All’Università non sapevo più come fare. Quando chiamavano un appello, il cuore mi balzava in gola. Sapevo infatti che, arrivati al mio nome, Carnati Roberto, ci sarebbe stato un attimo di silenzio e allora avrebbero ripetuto di nuovo, a voce più alta: “Carnati Roberto!”. Fino a quando io non rispondevo, alzando la mano o un dito o dicendo, quasi sottovoce: “Presente!” e attirando su di me tutti gli sguardi, i risolini, le gomitate di intesa, gli sfottò. Io, di Carnati Roberto, non avevo infatti nulla di nulla. Io, tutt’al più, sarei stata, a pieno titolo, meno che per l’anagrafe e la carta d’identità, Carnati Roberta.Certo, era un po’ strano che a rispondere “presente”, quando veniva chiamato Carnati Roberto, fosse una bella ragazza, capelli vaporosi, vestita in maniera sobria ma quasi sempre ben truccata, le poppe in evidenza, la gonna morigerata, le scarpe col tacco, quasi mai a spillo, ma sempre tacco era. Certe volte pregavo i professori, o gli assistenti, o i bidelli (sempre pronti a ricevere questo tipo di sollecitazioni in cambio di soldi), di voler aggiungere una gambetta alla “o” finale del mio nome, di volerla considerare “a” e di chiamarmi dunque come io avrei voluto chiamarmi e come il mio aspetto fisico suggeriva, Roberta. Ma c’era chi se lo dimenticava, chi ti guardava con aria di compassione, chi con disprezzo e chi, viceversa, ti guardava dritto le poppe o il culo e ti chiedeva, senza tanti complimenti, cosa ci avrebbe guadagnato, lui, da “cotanta disponibilità”.E allora preferivo lasciar perdere, preferivo lasciar ridere alle mie spalle chi voleva farlo, oppure lasciare che qualcuno pensasse tra sé di essere solidale con me, mentre in realtà o mi commiserava e basta, oppure mi commiserava e mi avrebbe pure volentieri scopato, altro che solidarietà. A poco a poco mi andavo abituando alla mia condizione. Del resto, non me la aveva imposta il medico. Era una mia libera scelta.Era una mia libera scelta non vestirmi di rosa rimanendo, all’apparenza, un maschio. Era una mia libera scelta non manifestare la mia omosessualità e anzi avere un po’ di timore (e, dentro di me, anche di disprezzo) per questa categoria anomala, eccentrica, fuori dagli schemi, destinata a non essere mai accettata del tutto, neanche nel 3000, in nessun tipo di società, nemmeno in quelle più evolute.Era una mia libera scelta far parte di un’altra categoria anomala, eccentrica, fuori dagli schemi, che era la comunità transessuale. Non lo facevo solo perché i trans attirano gli uomini molto più dei finocchi, ma perché io, dentro di me, sentivo di essere in quel modo: sentivo di avere un corpo estraneo fra le gambe, ma al tempo stesso lo sentivo essenziale per il raggiungimento del mio piacere e avevo imparato ad accettarlo; sentivo che da sempre avrei voluto avere le poppe che ero riuscita ad avere, i reggiseno abbondanti, le mutandine sgambate, il culo rotondo, la pelle liscia, il viso senza un’ombra di barba, i capelli con la permanente o le meche, le mani ben curate.Era una mia libera scelta volere quei vestiti corti e quei tacchi a spillo, oppure i pantaloni alla caviglia e le scarpe basse, i cappottini col pelo sul collo e, d’estate, i costumi integrali che a stento riuscivano a coprirmi il seno prorompente che robuste cure ormonali mi avevano donato. Io ero quella, Roberta e non Roberto. La mia natura era quella, anche se all’Università, negli uffici postali, in banca, ai concorsi, non potevo che essere Roberto.Era una mia libera scelta essere Roberta.Soffrivo, talvolta, per