Oggi non posso sentire al telefono Giovanna, perché è andata a raccogliere castagne. Chissà se, tra una castagna e l’altra, ricorderà la gita che una volta fece con me nella pineta di Pergusa. Io la ricordo eccome quella giornata; e mentre ora immagino Giovanna che si curva verso terra per colmare di gusci spinosi il cestello lasciando a mezz’aria il suo culetto tornito e sodo preda delle fantasie scoperecce dei suoi amici, mi si indurisce il cazzo a ripensare quel che allora accadde.Giovanna era venuta a trovarmi da Palermo, dove frequenta l’università, desiderosa di stare insieme con me lontana da occhi indiscreti. Era splendida: viso gaio incorniciato dalla chioma riccia e corvina, lineamenti leggermente sottolineati dal trucco, jeans elasticizzati color panna, scarpe con tacco ben pronunciato, magliettina attillatissima tanto da lasciare intravedere i capezzoli turgidi.Proprio quest’ultimo particolare mi lasciò intuire la voglia che Giovanna covava dentro: perché non aveva messo il reggiseno, lei che lo porta sempre? Indovinai l’incoffessabile motivo e l’invitai a fare un giro in macchina. Andammo in pineta. Ci inerpicammo tra gli alberi, ma le sue scarpe non erano adatte per battere l’irto sentiero. Glielo feci notare e lei scherzando mi rispose che comunque erano molto comode per "battere". Captai il messaggio subliminale. Mi chiese di aiutarla nell’ascesi, affidando le sue sculettanti natiche al sostegno delle mie mani, mentre lei mi precedeva sul viottolo. Giunti quasi alla sommità della montagnosa pineta, affievolitesi ormai le voci di altri gitanti rimasti più a valle, decidemmo di riposarci su una balza sufficientemente pianeggiante e quasi nascosta dagli arbusti. Le nostre lingue cominciarono a cercarsi, duellando per espugnare a turno le nostre bocche. Giovanna aspirava la mia sino in gola, mentre io, per tener testa al suo dimenarsi, la cingevo ai fianchi appoggiandomi al suo corpo. Il mio cazzo, durissimo come il marmo, aveva oltrepassato lo slip, insufficiente a contenerlo, e tentava di sfondare la patta dei miei pantaloni. Giovanna avvertì contro il suo ventre il rigonfiamento e mostrò ad arte stupore: infilò la mano dentro e cinse la mia asta, scendendo ad accarezzare i coglioni che macinavano sborra. Aprì la cerniera e liberò il mio membro. Stavolta lo stupore sul suo viso si disegnò con sincerità; e anch’io rimasi meravigliato delle dimensioni raggiunte dal mio cazzo, bestialmente ingrossato, culminante con una cappella equina su cui faceva fontanella una precoce goccia di sperma. Incrociai lo sguardo lascivo della maliziosa ninfetta e la sentii sussurrare di voler essere sbattuta lì, tra gli alberi, alla luce del sole. Mi toccò rifare la strada verso la macchina, per andare a prendere una coperta da stendere sulle foglie aghiformi cadute dai pini: salire e scendere per il bosco, con i miei 19 cm di cazzo tesi all’esasperazione tra le gambe, non fu facile.Poi, finalmente, la ricompensa: appena sedutici sulla coperta, Giovanna si avventò sul mio pene, impugnandolo con entrambe le mani senza però riuscire ad imprigionarne l’intera erezione. La ginnastica sembrava averlo potenziato oltre le ordinarie dimensioni, in lunghezza e in circonferenza. Contemplando il mio arnese con la soddisfazione di trovarsi davanti ad un fenomeno animalesco, Giovanna divenne raggiante alla stregua di un’ancella cui è concesso di giocare con lo scettro del suo principe. Lo scappellò delicatamente e poi, socchiudendo le palpebre, iniziò a leccarlo lentamente. Io le afferrai la testa e la forzai dolcemente ad aumentare il ritmo delle slinguate. Lei assecondò le mie indicazioni di manovra e alzando gli occhi verso di me per verificare il mio consenso si cacciò il membro interamente in bocca, lasciandosi intasare la gola da quel nodoso bastone di carne, sino a soffocare. Si applicò