Quel pomeriggio stavo studiando da solo nella mia camera. Per un attimo mi distrasse lo squillo del telefono, che risuonava in sordina all’altro capo della casa, ma non mi preoccupai di rispondere sicuro che lo avrebbe fatto mia madre. Così fu: dopo due o tre, i trilli cessarono e per un po’, nel silenzio, tornai a concentrarmi sul libro che stavo leggendo. Ma ben presto sentii il tono della voce di mio madre crescere e farsi più spezzato, come di chi affrontasse una discussione animata. A un certo punto, la sentii urlare distintamente: – Se non lo fai adesso, allora, non ci tornare mai più, in questa casa! – cui subito seguì un gran fracasso. Mi alzai di scatto dalla sedia e corsi in salone: era vuoto, il telefono sul pavimento, dove lo aveva fatto arrivare la furia di mia madre, tanto violenta da averlo staccato dalla presa e dall’aver rotto la cornetta i cui pezzi si erano sparpagliati. Mia madre non era nel salone, né nelle stanze adiacenti e non rispose nemmeno quando la chiamai. Ma, arrivato dietro la porta della camera da letto, ne udii i singhiozzi. Poiché sapevo bene cosa stava succedendo, non esitai ad aprire la porta ed entrare. Sdraiata di traverso sul letto, il volto tra le mani, le spalle agitate da singulti, mamma sfogava in pianto la rabbia dopo l’ennesima litigata con mio padre. Sedetti al suo fianco sulla sponda del letto: – Cos’è successo, stavolta?” chiesi tanto per dire qualcosa. Conoscevo bene la situazione: mio padre, ricco finanziere che da tempo passava da casa solo per cambiare gli abiti o per fare valigie, aveva trovato qualche nuova scusa per prolungare le sue assenze. Non c’era niente da dire o da fare per consolarla. Poggiai una mano sulla schiena di mamma per farle sentire che, almeno io, le stavo vicino. Lei si sollevò e mi abbracciò, continuando a piangere contro la mia spalla. Lui sarebbe stato via ancora per giorni – mi spiegò tra i singhiozzi – passandoli con la sua amante. Lei gli aveva detto di non tornare più. Mia madre smise improvvisamente di piangere e mi guardò con i suoi grandi occhi scuri rossi di lacrime: – Stavolta è l’ultima, Marco. Non ne accetterò altre. E’ finita per sempre. Non era proprio la prima volta che mamma dicesse cose del genere. Ma stavolta mi sembrò effettivamente determinata. Le risposi d’istinto: – Io sto con te mamma. Sono dalla tua parte. Lei non rispose ma mi abbracciò di nuovo, forte. Sentì il suo seno che premeva contro il mio torace e la sua guancia calda contro il mio collo. Le carezzai i capelli neri e ripetei: – Non ti lascerò da sola, mamma. *** Sì, questa volta mio padre aveva passato proprio la misura dell’esasperazione di mamma. Nei giorni successivi lei fece cambiare le serrature della porta. Poi chiamò la segretaria di mio padre avvertendola e dicendole di mandare un autista della società a ritirare ciò che restava delle sue cose. Quello stesso pomeriggio venne nella mia camera: – Ho chiamato l’avvocato, Marco. Non aggiunse altro. Stava seduta con lo sguardo nel vuoto. Percepivo chiaramente il suo tormento. – Mi pare la cosa giusta – dissi, in realtà intendendo che ormai da tempo anch’io mi ero rassegnato all’inevitabile. – Ho bisogno che tu mi stia vicino. Senza il tuo aiuto non ce la farò. Andai vicino a lei e l’abbracciai: – Mamma, io non ti abbandono. Puoi fidarti di me. In realtà a me la cosa non provocava particolari emozioni. Mi ero abituato da parecchio a non avere una famiglia. Mio padre per me era stato non un estraneo, piuttosto una presenza talmente lontana ed evanescente da chiedersi talvolta se esistesse veramente. Del resto non si smentì neanche stavolta: ricevetti una telefonata frettolosa in cui biascicò bruscamente alcuni argomenti tesi a dimostrare che le colpe – “nonostante le apparenze” – non stavano tutte dalla sua parte e poi mi chiese se davvero volevo restare con mia madre. Alla mia risposta affermativa, probabilmente si sentì sollevato (sebbene non avesse apparentemente alcuna reazione) tanto da aggiungere subito che naturalmente la bella casa in cui vivevamo sarebbe stata nostra e che sarebbe stato suo impegno non farci ridurre tenore di vita. Mio padre – da che potessi ricordare – si era sempre occupato solo dei suoi affari, ma, questi ultimi sapeva farli davvero bene. – Quando sarai all’Università, poi parleremo del tuo futuro – concluse, facendomi per la prima volta capire che sapeva che ero all’ultimo anno del liceo. Penso che mia madre l’avesse amato sul serio quando si erano sposati. Lei aveva circa vent’anni. Dopo otto anni – cioè, penso, in una rara pausa tra un meeting e un viaggio d’affari di lui – ero nato io. Le foto di mia madre da giovane la mostravano come una splendida ragazza, mora e dalla carnagione naturalmente abbronzata. Anche adesso, quarantacinquenne, era una bella donna, dal fisico snello e curata nell’aspetto. Aveva studiato ma non aveva mai lavorato, né l’avevo mai vista occuparsi di faccende domestiche. Solo il volto, con qualche ruga e un’ombra di malinconia che non la lasciava mai, rivelava lo stress e le umiliazioni della vita passata a fianco del marito. Di lui era sempre stata un po’ succube e la decisione di separarsene sicuramente era motivo di angoscia più che di sollievo. Nei giorni che precedettero il primo incontro dall’avvocato mi parve spesso sul punto di fare marcia indietro. Non me ne parlò ma cercava spesso appoggio presso di me, anche se poi volle andare da sola e rifiutò la mia compagnia: “Non è giusto che tu veda tuo padre e tua madre che trattano” fu la risposta. *** Io continuavo la mia vita di liceale e, a dire il vero, litigi e recriminazioni mi erano così familiari che la situazione non mi distolse più di tanto dai miei studi e dai miei interessi, sport e letture, in primo luogo. Andavo d’accordo con i miei compagni, ma non avevo amicizie intime, né la ragazza: c’erano stati alcuni filarini, niente di serio, alcuni baci al cine con la lingua e palpatine nell’intervallo a scuola, ma non avevo ancora fatto l’amore la prima volta. Insomma ero abbastanza solitario, anche se non proprio scontroso. Del resto la fama di ragazzo ricco non aiutava. Cominciai a preoccuparmi, tuttavia, quando vidi, nelle settimane che seguirono i primi atti della separazione, mia madre deprimersi sempre più. Sembrava che la decisione presa le fosse costata tutta la forza di volontà che aveva dentro e che adesso si fosse sgonfiata. Mi dava l’idea di appassire lentamente: non usciva praticamente mai, avendo diradato i rapporti con le amiche ed essendo scomparsa la vita sociale che per necessità aveva continuato a fare di tanto in tanto con mio padre; passavamo ore in casa senza parlare; spesso la sentivo piangere. A un certo punto cominciai a sorprenderla, immobile, lo sguardo fisso, davanti lo specchio. Quest’ultimo fatto mi fece pensare. Lasciare mio padre significava molte cose per mia madre: accettare il fallimento della propria vita matrimoniale, temere di perdere status sociale e benessere economico, ma probabilmente maggiore di tutto era il timore che l’attendesse una vita di solitudine essendo