la mia condizione. Soffrivo, nel vedermi accettata sol perché ero oggetto di piacere e di godimento da parte di quegli uomini che, non sapendo accettare pienamente la loro condizione omosessuale, andavano a cercare una come me, per fare l’amore con il mio pisello, avendo comunque l’alibi di scoparsi una donna vera, verissima: bastava guardarmi dall’ombelico in su, o rimirarmi di spalle… Soffrivo anche quando mi vedevo amata veramente da persone che mi accettavano così com’ero, ma non riuscivano a scegliermi in maniera definitiva e alla fine tornavano sempre indietro, dalle mogli, dalle fidanzate, dalle mamme, che mai avrebbero accettato che si mettessero con me, da loro definita – quando andava bene, e sempre al maschile – pervertito, corruttore e rovinabraviragazzi.Per questo ero sempre sola, anche se in realtà c’era la fila per salire a casa mia o per invitarmi a cena o per portarmi al cinema. Purché, si intende, fosse una cosa di breve durata. E di intenso godimento.Ulrico era abituato a vedermi arrapantissima, il vestito nero cortissimo, le calze scure, il trucco leggero ma evidente. Quando mi trovava così, spesso la cena che avevo preparata con tanta cura, magari accendendo le candele della classica cena romantica, restava intatta e filavamo dritti a letto. Quella sera, dunque, si stupì non poco, nel trovarmi trasandata, in vestaglia e camicia da notte, le occhiaie profonde, i capelli scarmigliati. Per di più, non appena tentò un approccio, lo respinsi di brutto.Ulrico sapeva come prendermi e dunque non provava mai a insistere per farmi calmare. Lasciava che mi sfogassi e poi tentava di parlarmi. Il suo unico problema era che alla moglie raccontava di andare alla cena con gli amici del club e dunque non aveva mai moltissimo tempo, non abbastanza per conciliare i due obiettivi della sua serata: tranquillizzarmi e poi, una volta che mi fossi rilassata, sbattermi con una foga che – devo ammettere – mai avevo trovata da parte di altri amanti.Ulrico apparteneva alla categoria degli uomini che vanno con un trans per completare se stessi, un po’ per attraversare l’intero panorama delle esperienze sessuali possibili, un po’ per rispondere al bisogno di amare una donna che abbia le palle, ma non in senso metaforico.”Sono stufa”, dissi seccamente. Mi accorsi di averlo gettato nel panico. Seduto sulla poltrona di fronte a me, infatti, riuscì solo a biascicare un confuso:”Perché, che ti ho fatto?”.Sorrisi divertita dalla sua pochezza e al tempo stesso per il suo smarrimento da bambino inquieto. Ecco, forse un altro dei motivi per cui Ulrico mi frequentava era il suo essere un eterno fanciullo, uno che aveva bisogno di essere rassicurato, coccolato, aiutato a crescere. Cosa in cui, evidentemente, la moglie, e l’amante donna che sicuramente aveva, anche se me lo aveva sempre negato, non erano abbastanza brave.”No, non sei tu, il problema – gli risposi, accendendo nervosa una sigaretta – ma io”.”Lo vedo – disse lui, agitando la mano come per allontanare il fumo – tu che non fumi, ti metti a farlo giusto stasera…”.Aveva ragione. Io odiavo il sapore di chi fumava e pensavo che lo stesso dovesse avvenire agli altri con me. Spensi subito la sigaretta, presa da un pacchetto che doveva aver dimenticato chissà quale cazzo, cioè chissà quale dei miei tanti amanti, a casa mia. Se l’avevo accesa, però, era perché ero davvero nervosa e agitata.”Sono stufa di essere così”, dissi completando la frase di prima e indicandomi con un dito il basso ventre. “Stu-fa!”, ripetei