Cosa è?” “Vedrai. Non preoccuparti, ho tutto, anche la musica.” In effetti ero curioso. Sara danzatrice! Mentre era in camera a prendere le valigia, saldai il conto, lasciai la mancia. Sara uscì dall’ascensore, seguita dal fattorino con la valigia. Si avviò per pagare. Le dissi che era tutto fatto. Stava per dire qualche cosa. “Ne parliamo dopo, Sara, ti dispiace?” Alzò le spalle. Facemmo caricare la valigia nell’auto. Salimmo. Pochi minuti, ed eccoci a casa. “Piero, non mi va di dire a Salvatore che il mio conto d’albergo lo hai pagato tu.” “E perché glielo devi dire?” “Lui, pignolo com’é, vuole la fattura.” “E tu gliela dai, eccola!” Le porsi la fattura. “Salvatore mi rimborserà la somma.” “E tu ci compri le cioccolatine…” “Un quintale… così m’ingrasso ancora di più!” “Stai benissimo.” E accompagnai il complimento con una bella stretta sulla coscia morbida e tiepida. Volle prendere la valigia. Le serviva. Disse che doveva cambiarsi, per danzare. Chiese dove potesse inserire il CD con la musica. Le mostrai il lettore. Per cambiarsi (?) doveva andare al piano superiore. “Questo è il CD, mettilo nel lettore ma non accendere. Attendimi nel salotto, torno subito. Attenua le luci. Sul CD vie era un titolo ‘Raks Sharqi’, e delle parole scritte in arabo. Andai a sedere sul divano. Dopo qualche minuto, apparve una figura, avvolta in una lunga veste vaporosa, il galabeya, e con un foulard in mano. Il volto era scoperto, con lunghissimi capelli neri che scendevano fin oltre le spalle. Sara. Mi guardava sorridendo. Era del tutto trasformata. Una bellezza esotica, conturbante, provocante. Andò al lettore e lo accese. Una lenta musica esotica cominciò a diffondersi. Lei era di fronte a me, la veste era velata. Nascondeva ed evidenziava. Doveva essere l’unico indumento che indossava. Lo si comprendeva dal risalto del seno prosperoso, dei fianchi tondi; dallo scuro triangolo che si scorgeva sul pube. Prese a muovere le mani, con sapienti e attraenti ondulazioni. Un breve, rapido, movimento, e una parte della veste cadde ai suoi piedi scalzi. Un velo sul petto, un altro intorno alla vita. Era eccitantissima. La musica andava incalzando, ritmando il roteare dei fianchi, mentre l’addome sembrava percorso da lunghe incalzanti ondate che si scendevano nell’inchiostro del nero bosco che si perdeva tra le gambe. Il tronco disegnava lente torsioni, con dolcezza, con gioia, con rabbia, con malinconia. Una esibizione carica d’erotismo: provocazione, invito, ritrosia, promesse… Seguivo ammaliato. Si avvicinava a me…. Si allontanava. Allungai una mano, presi il lembo del velo che le cingeva il seno. Rimase tra le mie dita. Il petto, ora, sussultante al ritmo della musica, era una irresistibile attrattiva. Cercai di carezzarlo… mi sfuggì… Riuscii ad afferrare l’orlo del foulard che le cingeva i fianchi. Rimase nuda. Incantevole. Chi era? Salomé… Sheherazade… una baiadera… Era Sara, splendida, accaldata, eccitata… Si fermò di colpo, genuflessa… Mi alzai, mi avvicinai, le presi le mani, la feci alzare, la strinsi a me, appassionatamente, follemente… Così com’era, visione incantevole, la condussi nella mia camera… La sollevai dolcemente, la deposi sul candido del letto… Più bella di Maya denuda… Mi chinai a baciarla. Tuffai il volto tra le sue gambe nel folto vello del suo grembo serico, la lingua la cercò, s’intrufolò in lei, incontro l’eccitazione del suo clitoride, assaporò la linfa della sua passione… mentre frettolosamente mi liberavo d’ogni impaccio… Sara palpitava, sobbalzava, gemeva… Non resistei all’urgenza di essere in lei… Mi accolse freneticamente, spasmodicamente, voluttuosamente, mi suggeva come una mungitrice impazzita… Fu scossa da trasalimenti deliziosi, travolgenti, sconvolgenti, fino al momento in cui si fermò un attimo, cacciò un lungo gemito, si accasciò sfinita, mentre tutto il mio desiderio si riversava in lei… in natural vasello! Era supina, ancora col respiro leggermente ansante, le gambe appena dischiuse, le grosse e sode mammelle invitanti. Mi avvicinai, le baciai il seno, lo lambii. Intorno all’areola. Presi il capezzolo tra le labbra. Era un grosso rubino, turgido. Era bello suggerlo lentamente. Sara