troppo vecchia per trovare un altro compagno. Rimuginai questa idea finchè mi convinsi che era proprio la diagnosi esatta. In realtà pensavo che mia madre fosse una donna che, con un po’ più di entusiasmo, non avrebbe avuto difficoltà a trovare corteggiatori. Qualche volta provai timidamente a suggerirle di uscire, di vedere le amiche, ma rispondeva con una scrollata di spalle e sembrava piuttosto, assai più di prima, interessata a me e alle cose che facevo, il che in prospettiva non mi entusiasmava e mi allarmava un po’. Ma anche al di là della mia convenienza, mi dispiaceva davvero vederla sfiorire. Mi sentivo inoltre impegnato a mantenere la promessa che le avevo fatto di starle vicino. Ma più che passare le serate con lei, riducendo al minimo le già sporadiche uscite con gli amici, per non lasciarla sola, sembrava non potessi fare. A Lalla – una compagna di scuola con cui avevo avuto una breve storia e che era rimasta l’unica donna che potessi considerare un’amica – chiesi conferma della mia diagnosi. – Penso che abbia perso fiducia in sé stessa – disse lei dandomi ragione – dovresti farle sentire che le vuoi bene, spingerla a vivere, farla uscire… Feci una smorfia: l’idea non mi allettava, visto che anch’io ero un tipo niente affatto mondano: – Ma cosa faccio, porto fuori mia madre? la faccio uscire in comitiva? ci deve pensare uno della sua età…. – replicai. – Allora trovaglielo – rispose Lalla con sicurezza – secondo me ha bisogno di sentirsi di nuovo ragazza, desiderata come donna. Per le poche volte che l’ho vista, mi è sembrata ancora una bella donna, un tipo attraente. Possibile che non veda nessuno? Allargai le braccia, sconsolato. Fu però in seguito a questa conversazione che mi venne la folle idea da cui è scaturita tutta questa storia. Ripensai infatti alle parole di Lalla e mi convinsi che aveva ragione: mamma doveva sentire che poteva ancora interessare a qualcuno. I maltrattamenti subiti da mio padre le avevano tolto il piacere di volersi bene. Aveva continuato a curare il suo aspetto finché aveva impersonato il ruolo sociale di moglie del dottor F. ma adesso, venuto meno anche quello, non trovava motivi per prendersi cura di sé stessa. Il mio affetto era l’unica cosa che le restava e io, d’altra parte, ero ben lieto di manifestarglielo. Così non appena ricevetti la paghetta mensile, decisi che ne avrei utilizzato una parte per comprarle un regalo: chissà a quando risaliva l’ultima volta che ne aveva ricevuto uno. Scartai però i soliti regali da mamma, tipo profumi, roba per la cucina o per la casa. Pensavo piuttosto a qualcosa di femminile, un regalo che avrebbe potuto farle un marito premuroso, se ce ne fosse stato uno al suo fianco. Mi parve un gesto carino da fare e così mi ritrovai davanti a un negozio di biancheria per signora, un negozio grande e di classe, in centro, che avevo sempre notato passandovi davanti e dove pensavo non avrei avuto difficoltà a trovare quel che cercavo. La fiducia nella bontà della mia idea mi abbandonò però subito, non appena fui davanti all’ingresso, nel breve spazio tra le vetrine che conduceva dentro. “Che ci faccio qui?” mi chiesi guardando in giro i manichini che sfoggiavano completi intimi, vestaglie e costumi da bagno. Non avrei saputo da dove cominciare. Meglio girare i tacchi. Troppo tardi. Non avevo ancora nemmeno oltrepassato la soglia che una commessa mi accalappiò e mi si rivolse con un sorriso: – Posso aiutarti in qualcosa? Era giovane e carina, bionda e … sexy. Con una camicetta bianca attillata, una minigonna stretta da cui uscivano un paio di gambe lunghe coperte da calze nere, che terminavano dentro scarpine con il tacco. Rimasi per un attimo come un baccalà, imbarazzato sia da quel che dovevo chiedere sia dalla visione dalla quale non riuscivo a staccare gli occhi. Lei continuò a guardarmi, sorridendo. Quando sentii le orecchie diventarmi rosse, la vergogna di fare la figura dello scemo riuscì a farmi ritrovare la voce: – De-desideravo fare un regalo …. – riuscii a emettere con tono strozzato. – Bene! Se vuoi seguirmi…- disse senza smettere il sorriso e ruotando leggermente sul fianco per esser certa che le venissi dietro dentro il negozio. In effetti, se lei mi avesse voltato le spalle e basta me la sarei svignata, ma così non ebbi altra scelta che incamminarmi dietro di lei. Ero in trappola. Nel negozio, affollato di commesse e clienti, ero l’unico uomo! Che diavolo avrei potuto chiedere, non avevo idea di cosa comprare a mia madre! – Hai già un’idea? – mi fece lei. – Io… io… vorrei fare un regalo a … a… una signora.– Non so perché non dissi “a mia madre”: forse fu per darmi un contegno, forse, inconsapevolmente, stavo preparando gli eventi che sarebbero seguiti. – Certo, un regalo. – ripeté la commessa facendomi capire che avevo ripetuto due volte la stessa frase. – E che genere di regalo? Hai un’idea? Biancheria, intimo… – Un pigiama, per esempio. – Un pigiama? – Inarcò lievemente un sopracciglio – Vuoi dire una camicia da notte, una vestaglia? – Ecco, sì, … quello lì. – Stavo già sudando, peggio di un’interrogazione. – La signora … è una ragazza … o ha qualche anno in più? – E’ una … signora di … quaranta, quarantacinque anni… – Oh, bene! Ed è di gusti raffinati, classici o sportivi? – Di gusto classico. Direi. La ragazza mi rivolse un sorriso complice: – Bene! Adesso so quel che mi serve…. Cominciò a farmi vedere camicie da notte, vestaglie, sottovesti, rosse, nere, blu, verde petrolio, avorio, perfino viola (“Le tinte pastello sono per ragazze più giovani” mi spiegò con sicurezza), a tinta unita, fantasia, di seta, di nylon, con pizzi, corte, lunghe. Cercò di mettermi a mio agio, invitandomi a toccare, a sentire la leggerezza del tessuto o la delicatezza del pizzo. Io annuivo, stordito da quella varietà, e, con il timore di chi prova emozioni del tutto nuove, di tanto in tanto sfioravo con i polpastrelli i capi, arrossendo alle sensazioni tattili che ne traevo. Di tanto in tanto lanciavo sguardi fugaci all’interno del negozio, terrorizzato all’idea di essere visto da qualcuno di mia conoscenza. Volevo mettere fine al più presto a quella imbarazzante situazione, ma quando le indicai un paio di modelli come quelli più di mio gusto e ne chiesi il costo, quasi stramazzai nel sentire la risposta. – Pensavo di spendere …meno – balbettai. La ragazza scosse la testa, sembrando sinceramente costernata: – Per questo tipo di capi il livello è questo, difficile scendere…. Potremmo orientarci su qualcos’altro. Che ne dici della lingerie? Io non sarò molto sveglio, ma davvero non sapevo cosa significasse quella parola. Feci quindi cenno di sì con il capo, al che la ragazza, con un gesto malizioso delle dita, mi fece capire di seguirla. Mi ritrovai in un altro settore del negozio, davanti un banco sul quale la commessa cominciò ad allineare completini intimi. – Questo è molto elegante, di pizzo… questo è un coordinato reggiseno, mutandine, reggicalze, molto seducente… in questo c’è un gioco di trasparenze che lo rende sexy ma non volgare… se la signora ha gusti raffinati, se