scandendo le sillabe. Passeggiai avanti e indietro, un paio di volte, davanti a lui, che non sapeva che pesci prendere.”Poi, però, mi chiedo: ma tu, e gli altri, perché venite da me? Per queste – e mi tirai su le tette, che comunque stavano già su abbastanza bene da sole, per l’invidia delle donne vere mie coetanee – o per questo?”, e tornai a indicare il mio affarino, ben coperto da vestaglia, camicia da notte, collant e mutandine.”Tu, Ulrico, per esempio: per cosa vieni, qua, a trovare la tua Robertina? Ci vieni di più perché è mezzo Robertino o perché sembra Robertina?”.Rimase interdetto. Evitò frasi destinate a prendere tempo, del tipo: ‘Cos’è, un terzo grado?’ e trovò il coraggio di rispondere, ovviamente con una balla: “Vengo per te, per te così come sei”.Risi di gusto, mi avvicinai e gli feci una carezza su una guancia. Lui mi afferrò il polso, mi attirò a sé, tentò di baciarmi. Io accettai la sua lingua, ma solo per un attimo, poi mi ritrassi:”No, stasera niente sesso – intravidi la sua espressione sgomenta -. Se davvero vieni per me, è inutile fare sesso ogni volta. Parliamo, piuttosto, una volta tanto. Bevi qualcosa?”, aggiunsi filandomela verso il carrellino del bar e iniziando a versarmi un Martini. Lui accettò qualcosa, un Bailey’s, credo, e abbozzò una protesta:”Non vengo qui per fare sesso, però se c’è non mi dispiace, lo sai… Io ti accetto così come sei…”.”Mi accetti solo per venire a letto con me? E no! E’ proprio questo che mi ha stufato, nella mia vita. Nel mio lavoro – non ne parliamo mai, ma, come sai, sono in banca e non faccio la battona – hanno dovuto accettarmi vestita da donna, anche se per loro, nei documenti ufficiali, risulto ‘Roberto’. C’è una collega stronza, e che secondo me vorrebbe essere trombata da me, che mi chiama sempre Roberto e io la lascio sbattere, ma è una superiore e alla fine devo risponderle. Gli altri, i maschi, riescono a ridere sempre. Questa lo fa cento volte e loro cento volte ridono. Ma io me ne fotto. Mi tengono negli uffici, evitano che io abbia contatti col pubblico. Dopo che avevo vinto il concorso, hanno fatto di tutto per non prendermi e si sono fermati solo di fronte al pericolo di finire sul giornale e di apparire retrivi. Però sono emarginata. I colleghi mi sfottono ma un paio di loro sbavano per venire qui. E quando lo fanno restano giù”.Parlavo agitata, facendo avanti e indietro per il soggiorno, col bicchiere in mano. Trangugiai un sorso. Ripresi:”Dovunque io vada, vengo guardata come un corpo estraneo, come un fenomeno da baraccone. Non appena capiscono che sono un transessuale, tutto cambia, per me. Ma il problema non sono gli sfottò o gli insulti delle madri e mogli che temono che io possa traviare i loro figli o mariti. E non è neanche che tutti coloro che accettano di parlarmi in realtà lo fanno con la segreta speranza di fare l’eccitante esperienza con il ‘diverso’, un’esperienza che vedono come non compromettente – e, per alcuni, non disgustosa – quanto quella con il diverso che ha l’apparenza di maschio… No, non è nemmeno questo, il problema…”.Mi interruppi. Mi cacciai in gola, d’un fiato, il mio Martini bianco, e tacqui.”E allora, qual è il problema?”, chiese lui, un po’ incuriosito, ma anche sempre più infastidito per quel ritardo nella sua e nostra attività preferita, quando stavamo insieme.Lo guardai con occhi grandi, pensosi, vogliosi: “Il problema è che è difficile trovare qualcuno che ami veramente questo sgorbio senza vagina…”. Abbassai gli occhi, il capo, e due