Piero, il mio Piero, doveva giurare. Non mi sembrava vero. Piero era ufficiale, come il suo papà, come Gavino. Era bello come suo padre. No, più bello! Gavino era splendido, quando lo incontrai la prima volta. Ma anche adesso lo é. Era un giovane amico di mio padre, un brillante ufficiale in servizio permanente effettivo destinato certamente agli alti gradi. Era capitato per caso alla festicciola dei miei diciotto anni, quella intima, per parenti e amici di famiglia, perché i ‘compagni di banda’, come ci chiamavamo, li avrei riuniti al ‘Black Devil’, l’indomani sera. Li per li non mi interessò molto, anche perché lo reputavo ‘vecchio’, aveva diciassette anni più di me. L’indomani mi inviò un enorme cesto di fiori, e nel biglietto si scusava per non aver portato nulla il giorno precedente, ma non sapeva della festa. Sperava di essere perdonato e avrebbe gradito di rinnovarmi le sue scuse di persona. Per farla breve, tre mesi dopo ci siamo sposati e dieci mesi dopo nasceva Piero. Già. Sono passati venti anni. Ora ne ho trentanove. Piero non ha voluto ripercorrere le orme del padre, professionalmente. Preferisce affrontare la vita civile, come ingegnere. E per togliersi di mezzo il servizio militare, anche perché non è pensabile pensare di scansarlo, essendo il figlio di Gavino Padda, generale a tre stelle. Ed ecco. Il sabato doveva giurare. Poi servizio di prima nomina, sei mesi, e quindi ritorno a casa. Bravo figliolo, Piero, è riuscito persino a studiare per l’università durante il corso di allievo ufficiale. Il padre ne è orgoglioso. Figurarsi io. Giuramento nello stesso reggimento che già aveva comandato Gavino per il tempo strettamente richiesto dalle norme per avere la promozione. Siamo stati bene in quel periodo. Del resto é la città che ha visto la nascita sia di mio marito che di Piero. Gavino aveva detto che non sarebbe stato presente al giuramento. Avrebbe certamente messo a disagio le autorità locali, lo stesso comandante del corpo d’armata, che pur era suo amico. No, meglio astenersi. “Vacci tu, Emma.” Ho telefonato a Piero, ho preso l’aereo, il taxi, e sono andata in albergo. Poco dopo, è venuto Piero, accompagnato addirittura dal suo colonnello comandante che mi ha portato bellissimi fiori, si è detto spiacente dell’assenza di Gavino, che lui stimava moltissimo, ed ha aggiunto che mi aveva riservato un posto nella tribuna d’onore. L’ho ringraziato, ma gli ho risposto che preferivo andare nella ‘tribuna parenti’, insieme agli altri familiari. Mi ha baciato la mano, ha detto a Piero che poteva rimanere con la sua bellissima mammina, tanto giovane che tutti l’avrebbero scambiata per la sua ragazza! Domattina, però, alle sette precise in caserma. Dopo il giuramento ci sarebbe stato il pranzo in comune, nella mensa ufficiali, e quindi in libertà fino a martedì mattina. Ringraziai ancora. Piero lo accompagnò all’auto che lo attendeva dinanzi all’albergo, lo salutò, tornò da me. Finalmente potevo abbracciarlo, come dicevo io. Una stretta che quasi mi soffocava. “Che bellezza, mamma, averti qui. Lo desideravo tanto!” Lo guardavo incantata. A parte che si trattava di mio figlio, un ragazzo del genere è ammirato da tutti… specie da tutte! “Andiamo su, tesoro, nella mia camera, staremo più tranquilli.” Prendemmo l’ascensore, salimmo. La mia camera era molto ampia, una piccola suite, con un grazioso angolo salotto, accanto al balcone con vista