ama portare biancheria intima intrigante non potrà che piacerle questa guêpière …. Io guardavo tutto e avrei voluto scomparire: non potevo certo regalare a mia madre un paio di mutandine! Mi schiarii la voce e cercai di spiegare: – Non so se questo genere è indicato per il tipo di persona… – Dipende da cosa ama indossare la signora…- mi interruppe la commessa – E’ una bella donna? – Sì. … direi di sì – risposi, non sapendo come cavarmi d’impaccio – ma non credo che questi modelli … – Oh, se questa signora ama apparire sexy li apprezzerà sicuramente. Oggi molte donne, anche oltre la quarantina, possono indossare una mutandina sgambata, o addirittura un perizoma, senza sfigurare. D’altra parte, se vuoi regalarle un capo intimo, tu lo saprai se le starebbero bene o no? Sollevai lo sguardo verso la commessa per capire se aveva scoperto il mio bluff, se aveva detto quelle parole per prendermi in giro. Lei mi guardava con un sorrisetto malizioso ma forse anche un po’ canzonatorio. Ancora una volta – più per sottrarmi a quella situazione che per convinzione: stavo cominciando a immaginare sul serio mia madre dentro uno di quei cosi e, dopo aver guardato la ragazza, avevo cominciato a immaginarci anche lei – chiesi il prezzo di quel che avevo davanti. La risposta fu ancora una volta una mazzata, ma questa volta mi sentii sollevato. – No, mi dispiace, ma anche questi sono troppo cari. La ringrazio… Pensavo così di tagliare la corda e farla finita con quell’infelice iniziativa, ma quella tipa non era una che si scoraggiasse. – MI dispiace davvero, ma d’altra parte si tratta di capi preziosi, di stile, di marca …. – cominciò a dire, poi, nel vedermi allontanare di qualche passo con il chiaro intento di andar via, aggiunse precipitosamente: – Se no, che ne diresti di un paio di calze? – Calze? – fu la mia replica. – Sì, sì – aggirò il bancone e stavolta prendendomi addirittura per il braccio perché non scappassi mi condusse verso un altro settore. – Qui sono certa che troverai il capo che ti interessa … e del prezzo giusto. – mi disse, indicandomi con la mano una lunga fila di gambe di manichino vestite di calze, collant, calze a rete, autoreggenti… – Io non so …. – Io consiglierei queste…. – prese una calza trasparente e infilò dentro una mano, allargando poi le dita e mettendomi tutto sotto il naso per farmi vedere la trama del tessuto dilatato. – Velate, nere, leggerissime sulla pelle. Donano molto. – Mi guardò da sotto le ciglia e aggiunse: – Sono le stesse che indosso anch’io. Abbassai lo sguardo a cercarle le gambe che le calze velavano di nero. Erano davvero molto sexy! – La signora usa il reggicalze? – C-cosa? – Ho detto se usa il reggicalze. Questi non sono collant – aveva un tono divertito, avendo ormai capito quanto imbranato io fossi – e nemmeno autoreggenti, sono calze che hanno bisogno del reggicalze per stare su. – N-non so .. non credo – mia madre con un reggicalze? – Sicuramente li utilizza. Se è una donna di classe non può non averne in guardaroba. – E’ un regalo molto … intimo – la parte di me che ancora ragionava mi indusse a dire. – Ma sicuramente gradito. E originale. In genere gli uomini regalano completini. Spesso una donna, le calze, è costretta a comprarsele da sola. Poi queste sono eleganti, seducenti, per occasioni speciali… Allora qual è la misura? – Prego? – La misura …. Così preparo la confezione… Mi aveva messo con le spalle al muro. E sia: avrei comprato quei due pezzi di stoffa che lei teneva in mano, ma la misura, non ne avevo la più pallida idea. Lo confessai. – Eh! gli uomini non fanno mai caso alle misure d’abbigliamento di noi donne – commentò divertita – comunque possiamo arrivarci lo stesso. Vediamo quant’è alta questa signora? – Uh? più o meno quanto … – … quanto me? – Sì. – Bene, quindi poco meno di un metro e settanta. Ed il fisico, slanciata, sovrappeso? – Uh? più o meno … – Mi somiglia?– lo disse mettendosi quasi in posa, una gamba davanti e spostando il peso all’indietro, così che potessi ammirare le sue curve. – Un po’ … un po’…. più … un po’ meno magra… – Certamente. Una signora un po’ matura, dalle forme più dolci. – Pensò un attimo – una terza dovrebbe andar benissimo. Fu lei stessa a incartare il pacchetto e a batter lo scontrino. Strabuzzai gli occhi davanti al prezzo: meno inarrivabili delle altre cose che avevo visto, ma se ne sarebbe andata “tutta” la mia paghetta. – Sono di Dior… – zufolò lei quando capì i miei pensieri. Assentii con il capo come se conoscessi personalmente il signor Dior, pagai e me ne andai. – Spero che tu ci venga a trovare di nuovo – mi disse accompagnandomi fino alla soglia. – Una signora fortunata, ad aver chi le fa regali di così buon gusto. – e mi fece l’occhiolino. Tornando a casa, quel pacchetto nella tasca pesava come fosse di piombo. Non ero più affatto sicuro di aver fatto bene a comprare quel regalo. Temevo che mia madre lo potesse considerare una mancanza di rispetto. Fui diverse volte sul punto di sbarazzarmene. Mi trattenne il pensiero del prezzo pagato (che diamine!) e le parole della commessa: forse aveva ragione lei e davvero mia madre lo avrebbe gradito più dei soliti profumi o foulard. Girai più di un’ora sotto casa senza decidermi. Poi pensai che comunque l’avesse presa, non avrei peggiorato lo stato di mamma, e rincasai. Lei stava seduta in una poltrona del salone. Leggeva un libro. Mi avvicinai a lei di nuovo tremebondo. Infatti, non spiccicavo una parola e fu lei a sentire i miei passi e ad alzare lo sguardo verso di me, interrogativa: – Che c’è Marco? Tutto bene a scuola. – A scuola? sì, sì. Mamma, ho pensato di farti un regalo. Te l’ho comprato oggi pomeriggio. Lei mi rivolse un sorriso così caldo e luminoso che mi rese contento della mia decisione. – Grazie, Marco. Ma non è né il mio compleanno né l’onomastico. – No, non è per nessuna ricorrenza. Volevo farti un regalo. Ti vedo sempre così giù di corda in questi giorni, volevo fare qualcosa che ti facesse piacere. – Grazie, Marco. Sei davvero caro. Se non ci fossi tu… Ma, questo regalo, non me lo dai? – aggiunse ridendo. – Oh, sì, certo, scusa. – e goffamente tirai fuori l’involto dalla tasca del giaccone. – Cosa sarà? – esclamò incuriosita mentre cominciava a scartarlo – E’ così leggero! In realtà avrei volentieri fatto a meno di assistere all’apertura, ma sarebbe stato peggio se fossi scappato via. Almeno avrei capito dalla reazione se le sarebbe piaciuto o no. Mamma aveva tolto la carta e aperto l’involucro. Tirò fuori la calza e, tenendola per un estremità, distese e sollevò il braccio davanti a sé osservandola in controluce. – Ma cosa sono queste? Calze? Per me! – Mi guardò sbigottita. Mi sentii avvampare: – Ho p-p-pensato a qualcosa di originale – cominciai a farfugliare – mi sono fatto consigliare da una commessa – aggiunsi scaricando la responsabilità – volevo comprarti qualcosa di femminile …. Mamma rimase in silenzio ancora un po’, guardando ora la calza che continuava a reggere in mano ora me. Alla fine disse: – Sì originale, di sicuro. Bè, cosa devo dirti? grazie. Più freddo