lacrimoni al mascara residuo del mattino mi scesero giù, schiantandosi sul parquet e macchiandolo di scuro.Ulrico si alzò, posò il bicchiere, ancora intatto, di Bailey’s. Non mi aveva mai vista così, non pensava che anch’io potessi o sapessi piangere: da me, donna con gli attributi non metaforici, in fondo lui cercava quel senso di sicurezza che in genere offrono le donne vere con gli attributi metaforici. Lo vidi per questo smarrito e non sopportavo di trovarlo così insicuro: accettai il suo abbraccio, poi fui io stessa che cominciai a sbaciucchiarlo sulle labbra, posandogli addosso il sapore di sale e mascara che avevo addosso. Lui non se lo fece dire due volte e mi aprì le labbra, dolcemente, con la sua bocca e con la lingua, penetrando con una facilità incredibile e andando ad esplorarmi ogni millimetro quadrato della mia lingua. Le mani, che fino a quel momento aveva poggiate in maniera casta e rispettosa sulla mia schiena, si spostarono rapidamente e si divisero, proprio come due militari in missione speciale: una andò a controllare i promontori del mio sedere, l’altra le colline delle mie poppe. Quella che stava in basso, con dolcezza, si incuneò tra le natiche, carezzò in quel punto, poi scese e sollevò, con discrezione, il lembo della vestaglia prima e della camicia da notte dopo. L’altra massaggiava dolcemente il mio morbido seno sinistro e due dita, l’indice e il medio, aiutate saltuariamente dal pollice, cercavano di stuzzicare il capezzolo, risvegliatosi sebbene coperto da abiti che cominciavo a ritenere di troppo.Mentre tutto questo avveniva, le nostre bocche non si erano staccate un solo istante: un bacio lungo lungo, profondo, intenso, continuava a unirci. Sentivo il bisogno di dirgli che lo amavo, volevo che anche lui me lo dicesse, mentendomi, è chiaro, così come gli avrei mentito io. Perché io in realtà Ulrico non lo amavo, anche se dentro di me avrei voluto amare non lui, ma riuscire ad amare qualcuno.Riuscire ad amare come una sola volta, nella vita, mi era riuscito. Venendo ricambiata, forse. Ma di questo parleremo dopo, se avrete la pazienza di leggere anche la seconda parte di questo racconto.La mano in missione speciale nei territori dei Paesi Bassi aveva superato anche gli ultimi sbarramenti, costituiti dai miei delicati e soffici collant e dalle mie mutandine sgambate. Adesso viaggiava sulla pelle dei miei glutei, la carezzava languida, a tratti la mordeva con i polpastrelli. La bocca di Ulrico, intanto, si era staccata da me ed era andata giù per i precipizi del mio collo affusolato. Mi solleticava, ma adoravo che mi facesse così.”Andiamo a letto”, ansimò nel mio orecchio, prima di infilarvi la lingua e di mordermi il lobo.”No”, obiettai decisa.Si staccò da me. Lo sguardo serio, severo, arrabbiato quasi. Sì, Ulrico era proprio il bambino che ero io prima di diventare una donna a metà. Quando lo interrompevano nel gioco preferito, diventava rude, cattivo. Gli sorrisi e precisai: “Non andiamo a letto. Facciamolo qua”.Tornò il sorriso sulle sue labbra: il bambino aveva avuto comunque il suo lecca-lecca. Certo, bisogna riconoscere che Ulrico, con il suo lecca-lecca di carne, cioè io, ci sapeva proprio fare. Mi spinse sul divano, mi slacciò la cintura della vestaglia e in un attimo fui nuda, a parte i collant e gli slip, dai quali faceva capolino un gonfiore forse inopportuno, ma per me e per lui tanto, tanto piacevole. Si accovacciò su di me, mettendosi in ginocchio, e cominciò a baciarmi i seni con una tale foga che pensai rimanesse