mi carezzava dolcemente il volto. Quel ciucciare, quelle carezze, quel sentirla vicino, non mi lasciarono insensibile. La sua mano cercò tra le mie gambe. Era bagnato di lei, di me. Le sue abili dita lo stavano facendo rapidamente tornare pronto per un nuovo assalto. Era inebriante. Mi spinse dolcemente, facendomi sdraiare completamente, sulla schiena. Salì su me. A cavallo, sorreggendosi sulle ginocchia. Spettacolo affascinante. Le sue meravigliose tette, il vello nero del suo grembo, i suoi occhi sfolgoranti, le nari frementi. Si sollevò appena, sulle gambe, prese il fallo e lo indirizzò alla sua vagina, vi si impalò piano piano, fin quanto ne poté accogliere. Cominciò a ondulare lentamente il bacino, si riversò su me, riuscii ad afferrarle una mammella, a stringere ancora il capezzolo tra le labbra, a tornare a ciucciarlo, voracemente. Come andavo poppando, così si contraevano le pareti della vagina succhiando quanto andava serrando in sé, sempre più freneticamente. Sentivo dai suoi palpiti, dalle vibrazioni del suo sesso, dall’incalzare dei gemiti, dei mugolii, che stava raggiungendo l’orgasmo. Aveva la testa leggermente rovesciata indietro, gli occhi socchiusi lasciavano intravedere solo il bianco della sclera, il suo volto era in estasi, rapito, incantato. La voluttà massima ci avvolse nel medesimo istante. Fu eccezionale. Giacque su me. Incantevole peso. Non ricordo quanto tempo restammo così. Mi guardò. “Lo sapevo, Piero, dal primo momento. Ma non immaginavo che potesse essere così bello. Devo partire, devo lasciarti… Come farò? Quando verrai da me?” Le sue lacrime mi bagnavano il petto. “Vedrai, bambina bella, che troveremo il modo per essere ancora insieme…” “Me ne devo andare… Devo tornare da Salvatore… che dice che è ‘toi frati’… come faccio a stare ancora con lui… non lo voglio… io voglio te…” La sua voce andava abbassandosi. “Voglio a tia, Piero, a tia…” Sempre più fioca… “…tia…” Si assopì. Era bello poterle carezzare la schiena, i fianchi, la rotondità delle natiche… Un peso incantevole. Sentivo il suo petto sul mio; la seta del suo pube; il suo respiro; il suo odore… Tutto ciò mi eccitava ancora. Immaginavo una femmina calda, appassionata, ma la realtà aveva superato ogni più rosea immaginazione. Sara era il mio perfetto complemento. Noi eravamo fatti l’uno per l’altra. Non avevo mai conosciuto una donna così. Quel… ‘Salvatore dice che è toi frati’, però, mi aveva alquanto turbato. Turbamento d’un istante. Le mie mani la carezzavano, ero stato in lei, mi aveva stretto in sé Chissà quanto tempo siamo rimasti così. Poi, si è mossa piano piano. Ha sollevato il capo, mi ha guardato, mi ha sorriso. D’un tratto, s’è messa a fissare sul tappeto. Si è spostata, senza però scendere da me. Si è alquanto spencolata dal letto, scivolando lentamente, seguitando a guardare, fino a scendere del tutto, carponi, sempre guardando e cercando. “Cosa fai, Sara?” “Credo che mi sia caduto un orecchino.” Mi volgeva le spalle. Uno spettacolo affascinante, meraviglioso, ammaliante, seducente, adescatore. I suoi fianchi che si muovevano felinamente, le belle natiche, le poppe appena pendenti. Sgusciai anche io dal letto, gattoni, come lei; dietro di lei. Le baciai i glutei, li separai appena, vi intrufolai la lingua, percorrendo golosamente quella valle maliosa. Si fermò di colpo. Ero eccitatissimo. Lei sentì il mio fallo che le si andava intrufolando tra le natiche. Con le bianche dita affusolate le scostò, si tirò indietro, fece in modo che la sua rorida e palpitante vagina incontrasse il glande. I nostri movimenti furono sincroni. Ero nuovamente in lei. Le afferrai le poppe. La frugai tra le gambe, titillai il piccolo clitoride palpitante, Volevo non affrettarmi, ma il desiderio ebbe il sopravvento e lo stantuffamento fu impetuoso, travolgente, fino a quando non godemmo insieme. Sfrenatamente. Si distese sul tappeto. Io su lei, in lei. Sara s’era imbarcata sul volo che la riportava a casa. Dall’aeroporto telefonai a salvatore. “Salvatore, tua moglie sta decollando per tornare da te.” “Ho saputo come l’hai trattata. Sei proprio un fratello. Grazie di tutto.”
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