di così il suo grazie non avrebbe potuto essere. Era evidente che mamma si chiedeva se fossi ammattito. Mi squagliai nella mia camera, maledicendo la mia dabbenaggine e quella stronza di commessa che mi aveva preso in giro…. *** Nei giorni successivi, non tornammo più sull’argomento. Da parte mia evitavo accuratamente di toccarlo, sperando che mamma dimenticasse l’episodio, e, a scanso di pericoli, ridussi anche le occasioni per parlare con lei. Anzi, la sera, il momento di maggiore intimità perché restavamo soli, presi a lasciarla da sola davanti la tele dopo cena con la scusa di dover studiare. Eppure, nei giorni successivi, cominciai a cogliere delle differenze nel comportamento di mia madre, via via più evidenti. Cambiò la sua divisa casalinga di abiti logori e pantofole e riprese a vestirsi con cura e a mettere scarpe con il tacco. Notai che aveva ripreso a truccarsi e a profumarsi. La sentii perfino, una mattina, canticchiare sotto la doccia: stupefacente! Riprese ad uscire e non di rado tornava a casa con pacchi di negozi di abbigliamento. A volte, mi faceva vedere e chiedeva il mio parere su qualche acquisto. Un giorno andò dal parrucchiere: non mi avevo detto niente, ma quando, rientrando, fece capolino nella mia stanza, mi trovai davanti una donna trasformata. Aveva tagliato i capelli neri – che da sempre portava lunghi più o meno alle spalle e a volte raccolti in crocchia o in corte code di cavallo – ed esibiva un morbido taglio a caschetto con una frangia sulla fronte. – Come sto? – mi chiese con l’aria di una ragazzina. – Ehi! – fu il massimo di commento positivo che riuscii ad esprimere per la sorpresa. – Ti ringiovanisce moltissimo. – Non potei fare a meno di notare il resto: una maglietta scollata ed attillata, a maniche corte, che sottolineava un seno molto sporgente, poi una gonna diritta al ginocchio, sotto la quale indossava scarpe con i tacchi e calze scure. Sarà stato che dalla mia visita al negozio di biancheria avevo sviluppato una cultura in fatto di calze, ma avevo l’impressione che da qualche tempo mia madre indossasse calze velate e di vari colori, a differenza di prima. Quella stessa sera, dopo cena, stavo guardando la tv, seduto per terra, con le spalle appoggiate a una poltrona. Mamma entrò in salone, con una rivista in mano, e venne a sedersi proprio sulla poltrona, vicino a me. Stavo per scostarmi, ma lei mi disse: – Resta pure, non mi dai fastidio. – e si mise a leggere. In quella posizione, le sue gambe sfioravano le mie spalle, la punta delle scarpe era vicina al mio fianco e il mio viso era allo stesso livello delle sue ginocchia, ginocchia che, come mi avvidi con la coda dell’occhio, erano state scoperte dall’orlo della gonna quando si era seduta. L’altra cosa di cui mi accorsi è che mamma non aveva cambiato le calze e, anche senza volgere il capo ero così vicino da poter vedere il tenue riflesso fumé della tramatura del nylon che ricopriva la sua pelle. Riportai lo sguardo al televisore. Ma alle narici mi arrivava il profumo di mamma e con esso la tentazione di sbirciarle ancora le gambe. Aveva proprio belle gambe, pensai, facendo scivolare lo sguardo fino alla caviglia sottile. Mi venne da pensare che le calze scure, ma trasparenti, esaltavano con la loro ombreggiatura i pieni e i vuoti della gamba: la carne delle ginocchia e dei polpacci tendeva il nylon assottigliandolo e schiarendolo, in corrispondenza di spigoli e pieghe il colore invece si addensava. Mi apparve in mente l’immagine della ragazza del negozio. Non potei fare a meno di paragonarla alle gambe di mamma. Decisi che queste ultime non sfiguravano. L’associazione successiva di idee, però, ebbe per oggetto le calze che le avevo regalato e, soprattutto, i discorsi sul reggicalze fattimi dalla commessa. Mi resi conto che stavo chiedendomi se per caso mamma indossasse sotto la gonna un reggicalze: un po’ turbato tornai a concentrarmi sulla trasmissione televisiva, decidendo, anzi, di alzarmi e abbando! nare quella posizione. Ma proprio in quel momento mamma accavallò una gamba sull’altra. Il gesto produsse un frusciante sfregamento di nylon, che solleticò il mio udito. Anziché alzarmi, così, rimasi al mio posto. Accavallando le gambe e spostandosi un po’ di traverso sulla poltrona mia madre aveva praticamente messo un piede sotto il mio naso. Mi bastava abbassare appena lo sguardo per vederne la monta che usciva dalla scollatura della scarpa. A quel punto mamma, con gesto apparentemente distratto, prese a far passare la punta dell’indice sulla gamba. Anche di questo movimento avevo una perfetta visuale: l’unghia laccata di rosso si muoveva impercettibilmente producendo tuttavia contro la calza un leggerissimo ronzio che aumentava quando la punta dell’unghia si impuntava su invisibili nodi del nylon. Un leggerissimo dondolio della gamba, infine, la portava a contatto con la mia spalla. Rimasi seduto tentando disperatamente di seguire la trasmissione e di non dare importanza ai miei nervi che si tendevano. *** Qualche giorno dopo, mamma mi chiese se l’avessi accompagnata a far compere. In qualunque altra circostanza avrei risposto di no. Ma lei me lo chiese con tanto calore e io sentivo che si era stabilito un feeling che la faceva star meglio che non osai deluderla. Per quella passeggiata mamma si era fatta carina, con un tailleur blu e perfino un cappello. Mi pareva decisamente ormai avviata verso la riscoperta della vita e di questa mia convinzione avevo proprio quella mattina messo a parte Lalla. Gironzolammo per vetrine, entrando in pochi negozi. Mamma guardava interessata ma sembrava svogliata al momento di provare qualcosa. A me comprò una giacca e una cravatta abbinate “perché ormai non puoi indossare solo blue-jeans”. Anche questo acquisto e le relative prove le accettai di buon grado. A un certo punto, con lieve inquietudine, mi accorsi che stavamo passando proprio davanti al negozio dove avevo comprato il mio regalo. Mi si gelò il sangue quando sentii mia madre dire: – Entriamo un momento lì, mi serve della biancheria. Non potevo crederci: ci venne incontro la medesima commessa che mi aveva servito, con lo stesso sorriso, la stessa minigonna e le stesse gambe fasciate di nero. Mi riconobbe, perché i miei tentativi di non incrociare il suo sguardo fallirono e, una volta intercettati i miei, i suoi occhi si aprirono in un sorriso. Ma non disse niente. Calma, mi dissi. Capirà chi era la “signora” cui era destinato il regalo ma in ciò non c’era nulla di cui vergognarmi. Temevo piuttosto che mi canzonasse per la mia goffaggine. Quanto a mia madre, probabilmente nemmeno ricordava che era in quel negozio che era stato acquistato il suo regalo. – Vorrei vedere della lingerie – chiese mia madre. Seguii le due donne con lo stesso entusiasmo di un condannato ai lavori forzati. Come aveva fatto con me, la commessa cominciò a disporre su un ripiano di cristallo completi intimi. Lei e mia madre scambiavano commenti sulla qualità della seta, del pizzo, sul disegno delle coppe dei reggiseni o sulle dimensioni dei gancetti dei reggicalze. Io