senza fiato. Adoravo essere baciata lì, sui contorni rotondi e sodi su cui si stagliavano due capezzoli violacei, turgidi e carnosi. Lui ci girava attorno, poi me li mordicchiava e li leccava, ciucciandoli proprio, poi mordeva – senza stringere – le mammelle. Intanto, con le mani mi cingeva i fianchi, m accarezzava i contorni del tronco, la vita, le spalle.Scese giù per l’ombelico, lo baciò, lo leccò, ci girò attorno, poi, con entrambe le mani, tirò verso il basso i collant. Lo fece delicatamente e ogni centimetro di pelle che andava liberando veniva da lui baciato, leccato, inumidito con le labbra. Fino a quando non si ritrovò a contatto col mio cosino.Ne sentiva certamente l’odore – lo sentivo anch’io, che ero ovviamente più distante – e cercò i miei occhi, cercò il mio sguardo d’intesa, cercò il mio consenso. Io sfuggii al suo sguardo intenso. Reclinai il capo all’indietro, allargai e abbandonai le braccia sul divano. Era la resa: valeva più di cento sì.Ulrico me lo prese in bocca che ancora tirava giù i collant. Io, proprio perché avevo le caviglie strette dalle calze, non riuscivo ad allargare bene le cosce, per accoglierlo lì in mezzo, ma non avevo voglia che lui mollasse la presa un solo istante e non lo disturbai. Cominciai a gemere come una stupida, mentre lui sgusciava la mia cappellina e ci giocava con la lingua. Il mio cosino misurava pochi centimetri, l’avevo avuto sempre così, non mi era diventato piccolo per effetto dei dosaggi ormonali.Era stato forse questo, a spingermi a scoprire la mia vera natura: da ragazzino avevo tette grosse e uccello piccolo. Mi guardavo allo specchio e mi immaginavo donna, mi carezzavo il petto e provavo piacere, mi si drizzava il pene… Fino a quando non mi innamorai… Ma questo, vi ho promesso, ve lo racconto dopo.Ora quel pene stava tutto nella sua bocca, la bocca di Ulrico, dove lui adorava tenerlo: per questo dicevo che in fondo il mio amante era un po’ frocio. O forse lo faceva perché mi voleva bene e sapeva che mi piaceva tanto. Con due dita me lo menava un pochino, in modo da non sforzarlo troppo e lasciarlo dritto, senza farmi venire. Mi prese in bocca pure le palline, poi si staccò e si mise in piedi.”Togliti le calze”, disse mentre si spogliava.Obbedii. Adesso sapevo che mi toccava solo fare quello che diceva o che faceva capire lui. L’uccello lo aveva già sollevato, anche se non era proprio in erezione: gli si era ammosciato un pochetto sol perché si era staccato da me. Non ci fu bisogno di dir nulla. Stando nudo in piedi, di fronte a me, che ero seduta, anch’io perfettamente nuda, non occorrevano proprio parole su quel che voleva fatto.Misi la mano destra sotto i suoi testicoli spelacchiati. La avevo stranamente fredda e notai che, istintivamente, un po’ lui si ritrasse. Compensai con la bocca calda, in cui misi il suo uccellone senza toccarlo con le mani. Sbocciai la cappella, un po’ con la lingua, un po’ aiutandomi con le dita, ma già lui non sentiva più freddo.Adoravo guardarlo mentre gemeva dolcemente, col capo all’indietro e tenendomi, con le mani, la testa piantata sul suo sesso. Fingeva di carezzarmi i capelli ma in realtà la sua era una presa ferrea, pronta a reprimere qualsiasi tentativo di fuga, pronta a orientare e a comandare i miei movimenti. Sapevo bene che non potevo andare più su del suo ombelico, che potevo solo – altra cosa che lo faceva andare in brodo di giuggiole – mettermi il suo cazzo tra le poppe e che poi dovevo stare lì, a succhiare, fino a quando non avesse detto