mare. Appena entrati, ci fu un nuovo abbraccio, più lungo del primo. Mi carezzava, mi baciava il volto. Le sue mani mi serravano la schiena, si muovevano, sentivo che scendevano giù… anche troppo… mi stringeva a lui afferrandomi le natiche… sentivo tutta la virilità del mio ragazzone e… mi sembrò che non fosse immobile… Si, ogni tanto Piero mi aveva dato una confidenziale e affettuosa pacca sul sedere… e non mi era dispiaciuta. Giungeva alle mie spalle e prendendo nelle sue belle mani il mio seno diceva che ho delle belle tettone… Non mi era sfuggito che tra i miei glutei, tondi e sodi, avevo sentito la testimonianza della sua mascolinità… Del resto, Piero è un maschio, uno splendido maschio. A quale femmina non sarebbe piaciuto sentirsi stretta da lui a quel modo? Si, lo so, sono la mamma, ma non ci vedevo niente di male. Certo che, come dire, sentivo qualcosa anche io. E’ naturale! Ora eravamo li, nella mia camera d’albergo e mi stava mangiando con gli occhi. No, non ero a disagio. Tolsi la giacca, rimasi in gonna e blusa. Andai a sedere sulla grande e comoda poltrona, vicino alla vetrata. Piero tolse la giubba, l’appese all’attaccapanni. Venne vicino a me. “Posso venire in braccio a te, ma’? come quando ero piccolo?” “Certo, Pierino, solo che sei un ragazzone. Vieni.” Sedette sulle mie gambe, delicatamente, si abbracciò a me, poso il capo sulla mia spalla, la bocca sul collo, e mi dava infiniti bacetti, sempre più insistenti. Com’era tenero. Lo carezzai come una volta. Era meno pesante di quanto temessi, comunque era bello sentirlo in braccio a me. “Peccato, ma’, che dopo cena ti devo lasciare.” “Dove devi andare?” “Ho nel mio alloggio, nella palazzina ufficiali, il mio cambio per domattina.” “Speravo di fare una lunghissima chiacchierata con te, dopo cena.” Guardai in giro, con aria delusa, quasi imbronciata. Piero mi baciò sul volto, leggermente sulle labbra. Mi guardò con tanta dolcezza. Prese a carezzarmi il seno. Piano. “Sai che faccio, ma’? Telefono e mi faccio portare il cambio, così domattina devo solo indossare la fascia azzurra.” “Bravo tesoro.” Allungò la mano, prese il telefono, chiamò qualcuno che non ricordo chi fosse, gli disse cosa doveva fare e di lasciare tutto in albergo, al portiere. “Ecco fatto, ma’. Stiamo insieme!” Non so se pensai a dove avrebbe dormito, se mi rendevo conto che l’albergo era al completo, affollato delle famiglie dei neo ufficiali. Del resto, io avevo una camera, e Piero, in fondo, è mio figlio! Va bene, ci dovevo pensare! Intanto si avvicinava l’ora della cena. Piero mi disse che non era proprio il caso di andare al ristorante, dove erano certamente le altre famiglie. Il colonnello aveva dato solo a me il permesso di uscire, gli altri erano obbligati a restare in caserma. Lo so che è una pretesa forse illogica, ma certo il colonnello aveva le sue buone ragioni. Si trattava sempre di giovani, alla vigilia di un evento importante, potevano darsi a qualche libagione di troppo, avere qualche incidente, e sarebbero stati guai, per tutti! Comunque le cose stavano così. Piero era in braccio a me. Seguitavo a cullarlo. Sentivo la sua mano carezzarmi il seno, sempre più insistentemente. Ad un tratto, seguitando a sbaciucchiarmi, mi sbottonò la blusa, afferrò una tetta e la tirò fuori dal reggiseno. “Com’é bella, mamma. La più bella del mondo. Da qui ho tratto la vita.” “Da qui hai tratto l’alimento.” Si chinò, la