friggevo anche se dovevo ammettere di essere al tempo stesso turbato e attratto nel vedere mia madre china a scegliere capi di abbigliamento così elettrizzanti. A un certo punto lei mi chiamò in causa: – Quali ti piacciono di più, Marco? Pensi mi stia meglio il bleu o il rosa antico? – Ma cosa vuoi che ti dica? perché chiedi a me? – sbottai irritato. – Su, cosa c’è? Non ti vergognerai mica a indicarmi quale preferisci? Noi donne, in fondo, queste cose le indossiamo per fare contenti gli uomini. Non è vero? – chiese rivolgendosi alla commessa che le diede man forte. – Allora su, Marco, non essere timido, che ne pensi di questa guêpière? Finalmente, scelse alcuni capi e chiese alla ragazza di indicarle un camerino per la prova. La commessa ve la scortò e io pensavo di approfittarne per defilarmi, ma mia madre mi fermò: – Resti qui davanti, per favore, Marco? se mi serve una mano per cambiare taglia… Mia madre entrò quindi nel camerino, le braccia ingombre di biancheria da provare, e tirò la tenda, davanti la quale rimasi io come un palo. Passarono forse dieci minuti, poi la tenda si agitò e fece capolino il viso di mia madre: – Avvicinati un po’ Marco. Ho bisogno di te. Istintivamente obbedii, avvicinandomi alla soglia del camerino e guardandovi dentro attraverso lo spiraglio della tenda che mia madre non aveva richiuso. Dentro, c’era lei. Si pavoneggiava davanti lo specchio, con indosso un coordinato di pizzo rosso: i seni erano incapsulati dal reggiseno a balconcino, che li stringeva e spingeva verso l’alto, lasciandone nuda la sommità; i fianchi e il sedere erano fasciati da una stretta guaina che le modellava le curve e da cui partivano due coppie di bretelline che, arrivate a metà della coscia, si incaricavano di tenere su le calze, di un colore leggermente tendente al viola, che le inguainavano le gambe. Mamma si guardava allo specchio, muovendo qualche passo ora da un lato ora dall’altro e cambiando angolatura per osservarsi meglio. Anche a me grazie allo specchio nulla mi si nascondeva delle sue grazie, che erano davvero notevoli. Oltre al seno elastico e prorompente, e alle gambe che esibivano tutta la loro lunghezza e tonicità, scoprivo per la prima volta che mamma aveva ancora un ventre piatto e un sedere sodo e ben arcuato. Con altri occhi avrei anche potuto vedere le smagliature sulle cosce e sui fianchi, la pelle a buccia d’arancia in alcuni punti delicati, la vita non proprio da vespa che la guaina-mutandina si incaricava di comprimere. Ma con i miei occhi in quel momento vedevo una splendida donna seminuda, una gran fica dal corpo mozzafiato. Alzò gli occhi e, attraverso lo specchio, mi interrogò con lo sguardo. Io dovevo essere a bocca aperta, incapace di staccarle gli occhi di dosso. – A giudicare dalla tua espressione, mi sta bene.- disse con tono divertito – adesso richiudi la tenda che continuo. Passarono altri minuti, finché finalmente uscì dal camerino con la scelta ormai fatta. Quando le fecero il totale alla cassa, mi resi conto che mamma stava spendendo una cifra. La commessa le fece ancora alcune moine e si complimentò per la scelta. – Oh, avete bellissime cose, non ho avuto che l’imbarazzo di decidere … – rispose mia madre. – E’ anche più facile scegliere con l’aiuto di un gusto maschile. – aggiunse la commessa guardandomi divertita. – Sì, mio figlio è stato un bravissimo consulente, vero Marco? – mi disse passandomi la busta con gli acquisti da portare. Poi uscendo, mi prese sotto braccio e mi sussurrò all’orecchio: – Se non ti sei annoiato troppo, la prossima volta mi faccio accompagnare ancora da te. Non le risposi perché pensavo al suo corpo che, dopo la visione nel camerino, adesso immaginavo sotto i vestiti. *** E non smisi di pensarci nei giorni successivi. Non immaginavo che fosse così attraente alla sua età. E la biancheria la rendeva ancora più sexy e desiderabile. Incredibile che una donna così non avesse un uomo. Non potevo fare a meno di vedere mia madre con occhi diversi, benché fossi molto turbato da queste sensazioni e mi sforzassi di reprimerle. Con molta vergogna, arrivai anche a masturbarmi, pensando a lei, giurando poi a me stesso che non sarebbe più accaduto. Dopo qualche giorno stavo cominciando a calmarmi, quando mia madre mi fece una proposta: – Hai impegni stasera? Ti va se ti invito a cena? – A cena? – Sì, a cena fuori. Non passo una serata fuori da così tanto tempo che me ne sono dimenticata. Mi fai compagnia? – Volentieri, ma … – … ma? – Non so, penso che dovresti riprendere a frequentare gente, comitive, a conoscere …. – Altri uomini, vuoi dire? – Un velo di malinconia che da giorni non le vedevo più ridiscese sul suo viso. – E’ che non ho mai frequentato da sola altri uomini se non tuo padre. Non sono abituata a uscire con uomini che non conosco. D’altra parte – proseguì con tono più vivace – ho voglia di uscire con mio figlio! Sei sempre stato così carino con me. C’è qualcosa di male? Ormai non sei più un ragazzino. Passiamo una serata fuori noi due, allora ti va? Come avrei potuto dire di no? E poi, in fondo, faceva piacere anche a me. – Bene! – disse tutta contenta – mi raccomando: fatti elegante che ti voglio portare in un bel locale. Piacevolmente eccitato anch’io da quel diversivo, la accontentati, indossando perfino la giacca e la cravatta che avevamo comprato insieme. Dopo una buona mezz’ora di attesa in salone, finalmente lei mi raggiunse. Era elegantissima: sotto un bolerino viola, si vedeva un top nero con delle coppe plissettate e una fibbia dorata al centro dei seni; indossava poi una gonna di seta, nera con grandi pois bianchi, stretta ai fianchi ma svasata verso il fondo, che cadeva appena sopra il ginocchio; le calze nere erano velatissime e nere anch’esse, come le scarpe décolleté dai tacchi decisamente alti. – Come sto? – disse e fece una piroetta davanti a me. La gonna, vaporosissima, le si avvitò intorno ai fianchi e si alzò a ruota, offrendomi una fugace ma nitida visione delle sue gambe inguainate di nylon fin quasi alle cosce – Ho messo le calze che mi hai regalato tu! – ci tenne ad informarmi. Sorpreso da tanto fascino la seguii fuori di casa senza spiccicare parola. Era lei che chiacchierava, tutta giuliva, da sola: era allegra come non mai. In garage si mise ovviamente lei alla guida della Mercedes che mio padre ci aveva lasciato. Seduto accanto, non potei fare a meno di notare che non aveva tirato giù la gonna, il cui orlo era risalito all’insù quando era scivolata sul sedile di guida. Le gambe erano così scoperte ben più su delle ginocchia che si agitavano nervose seguendo i continui movimenti sulla pedaliera. Le calze erano davvero molto fini e valorizzavano le sue splendide gambe. Ma un’altra informazione – dopo avermi detto che erano quelle che le avevo regalato – mi ronzava per la testa: per indossarle, ricordavo bene le parole della commessa!, mia madre aveva dovuto mettere sotto la gonna un reggicalze. Il ristorante scelto da mia madre era uno di quelli davvero di lusso, con pochi tavoli appartati, elegantemente apparecchiati con lunghe