basta. Talvolta mi sborrava in bocca all’improvviso e poi si lamentava con me, che ero stata “troppo brava”, ma avevo fatto finire tutto in fretta. In realtà questo succedeva quando il porco era già stato con l’ ‘altra’ e aveva voglia solo di un pompino. Io lo capivo dall’intenso sapore di sperma e di vagina che aveva addosso all’uccello e che lui, il maiale, si lasciava per farmelo sentire.Mi staccò da sé con dolcezza e al tempo stesso con energia, si curvò su di me e mi baciò in bocca, assaporando il suo uccello e facendomi sentire il sapore del mio, che lui aveva leccato poco prima.Poi tornò a inginocchiarsi e a spingermi con la schiena all’indietro, sul divano, mi sollevò le cosce, tenendomele ben larghe, e mi fece poggiare i talloni sul sedile. Capii subito dove voleva arrivare. Cominciò mettendosi in bocca gli alluci e mordendo le dita dei miei piedi sudati e un po’ odorosi di quella tipica puzzetta che a lui – e a me – piaceva tanto sentire da vicino. Leccò le unghia dei piedi, che avevo colorate di smalto bianco. Poi, con entrambe le mani, percorse il profilo delle mie caviglie affusolate e dei polpacci, accompagnando il movimento con baci appena accennati sulla mia pelle morbida, carezzò lascivo le cosce perfettamente depilate, fino a quando non si ritrovò con le braccia forti sotto i miei glutei. Mi sollevò di peso, spingendomi le cosce verso l’alto e poggiandosele sulle spalle larghe, e mi leccò il buco del culo. Lo tenevo sempre pulito e profumato, quando veniva lui, perché sapevo che era la sua specialità. Mi mandò in visibilio, raggiunsi l’estasi nel sentire la sua lingua abile che penetrava lo sfinterino voglioso. Di tanto in tanto usciva per prendere aria e per baciare i miei testicoli formato mignon o il pisello ritto sull’attenti. Io mi mordevo un dito e salivo sempre più in alto, facendo leva sui talloni poggiati sulle sue spalle. Mi ero curvata al massimo sullo schienale del divano. Stavo come un arco che sta per scoccare la freccia del piacere, per consentirgli di giocare come voleva, di inumidirmi in vista della penetrazione “naturale”, come chiamava lui quella in cui non usavamo profilattico o vaselina.Ad un tratto si mise in piedi, mi mise il cazzo sotto il naso e io pensai volesse sborrarmi in faccia: ‘Peccato’, pensai, perché già pregustavo il gran finale, e lo presi in bocca svogliata. In realtà lui voleva solo che glielo riportassi al massimo dell’eccitazione, al massimo della durezza. Dopo pochi istanti, infatti, mi allontanò da sé e mi fece stendere supina lungo il divano, mi sollevò le cosce e se le mise parallele al suo tronco, appoggiò la cappella sul mio buchino, si inumidì due dita con la lingua e le usò per aprirsi la strada.Sentii il suo uccello grosso che mi sfondava pian piano, che pressava sul mio ventre partendo dal basso. Per aiutarmi a ricevermi meglio, man mano che entrava, Ulrico mi faceva piegare le gambe all’indietro. Mi facevo male ai muscoli, ma in quel modo penetrava con grande facilità, aiutato dal fatto che il mio retto era ormai abituato a ricevere membri di ogni dimensione. Le braccia muscolose e le mani di Ulrico si piantarono sul divano e lui iniziò a pomparmi vigorosamente, su e giù. Io, in quella scomoda ma piacevolissima posizione, mi muovevo all’unisono con lui, agevolandolo nella penetrazione.”Sei eccezionale…”, mi diceva, schiacciandomi sotto di sé e movendo avanti e indietro il bacino. Ogni volta che mi sbatteva così mi faceva sentire una vera donna: forse era per questo che lo adoravo in quel