baciò lievemente, poi lambì il capezzolo con la lingua. “E’ bellissimo mamma, rosso e appetitoso come una fragola.” Lo prese tra le labbra, cominciò a succhiarlo, lentamente, lungamente. Era dolcissimo. Mi ricordava momenti lontani. Nel contempo sentivo che mi turbavo, mi eccitavo, il grembo sobbalzava, si rimescolava, il mio sesso sembrava gonfiarsi, inumidirsi. Quello che si ingrossava manifestamente, era il sesso di Piero, costretto nei pantaloni. Per un momento mi venne l’istinto di liberarlo e dare a lui i baci che Piero seguitava a prodigare alla mia tetta. Mi controllai, ma non fino al punto di evitare di allungare la mano, timorosa, a carezzare quel grosso fagotto, ad afferrarlo in una stretta nervosa, isterica. Mi stava capitando qualcosa di impensato, di imprevedibile. Almeno per me. Mio figlio mi eccitava, mi infiammava. Lo carezzai dolcemente e gli sussurrai nell’orecchio che dovevo andare al bagno. Si alzò, mi alzai. Eravamo entrambi rossi e accaldati. Andai al bagno. Le mutandine confermarono il mio eccitamento. Tolsi la blusa, mi lavai abbondantemente, con acqua fresca. Tolsi il reggiseno, lavai con acqua tiepida la mammella che aveva baciato, il capezzolo. Sentivo ancora le sue labbra, la sua lingua, il suo suggere… Rimisi la blusa. Mi detti una sistemata ai capelli, passai un filo di rossetto sulle labbra, tornai nella camera. Piero era dietro i vetri del balcone. Mi avvicinai a lui. Mi cinse la vita. “Vuoi che torni nel mio alloggio, ma’?” Scossi la testa, negativamente, senza parlare. Mi strinse a sé, mi spinse dinanzi a sé, mi abbracciò, prese le mammelle tra le sue mani, si mosse perché, ne sono certa, il mio fondo schiena sentisse suo desiderio. Mi baciò sul collo, poi, mi prese per le spalle e mi girò verso lui. Mi abbracciò di nuovo. Ora quel fagotto era sul mio ventre. Si abbassò leggermente sulle gambe e lo pose tra le mie cosce, sotto al pube. Lo sistemò bene, si alzò, quasi sollevandomi. La spinta era tale che bastò un mio lieve spostamento perché le mie cosce si dischiudessero e lo sentii come se mi stesse penetrando. Credevo di svenire. Piero si muoveva appena, aggrappato a me. Si staccò d’un tratto, repentinamente, abbassò la zip, afferrò il suo coso e corse nel bagno. Capii cosa era accaduto. Ne ero turbata e nel contempo felice. Mio figlio provava per me qualcosa che mi inorgogliva. Lo so di essere piacevole d’aspetto, forse anche troppo. Ho sentito i commenti che gli uomini fanno su me. Alcuni veramente volgari e scurrili. So bene che mi si darebbero alcuni anni di meno. Si, so altrettanto benissimo, inutile ripetermelo, che Piero è mio figlio, carne della mia carne. Ma cosa posso farci se in quel momento avrei voluto sentirlo carne nella mia carne? Lui aveva avuto il suo sfogo. Ed io? Dovrei vergognarmi a parlare così, perché sono sua madre? Ma da quando in qua il sesso conosce etichettature? Le deve conoscere la mia razione, il mio cervello? Perché, gli istinti naturali sono razionali? Lasciamo andare. Torniamo a quando Piero uscì dal bagno Trillò il telefono, avevano portato una valigetta per il tenente Podda, presso la madre. Lo dissi a Piero. Mi pregò di farla portare su. Dopo pochissimo bussarono alla porta. Il fattorino aveva portato la valigetta. Piero la mise sul letto, l’aprì. “Meno male, c’è tutto per cambiarmi.” Si voltò verso me. “Rimango?” Annuii! Ero confusa, frastornata, turbata. Credevo anche di