tovaglie, cristalli e posate splendenti. Mamma, quando la ebbi seduta davanti, non era meno splendida: si era truccata con grande cura gli occhi, con un colore scuro-violaceo, le labbra invece rosso fuoco. Pensai che tutti gli uomini nel locale la stessero guardando, rapiti, come me. Accidenti: per la sua riapparizione in società aveva deciso di dare il meglio di sé stessa. Ero orgoglioso, davvero, che avesse scelto me come suo cavaliere. Ordinammo i piatti e il vino. Durante tutta la cena, mamma flirtò apertamente con me: sorrideva, ridacchiava alle mie battute o anche da sola, ammiccava con lo sguardo, mi rimproverava se dimenticavo di versarle il vino e, ogni tanto, le sue dita dalle unghie perfettamente laccate dello stesso colore del rossetto, sfioravano le mie. Mi sentivo al tempo stesso eccitato e rilassato e, complice il vino, un bel calore si diffondeva dentro di me. Avevamo finito il secondo e stavamo spettando il dessert, quando una posata cadde dal tavolo. Istintivamente mi chinai a raccoglierla. Dovetti sollevare la tovaglia per prenderla. Nel momento in cui ebbi la testa sotto il tavolo, vidi mia madre sollevare il bordo della gonna ben in alto sulle cosce e con le mani aggiustare un gancio del reggicalze. Lo fece prima in una gamba, poi nell’altra. Poi lasciò scivolare nuovamente giù la gonna. Mi rialzai sentendomi avvampare di fuoco. Mia madre mi guardò e con un sorriso commentò: – Il reggicalze è un capo molto elegante, ma ha il difetto di slacciarsi spesso. Sapeva che avevo visto! Combattuto tra la necessità di giustificarmi e l’emozione, non dissi niente, conscio solo del battito accelerato del mio cuore. Deglutii cercando qualcosa da dire ma, proprio in quel momento, sentii una pressione dolce ma insistente proprio là… sulla patta dei pantaloni! Abbassai lo sguardo: la tovaglia all’altezza del mio grembo si gonfiava e si agitava, rivelando la forma di un piede. Il piede che mia madre mi aveva piazzato tra le gambe e con il quale mi stava massaggiando l’uccello. La guardai: mi osservava senza tradire nessuna reazione, solo un lieve sorriso le increspava le labbra. Riportai gli occhi in basso dove stava accadendo quella cosa sconvolgente: mamma continuava a muovere il piede lentamente su e giù, strusciandolo sulla pazzesca erezione che tendeva la stoffa dei pantaloni. E quella lenta carezza provocava onde di piacere che dal mio coso si irradiavano per tutto il corpo. – Che diavolo stai facendo? – esclamai con voce strozzata. – Volevo solo controllare se guardarmi le gambe ti avesse fatto eccitare. – rispose lei, senza fare una piega, e continuando a toccarmi. – a quanto pare te l’ho fatto diventare davvero bello grosso! – disse in un sussurro. – Mamma, ti prego, smettila! – gemetti. – Oh, quante storie, per un piccolo giochino – disse, togliendo però finalmente il piede. – E pensare che ho scelto questo posto proprio per le tovaglie lunghe … aggiunse ridacchiando. Io ero troppo sconvolto per badare alle sue parole, specie queste ultime che mi avrebbero dovuto rivelare come tutto fosse stato premeditato. In preda all’agitazione, pensai invece lì per lì che mamma avesse bevuto troppo. Cercai così di riconquistare un contegno e, soprattutto, di far sgonfiare il mio uccello che, invece, sembrava non volerne proprio sapere, di rientrare nei ranghi. Continuammo la cena senza dire nulla, anche se sentii ancora un paio di volte le gambe di mamma sfiorare le mie sotto il tavolo. Io sentivo il rossore sulle guance e piccole gocce di sudore che si formavano dietro le orecchie per poi scivolare lungo il collo. A guardar mamma, invece, sembrava non fosse successo proprio nulla. Quando uscimmo dal ristorante, il mio pisellone si era appena calmato e io feci in modo da camminare abbastanza discosto da mamma. Quando rientrammo in macchina, guardai ostentatamente dinanzi a me: altre visioni delle sue gambe non sapevo quali reazioni avrebbero potuto provocare al mio “lui”. Mamma però non mise in moto subito: – Il rossetto è andato tutto via… – la sentii mormorare. Volgendo lo sguardo la vidi che se lo stava ripassando sulle labbra, protesa verso lo specchietto retrovisore, alla fioca luce di cortesia. Rimasi mio malgrado a guardarla affascinato muovere lo stick lungo il contorno delle labbra protese, che poi chiuse e riaprì un paio di volte per rendere omogeneo il colore. Sembrava che avesse finito, quando esclamò: – Il rossetto accidenti. Mi è caduto. Si chinò davanti a sé a cercarlo. – Non lo trovo, mi aiuti tu, Marco? E nel dire questo si raddrizzò sullo schienale del sedile e, azionando la leva, lo fece scorrere indietro, lasciandomi quanto più spazio possibile fra sé e la pedaliera. Mi chinai nell’oscurità appena rischiarata dalle luci interne dell’auto. Avevo i suoi piedi davanti la punta del naso. Con la coda dell’occhio potevo vedere le sue gambe, appena discoste. Mi sforzai di trattenermi e presi a tastare freneticamente il fondo dell’auto alla ricerca del maledetto rossetto. – Non lo trovo – stavo per dire, ma lei mi precedette: – Oh! eccolo qua! A queste parole volsi istintivamente lo sguardo verso di lei. Quel che vidi mi provocò un tuffo al cuore. Mia madre si era appoggiata allo schienale, la gonna tirata in su, le gambe aperte davanti ai miei occhi. avevo una vista senza ostruzioni delle sue cosce fasciate dalle calze, fino all’alto bordo di pizzo. oltre il quale veniva la parte nuda su cui si stagliava l’elastico del reggicalze, cosce che convergevano verso il suo triangolo intimo, nascosto dal sottile strato di seta nera delle mutandine, contro il quale, incastrato tra il suo monte di venere e il sedile, spiccava il piccolo stick dorato. – Dev’essere caduto sul sedile e poi rotolato fra le mie gambe. Cosa fai? non lo prendi? – mi incoraggiò vedendomi immobile. Ero marmorizzato. Mia madre mi esponeva la sua intimità incoraggiandomi perché la violassi. Provai un irrazionale paura che lei chiudesse le cosce imprigionandomi la mano. La allungai tremante e quando le dita sfiorarono le mutandine, chiusi gli occhi, afferrai lo stick e la ritirai di scatto. – Grazie! Sai adesso cosa faremo? E’ presto e non ho sonno. Andremo a ballare. Ero troppo sconvolto per discutere. Arrivammo a un night-club. Prendemmo posto su un divano basso con tavolino e mia madre ordinò subito dello champagne. Mia madre accavallò le gambe, scoprendole senza preoccuparsi di quel che potessi vedere. Ubriaca o no, io stavo impazzendo e il mio cazzo faceva ormai quello che voleva lui, completamente in tiro. Sedevamo uno accanto l’altro, le sue gambe contro le mie. sorseggiando lo champagne e osservando i ballerini, finché, non appena in pista misero su un lento, si alzò tirandomi per un braccio e dicendomi che voleva ballare. Io la cinsi fra le braccia, cercando di non avvicinarmi troppo in un riflesso di pudore. Ma lei protestò: – Che mi prendi per una suora? I lenti si ballano stretti l’uno contro l’altro. – e così dicendo mi attirò a sé facendo aderire il mio corpo al suo. Non poteva non sentire la mia erezione, ma non disse nulla, abbracciandomi anzi