con remissiva devozione al pompino e io le spostai i riccioli neri per ammirarle le guance che facevano conca nello sforzo di succhiare. Volli ricambiare il generoso eccesso di dedizione: la feci distendere e sollevandole la maglietta cominciai a palparle il seno e a strizzarle i capezzoli. Lei cominciò a surriscaldarsi: mugolando e contorcendosi per il piacere mi implorò di scoparla subito; ma io prima la deliziai ancora con la mia lingua: le baciai il ventre, scendendo sino alla peluria pubica, le abbassai agevolmente i pantaloni elasticizzati e mi accorsi che quel mattino non aveva indossato neppure le mutandine.La fica le grondava umori odorosi, tanto era bagnata. Le affondai la lingua nel solco umido mentre con l’indice prima e col pollice poi le forzavo l’ano: il mugolio sommesso di Giovanna si tradusse in rumoroso rantolo: si preparava a godere. Scherzando le dissi che c’erano due ragazzi che si smanettavano guardandoci e che avrebbero potuto pretendere una parte nella nostra scopata; lei mi rispose seria e decisa che era pronta ormai ad esser presa, da chi e da quanti non costituiva più problema: non la sua disinibizione era totale. Le dissi che doveva accontentarsi solo di me, e lei, smascherando la mia celia, scherzò a sua volta pretendendo di essere penetrata comunque davanti e dietro. Le promisi di fare del mio meglio.Mi distesi lungo sul pendio e Giovanna mi si mise a cavalcioni, ormai completamente nuda, indossando soltanto le scarpe per non ferirsi ai piedi durante la cavalcata. Sembrava una stupenda puledra che aspetta di essere montata. La impalai ficcandole di botto il cazzo in sorca; lei si appoggiò al mio petto e cominciò a pompare dimenandosi senza ritegno. Era lei a imporre il ritmo e a muovere i colpi, poiché io non ero agevolato a farlo dal terreno petroso su cui stavo sdraiato. Le sue cosce si erano avvinghiate ai miei lombi e il seno danzava davanti al mio naso. Le afferrai entrambe le tette e le strinsi forte, mentre Giovanna si trasfigurava per il piacere. Stavo per sborrare, ma lei mi supplicò di aspettarla, di aiutarla a venire insieme a me. Strattonandola per i capelli le imposi di abbandonarsi completamente al piacere, come una ninfa dei boschi catturata e violentata dal dio Pan. La mossa le piacque, almeno a giudicare dalla lascivia con cui roteò gli occhi. Io intanto mi resi conto che ormai continuavo da mezz’ora la scopata senza più avvertire l’urgenza di sborrare. Ora era Giovanna a volere affrettare la mia eiaculazione. Si inarcò leggermente, si sfilò il mio membro dalla fica e con la mano indirizzò alla cieca la mia cappella sul suo buco anale; poi si lasciò cadere a peso morto: le penetrai lo sfintere a mezz’asta: Giovanna non aveva fatto i conti con la sua stretta e con la mia circonferenza. Gridò di dolore e diagnosticò che non sarei potuto mai entrare per quella via. Ma io, deciso a sfondarla ad ogni costo, non desistetti e diedi un violento colpo di reni che portò i miei coglioni a sbattere fragorosamente sui suoi glutei: era fatta, anche se la voce di Giovanna era all’improvviso diventata roca. Poi quel buco strettissimo si dilatò adeguandosi al mio diametro e Giovanna tornò a guidare tranquilla il gioco: ad ogni colpo sfilava il mio cazzo dal suo culo sino al glande e poi lo rinfilava sino alle palle: cinque, dieci, undici, dodici, tredici lunghi minuti di sali e scendi e, finalmente, l’esplosione di sborra bollente, accolta da Giovanna come un salutare clistere. Mi fissò sorridendo e mi confessò il suo senso di sazietà, infarcita com’era di linfa spermale.Quando ci alzammo, dopo esser rimasti sdraiati quasi per un’ora sempre nella stessa cavalleresca posizione, le gambe ci tremavano. Andammo in un ristorantino, sulle sponde del lago, per pranzare e… per riposarci finalmente.
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