modo e che ogni volta che stavamo insieme non potevamo concludere una serata senza che mi scopasse stando vìs-à-vìs con me.Aumentò il ritmo, capii che era prossimo all’eiaculazione. Cercai di sfregare il più possibile il pistolino sulla sua pancia dura, per godere assieme a lui. Indovinai, dall’espressione contratta del suo volto, che era ormai arrivato e che stava per estrarre il membro per venirmi addosso. Gli piantai le mani sui glutei sodi e muscolosi, lo guardai dritto negli occhi:”Vienimi dentro”, lo implorai.Lui mi rispose con uno sguardo interdetto, tipico di chi non ha capito:”E’ pericoloso…”. Lessi nei suoi occhi la paura di aver sbagliato, a non usare precauzioni, quella sera: si era ricordato tutto d’un tratto che non era l’unico con cui facevo l’amore. Comunque scacciò questo pensiero da sé e proseguì: “E poi ti piace di più se ti sporco tutta…”.”No – insistei – resta lì”, e lo tenni ancora dentro di me. Lui non sapeva che fare, la discussione – insolita, per il momento che stavamo vivendo – lo aveva disorientato, distratto. Dentro di me lo sentivo più moscio. L’incedere del suo godimento era rallentato. Riprese a pompare con forza:”Come vuoi…”.Sorrisi: “Fammi sentire donna… Tutta donna, per una volta…”.Per riportarlo su dovetti baciarlo in bocca e sui capezzoli, fino a quando non sentii un calore improvviso riscaldarmi le viscere già infiammate dal suo sesso e allo stesso tempo sentii i suoi mugolii di piacere, i suoi colpi che si facevano fortissimi e violenti: mi sentii riempire del suo sperma, sentii le budella riscaldarsi del suo e del mio piacere. Mi vidi sollevata senza che lui mi tirasse su o che io mi spingessi verso l’alto. Faceva tutto la forza del suo cazzo, del suo piacere, del suo godimento profondo dentro di me.Si abbatté su di me, mi baciò profondamente. Venni anch’io urlando il mio piacere dentro la sua bocca, allacciata alla sua lingua, sporcando del mio sperma la sua e la mia pancia.Rimase ancora abbracciato a me, esausto, tenendo il cazzo che si andava ammosciando dentro il mio culo.Proprio come gli uomini, talvolta, fanno dentro le fighette delle donne.Si rivestì dopo la doccia. Io ero rimasta sul divano, a guardare la tivù e a limarmi le unghia, seminuda sotto la vestaglia. La camicia da notte l’avevo lasciata per terra, dove l’avevamo buttata quando ci eravamo spogliati.Lui era ritornato in forma da cena con gli amici del club. Un alibi non gliel’avrebbe negato nessuno. Del resto andavano tutti a fare sesso con le amanti, invece di andare a quella cena da finti scapoloni imbecilli. Certe mogli sono proprio cretine, o fanno finta di non capire, perché fanno lo stesso quando di pomeriggio dicono di uscire con le amiche.”Ulrico – gli dissi senza sollevare lo sguardo dall’unghia del medio della mano destra, che non ne voleva sapere di pareggiarsi con le altre – che ne diresti se…?”.Mi bloccai e alzai gli occhi. Capii che temeva, nell’ordine, che continuassi la frase con: a) ‘Che ne diresti di dirlo a tua moglie?’; b) ‘Che ne diresti di partire una volta insieme?’; c) ‘Che ne diresti di andare a cena, per una volta, con i tuoi amici e le loro amanti-donne al cento per cento?’.Risi divertita, perché dentro di me ero certa che il terrore che gli leggevo sugli occhi era dettato proprio dal timore di sentirsi rivolgere quelle domande.”Ulrico – ripresi, tornando a guardarmi l’unghia indisciplinata – che ne diresti se ogni tanto parlassimo un pochino, oltre che fare sesso…?”.
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