essere titubante, perplessa, ma nel mio intimo già sapevo di mentire a me stessa. Piuttosto, ma Piero fin dove sarebbe giunto? Mi domandavo se non stavo andando ultra petita, al di là di quello che voleva Piero. Mi chiedevo se stavo perdendo ogni equilibrio. Ma se, invece, Piero……? Dovevo, potevo sottrarmi? Inutile dire sì, con tanta foga. Io ero nel pieno di un gorgo, e se lo fosse stato anche lui? Mi sentivo risucchiata, non ero più in grado di riemergere. Quello che mi sgomentava era il pericolo (sì, per me era un pericolo!) che mi fossi illusa. “Piero, per favore, fatti passare il ristorante, ordina la cena e chiedi di servircela in camera.” Con molta calma e voce ferma, senza domandarmi cosa gradissi, Piero si collegò col ristorante, dettò la comanda e disse di aggiungere anche un demi di champagne. “Dobbiamo brindare, no?” “A cosa?” “Al giuramento!” “Ah!” Notai che aveva chiesto una mezza bottiglia. Quindi la sua finalità non era quella di ubriacarmi. Cosa significava, che avevo frainteso il suo comportamento? Ma, quella sua eccitazione, quel correre a precipizio nel bagno? Mi piaceva pensare che lo champagne era un mezzo per essere allegri, ma che volesse che restassimo perfettamente padroni delle nostre azioni. Tutto doveva essere ‘voluto’, in piena coscienza. Perché è proprio la piena coscienza che ti fa comprendere e apprezzare il piacere. Lo so che passo per ipocrita, ma per spezzare la tensione pensai di cambiarmi. Ero ancora col vestito da viaggio. Avevo portato una vestaglia, per sentirmi più in libertà. Aprii l’armadio, presi vestaglia e pantofole. “Vado a cambiarmi.” Stavo per avviarmi verso il bagno. “Perché, non puoi cambiarti qui, ma’? Lo hai fatto tante volte.” Andò a sedersi in poltrona. Ero tra lui e la toletta dal grosso specchio. Deglutii. Non sapevo cosa fare. No! Sapevo che volevo spogliarmi di fronte a lui. Scrutarne la reazione. Tanto, sarei comunque rimasta in reggiseno e slip. Tolsi la blusa. Avevo dimenticato che nel bagno, quando mi ero lavata il petto, non avevo rimesso il reggiseno. Piero mi guardava. “Gulp, ma’! Che sballo!” Indossai la vestaglia. Mi tese la mano. “Vieni qui, tettona bella, vieni qui.” Mi tirò sulle sue ginocchia… sul suo cocker cock, sul suo pisello armato che sembrava un palo d’acciaio. Mise la mano nella vestaglia, sulla coscia, carezzò lentamente… In quel momento bussarono alla porta. “Il pranzo, signori!” Andai ad aprire io. Il cameriere entrò, c’era tutto sul carrello, bastava alzarne i lati ed era una tavola elegantemente imbandita. “Lasci pure lì, grazie.” Mi indicò come fermare le rotelle, mi chiese quando dove tornare. “Lo metterò fuori la porta, grazie.” Presi una banconota dalla borsetta e gliela porsi. “Grazie, signora.” Uscì. Piero era in piedi, guardava sotto i coperchi che coprivano i piatti di portata. Era un raffinato buongustaio. Cocktail di gamberetti, filetti di sogliola al burro, mousse al limone, chablis, e champagne. Mi congratulai per la sua scelta. “A me piace solo ciò che è di classe.” Sedemmo. Fu perfetto nel darmi i pezzi migliori, versarmi da bere. Lo champagne volle berlo in piedi, vicini, di fronte, con le braccia intrecciate. “Al giuramento…” “Al giuramento…” Poi sul divano, TV accesa, ma la guardavamo senza vederla. Eravamo vicini ma non ci toccavamo. Rivolsi gli occhi verso il letto. Certo, né io né Piero avremmo dormito sulla poltrona. “Piero, ma ti sei fatto