teneramente e, dopo i primi minuti in cui fui rigido come un palo, cominciai a rilassarmi anch’io, abbandonandomi alle piacevoli sensazioni che mi dava il suo corpo morbido. Dopo un paio di lenti e un altro bicchiere di champagne, mia madre annunciò che voleva tornare a casa. Sulla strada del ritorno non accadde nulla, e nessuno dei due disse una parola. Continuavo a pensare che spiegasse tutto il fatto che avesse bevuto troppo ed ero anzi quasi dispiaciuto al pensiero che potesse avere vergogna di essersi lasciata andare. Non notai invece, preso com’ero dai miei ingenui pensieri, la padronanza con cui mamma guidava, che non avrebbe invece fatto sospettare una persona su di giri. In ascensore, alla luce bassa della plafoniera, ci guardammo, negli occhi, per un lungo momento. Poi, con mosse decise, mia madre venne verso di me, mi prese il volto fra le mani e l’attirò al suo. Poggiò le sue labbra aperte sulle mie. Sentii appena il loro calore umido che la sua lingua già entrava nella mia bocca, la perlustrava, toccava la mia e vi si avvitava contro per alcuni istanti che parvero non finire più. Quando lei si staccò da me, mi accorsi infatti che l’ascensore era già fermo. La seguii dentro casa, praticamente in trance. Dovevo scappare in camera mia a farmi una sega o il cazzo mi saprebbe scoppiato. – Buo-buona-buonanotte, mamma – le dissi. E lei: – Non vieni in camera da letto per aiutarmi a togliere il vestito? Non attese risposta e si incamminò decisa. Fui io a muoverle dietro con il passo di un ubriaco. Era al centro della stanza, la luce accesa. Si era già liberata del giacchino. – Vieni – mi invitò. Guidò le mie mani impacciate a sbottonarle il corpetto. Le sue tette rimbalzarono fuori come palloni sull’acqua, a malapena coperte da un reggiseno sottilissimo. Poi mi mise le mani sulle spalle e spinse in giù, facendomi inginocchiare davanti a lei. Io la guardavo e lei sorrideva. Sganciò lei stessa la cerniera della gonna e poi si portò le mia mani sui fianchi e se ne servì per farla scivolare giù fino a terra. Davanti a me torreggiava mia madre, vestita di un reggiseno e di un paio di mutandine ancor più succinte di quelle che le avevo visto al negozio, le gambe inguainate dentro lunghissime calze nere, slanciate dal tacco a spillo. Con un gemito mi protesi ad abbracciare una di quelle gambe, strofinando la guancia contro il nylon tiepido che ne fasciava la coscia. Mamma infilò la mano fra i miei capelli e assecondò la mia carezza. Allo stesso tempo, spinse il piede fra le mie gambe e cominciò a strusciarmi la caviglia contro il mio pene imbizzarrito. A un certo punto mi prese il viso fra le mani e mi fece rialzare. – Su, spogliati – disse soltanto. Ma io feci invece dei passi indietro, impaurito non so da cosa, finché le mie spalle non trovarono la parete. Lei allora si avvicinò, con lo sguardo arrapato. – Non hai capito che voglio scoparti? – mi sussurrò all’orecchio mentre sentivo che mi toglieva la giacca e mi sbottonava la camicia. Le sue mani mi accarezzarono il petto, mi stuzzicarono i capezzoli, per poi dirigersi alla cintura, slacciarla, cominciare a sbottonare i pantaloni. – Mamma! – gemetti debolmente. Per tutta risposta mi infilò nuovamente la lingua in bocca, baciandomi appassionatamente, mi tolse i boxer e, incastratami la coscia fra le gambe, la strofinò sulla pelle nuda dei testicoli e del pene. Poi mi spinse verso il letto. Come burattino nelle sue mani, ci caddi sopra. restando sdraiato, le gambe aperte, il cazzo eretto che puntava verso l’alto. Con gesti frenetici, lei si tolse il reggiseno, poi sfilò le mutandine, tenne il reggicalze e si venne a sdraiare su di me. Con la mano dietro la mia nuca mi schiacciò il volto sul suo seno. Aveva capezzoli enormi, duri e rossi. – E’ la prima volta, mamma! – dissi con un filo di voce. – – Lo so. – fu la sua risposta sussurrata. Sentii che mi afferrava il cazzo e se lo portava fra le gambe. Entrai in un fodero caldo, molle e bagnato. Dalla punta del cazzo una scarica elettrica risalì lungo la schiena. Mi sentivo l’uccello come avvolto dalla sua carne tenera. Lei scivolò sotto di me. Cominciai, d’istinto, a spingere. Lei mugolava, mi afferrava i capelli, voleva che la baciassi, sul collo, sulle spalle, sul seno. Spinsi sempre più velocemente, le sue gambe che si incrociavano forte sulla mia schiena. Lei disse: – SI’ – e sentii la sua mano che mi accarezzava l’ano. Venni dentro di lei, gridando, sentendo il mio sperma eruttare e riempirla. Crollai su di lei. Mi accarezzò per pochi secondi, aspettò che mi calmassi. Poi cominciò a leccarmi l’orecchio. Sentivo le pareti della fica pulsare intorno al mio cazzo, poi capii che era lei che le contraeva, apposta, per massaggiarmi. Sentii che mi tornava già duro. Se ne accorse anche lei. Con uno scatto di reni mi rovesciò sulla schiena. Adesso stava sopra di me, infilzata sulla mia nerchia. Incrociò le braccia dietro la testa, spingendo in avanti il seno arrogante e cominciando a muoversi su di me. Sentivo la punta del cazzo frugarle le profondità della fica, la pelle allungarsi e ritirarsi come se mi stessi masturbando. Cominciai ad avvertire di nuovo il piacere che si faceva strada per uscire… Non ricordo quante volte facemmo l’amore quella notte. A un certo punto mi addormentai. Mi svegliai il mattino dopo, alla luce che entrava dalla finestra. Il mio primo pensiero fu che avevo fatto l’amore con mia madre! Dapprima mi dissi che era stato un sogno. Ma rapidamente realizzai che quella era la sua stanza da letto e che io ero nudo sotto le lenzuola. L’eccitazione e il desiderio della sera prima erano svaniti. Lì per lì provai orrore. Ero sconvolto: avevo commesso un incesto! Ero in preda al panico, quando si aprì la porta. – Buon giorno! – mi disse mia madre con voce allegra dalla soglia. Reggeva un vassoio per la colazione e indossava una vestaglia di seta scura. Girò intorno al letto, sedette sul bordo e depose il vassoio davanti a me. Mi tirai un po’ su con il torace. La vista di caffè, biscotti, marmellata mi fece venire un improvviso, feroce appetito. Per non pensare e non essere costretto a guardarla negli occhi mi fiondai sul cibo. Mentre masticavo la guardavo di sottecchi: aveva un leggero sorriso con un’espressione enigmatica. – Ti è venuta fame, eh? – le sue parole e il tono malizioso con cui le pronunciò sottintendevano la notte appena trascorsa. Smisi di mangiare. – Mamma …. – cominciai. Lei rimase zitta, costringendomi a proseguire. – … questa notte… non so … che cosa … come … può essere accaduto… Lei mi mise un dito sulle labbra fermandomi. Poi mi carezzò il viso. Quindi la sua mano scivolò sul collo, sulle spalle, poi sul petto. – Non è successo niente, niente di cui dobbiamo vergognarci. Abbiamo fatto l’amore. E’ stato bello. Era la tua prima volta. E anch’io ho goduto veramente forse per la prima volta. – La sua mano adesso indugiava sul mio addome. – E da come urlavi mi pare che anche a te sia piaciuto parecchio. – Sorrise. La sua mano risalì ad accarezzarmi un capezzolo poi ridiscese sull’addome. – E’ da quando mi hai regalato quel paio di calze che ti guardo e vedo un giovane maschio da svezzare, che ti desidero, che non faccio che pensare a quel bel bastone che hai tra le gambe… Nel dire queste parole, incrociò le gambe. La vestaglia si aprì offrendomi la vista delle sue cosce con le calze nere ancora su. Il pisello che si era già svegliato sotto le sue carezze, si irrigidì. gonfiando le lenzuola. Lei se ne accorse: – Ah, porcellino! le gambe di mamma te lo fanno venir subito duro a quanto pare. Spostò il vassoio e scostò le lenzuola. Rimasi esposto davanti a lei con il cazzo in aria. Ero rosso in volto come un peperone. Ma lei non mi degnò di uno sguardo, gli occhi fissi sulla mia asta. – E grosso anche – aggiunse, impugnandomi la verga con la mano. Cominciò a menarmelo dolcemente, su e giù, su e giù. Contemporaneamente, con l’altra mano scostò i lembi della vestaglia offrendomi da vedere le gambe ancora velate dalle calze, il triangolo scuro, i seni abbondanti. Quando me lo ebbe scappellato, si chinò e lo leccò con la lingua, come un grosso cono gelato. Poi lo lasciò di colpo, mi diede una pacca sul sedere e disse: – Su, e adesso la doccia! Vi entrai con il cazzo ancora in tiro. Avevo appena cominciato a insaponarmi che la porta del box si aprì e lei scivolò dentro. Era completamente nuda. Nello spazio stretto i suoi seni mi sbattevano addosso, le ginocchia si sfioravano, il cazzo eretto era a pochi centimetri dal pelo del pube. – Mamma che fica stupenda che sei! – fu l’unica cosa che mi venne da dire, ogni pudore ormai alle mie spalle. Rise. – Insaponami, coraggio! Misi il bagnoschiuma sulle mani e cominciai a massaggiarglielo sul corpo. Le accarezzai i seni, sentii i capezzoli indurirsi sotto le mie dita. Passai le mani sull’addome, poi le cinsi le natiche. Le insaponai la fica sfiorandone l’ingresso con le dita. Stavo passandole le mani sulle cosce quando lei prese a insaponare me. Sentii le sue mani, le unghie lunghe che mi graffiavano leggermente, stuzzicandomi, sul petto, sul cazzo, sulle cosce. Poi lei mi passò una mano sul sedere e cominciò una carezza languida, e a un certo punto le sue dita presero a titillarmi la fessura tra le natiche. Sentivo l’eccitazione crescere e mi avvicinai istintivamente. Ma lei aprì l’acqua e cominciò a sciacquarmi. Rideva come una ragazzina. Quando uscimmo dalla doccia ci asciugammo a vicenda. Ma mamma indugiò sfacciatamente a passarmi la tovaglia sul cazzo, sulle palle, sul sedere, praticamente ignorando il resto. Poi mi precedette in camera da letto e sedutasi sul letto ordinò: – Adesso aiutami a vestirmi. Notai l’ora. – E’ tardi, dovrei andare a scuola. – Oh! ti firmerò io la giustificazione. O preferisci la scuola? Ero ben lieto di obbedirle. Mi diressi verso una sedia dove, dalla sera prima, erano rimasti i miei vestiti. Stavo per prendere i boxer per indossarli e coprire quel pisello che mi ciondolava tra le gambe, ma mia madre mi fermò: – No. Voglio che resti nudo. Poi con il dito indicò l’angolo in cui c’era la sua biancheria. Mi ritrovai in mano reggiseno, calze, mutandine, reggicalze. Posai tutto sul letto accanto a lei. – Comincia dal reggiseno. – Mia madre conduceva il gioco. Le passai le coppe sotto i seni che poi sistemai dentro, prima di agganciarlo dietro. Poi presi in mano le mutandine. – No. Stupido: prima il reggicalze così le mutandine si possono sfilare senza toglierlo. Mi inginocchiai davanti a lei e le agganciai il reggicalze attorno alla vita. Poi presi le calze e cominciai a infilargliele. Sentivo il nylon che scivolava sulla sua pelle, colorandola deliziosamente di nero man mano che srotolavo la calza. Mamma era eccitata da quel che facevo, come capivo dai piccoli gemiti che si lasciava sfuggire. Finita una gamba, agganciai il bordo ai ganci del reggicalze. Chinato, ne approfittai per poggiare golosamente le labbra sulla coscia e sfiorarla con la punta della lingua. Mi dedicai all’altra gamba, mentre mia madre, quasi distrattamente, giocava con il mio cazzo con l’altro suo piede calzato. Agganciai anche l’altra. Allora mia madre mi prese la testa fra le mani: – Discolaccio! Non mi hai asciugata bene. Sono di nuovo bagnata. Attirò il mio volto verso la sua fica, spalancandomela davanti agli occhi. Sentii un forte odore di muschio. Le mia labbra toccarono la sua carne molle. Non sapevo bene che fare ma istintivamente tirai fuori la lingua. Gustai un sapore forte, acido e salato. Mia madre mugolò: – Dai, lecca, leccala bene. Cominciai a fare andare la lingua su e giù, dentro e fuori. Quando i suoi rantoli aumentarono mi concentrai su un pezzo di carne sporgente nel mezzo della fica. Mamma cominciò a gridare: – Sì, su, dai. sì così, di più, di più… Lei mi teneva il capo imprigionato contro la sua fica. Stringeva e schiudeva le cosce. Cominciò a spingere freneticamente il pube contro il mio viso: la lingua, la bocca, il naso, mezzo volto era dentro la sua fica allagata. Mi mancava il respiro e lappavo sempre più svelto. Allora mi sentii inondare di liquido, che mi entrò nelle narici e mi andò giù per la gola. Mamma mi lasciò andare di colpo e io caddi all’indietro sul pavimento. Anche lei si era abbandonata di schiena sul letto, le gambe oscenamente aperte, le dita sulla fica. Dopo qualche secondo smise di tremare e si rialzò. Mi rivolse uno sguardo vorace: venne giù sul pavimento e carponi avanzò verso di me, negli occhi una carica di lussuria. Non capivo e istintivamente scivolai all’indietro. Lei mi afferrò per la caviglia, mi montò addosso e con un solo movimento si impalò su di me, piegandosi in avanti e offrendomi i seni da succhiare. Prese a cavalcarmi come un’ossessa, possedendomi lì sul pavimento. Praticamente mi violentò! *** Da allora, io e mia madre siamo amanti. Per gli altri, siamo una coppia normale fatta da una madre separata e da un figlio affezionato. Ma, appena si chiude dietro di noi la porta di casa, ci lanciamo una sull’altro, pazzi di desiderio. Mamma ha completato la mia educazione sessuale, spingendomi verso frontiere che non immaginavo. E’ sempre più sexy e sempre più vogliosa. Non ho idea – e penso neanche lei sappia – da dove abbia tirato fuori una simile carica erotica. Sapendo quanto l’apprezzi, spende una fortuna in biancheria intima. La indossa e si fa trovare così quando torno a casa e spesso non mi lascia nemmeno il tempo di entrare e mi scopa nell’ingresso, strappandomi i vestiti. Da qualche tempo, amiamo andar fuori nei week-end, dormendo in alberghi di campagna dove non ci conoscono. All’inizio ci presentavamo come madre e figlio: nessuno fa storie nel darci una camera doppia o matrimoniale. Da qualche tempo invece, sfruttando il suo cognome da nubile, ci facciamo credere una coppia: mia madre dice che la eccita che gli altri pensino che sono il suo gigolò. Oggi, rientrando, ho trovato un biglietto: mia madre mi dà appuntamento nel negozio in cui questa storia è cominciata. Ho già il cazzo duro a pensare a cosa inventerà mia madre quando entrerò nel camerino per consigliarle cosa comprare…
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