portare il pigiama?” “Dovevo?” Sentii balzarmi il cuore in petto, quasi soffocarmi. Si alzò. Mi tese la mano. Mi condusse verso il letto. Mi sedetti sopra. Spense la luce centrale, rimase acceso solo il lume sul comodino, che emanava un chiarore soffice e diffuso. Tolse la camicia, sfilò i pantaloni. Il boxer non celava il suo stato di eccitazione. Si avvicinò a me, mi tirò su, dolcemente, prendendomi le mani. Slacciò la vestaglia, la fece cadere sul tappeto. Si inginocchiò, mise le dita nell’elastico delle mutandine e le abbassò lentamente. Avvicinò il volto al mio pube. Sentivo il suo naso nei miei riccioli. Aspirò profondamente “Meraviglioso, ma’, hai un profumo indimenticabile. Lo annusavo nella biancheria del cestino dove la mettevi in attesa di essere lavata. Che miracolo, poterlo sentire così…” Aveva messo le mani sui fianchi, mi aveva dolcemente fatta di nuovo sedere sul letto. Stava dischiudendo le mie gambe, ponendosele sulle spalle. Sempre in ginocchio. La sua testa era tra le mie cosce. Oddio, quella era la sua lingua, mi lambiva, titillava il mio clitoride, s’intrufolava tra le piccole labbra, entrava nella vagina, ne usciva, ne rientrava, la leccava internamente, intorno intorno…. Mi stava facendo impazzire… tremavo come una foglia, senza ritegno… il piacere saliva, mi invadeva, s’impadroniva di me, dei miei sensi, del mio cervello… “Ooooooooooh, Piero…. Sto morendo…” Seguitò fin quando, dopo lo sconvolgimento dell’orgasmo, non giacqui esausta, affranta. Si alzò in piedi. “No, ma’, stai vivendo.” Non aveva più i boxer. Il suo fallo mi sembrava immenso, forse più della realtà. Avevo le gambe fuori del letto. Rimise le mie gambe nuovamente sulle sue spalle e avvicinò il grosso glande alla mia gocciante vagina. Entrò maestoso, imponente, non da conquistatore, ma da liberatore. Finalmente, non ne potevo più. Sentivo la mia voce, era roca, affannata. “Questa ti ha dato la vita, tesoro, ora sei tu che le dai la vita.” Non una frase d’effetto, stucchevole. Io sentivo che vivevo per la prima volta. Era stato bello concepirlo, stupendo dargli la vita. Ora lui ricambiava, centuplicato il piacere del concepimento, e la gioia della maternità. Mi faceva conoscere l’ ebbrezza, la voluttà, l’estasi di essere femmina. Quando, appagati e sopraffatti dal piacere giacemmo vicini, Piero mi dette la mano. “Abbiamo brindato al giuramento, ma’, ora devi giurare…” “Giurare?” “Si, giurare.” “Cosa, tesoro?” “Che sarai sempre mia, così, come ti ho sempre desiderato!” “Credi che debba giurartelo, non l’hai capito?” “Giuralo!” “Te lo giuro amore mio, te lo giuro così…” Mi misi a cavallo a lui, presi il suo fallo rinvigorito e mi ci impalai golosamente. Dopo quei giorni in cui mi sembrava vivere un continuo sogno, dal quale temevo di risvegliarmi, è giunto il martedì mattina. Piero ha preso il taxi, per farsi accompagnare in caserma. Io ero sulla porta dell’albergo. Di fronte, la grandiosa chiesa, alta sulla scalinata. Vi sono entrata, mi sono inginocchiata al confessionale dov’era il vecchio sacerdote. Mi ha tartassato di domande. Mi ha subissato di considerazioni. Mi ha mostrato il più profondo inferno. A me, che ero appena uscita dal paradiso. Poi, alla fine, mi ha detto: Va, e d’ora in poi non peccare più. Mi sono alzata, mi sono segnata. Sono uscita dalla chiesa scuotendo la testa. Perché, è peccato amare?
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