Sbatteva i pugni contro il doppio vetro scuro, ma nessuno poteva sentirla. Lei invece poteva sentire tutto, attraverso gli altoparlanti installati agli angoli della stanza in cui era rinchiusa. Tornò a battere sulla pesante porta blindata, poi di nuovo sui vetri della finestrella. Diamine, non poteva fare nulla. Quello scellerato di suo marito stava giocando un’altra volta d’azzardo E ovviamente stava perdendo. Prima l’auto, poi la villa, ora stava rilanciando impegnando l’appartamento in centro. “Hei! Eeeeeii!!” Non sentiva. Quel cretino! Senza rimedio. Di sicuro baravano, forse vedevano le carte da un’altra sala uguale a quella in cui si trovava lei. In ogni modo si stava facendo spennare come un pollo da quei furfanti… Ah, ma l’avrebbero pagata cara! Non avrebbero visto una lira, a costo di muovere tutti gli avvocati del foro, li avrebbe mandati a marcire in galera. E suo marito avrebbe avuto subito subito l’interdizione. Maledì la sua curiosità. Era ovvio che l’avevano lasciata andare in giro a spiare per allontanarla mentre spennavano il marito. Troppo gentili, troppo amichevoli, troppo diversi dai soliti amici del marito, volgari giocatori dei professione. Invece era stata una serata diversa, una residenza signorile, uomini cortesi ed eleganti, discussioni di viaggi, bizzarri giochi di società, magari un po’ stupidi, ma originali. E puliti. Eppure qualcosa le diceva di non fidarsi troppo. Si era insospettita, li aveva lasciati fare, ma a un certo punto si era allontanata per di andare alla toilette, mentre gli uomini parlavano di calcio, e si era messa a curiosare. Voleva vederci chiaro. Fino a quando non aveva trovato quella stanza spoglia, con la finestra tipo candid camera, certamente nascosta dal finto specchio che stava nel salone. E mentre guardava dall’altro lato la pesante porta si era chiusa dietro di lei. Ora assisteva impotente al marito che si giocava tutto il patrimonio di famiglia. “L’appartamento è andato” disse l’uomo, posando le sue carte sul tavolo. Aveva perso di nuovo. Insieme all’appartamento era andata anche l’ultima possibilità di riscattare tutto. “Come sai ti resta un’ultima possibilità. Sta a te decidere”. Silenzio. “Ci devi un bel po’ di soldi, non so come farai ad appianare il tuo debito. Sai che con certe banche non si scherza” “Va bene -rispose – carta” “Tua moglie contro tutto quello che hai perso?” “Carta!” ripetè accennando col capo. Terrorizzata riprese a battere i pugni sul vetro con tutta la forza che aveva. Suo marito se la stava giocando a carte! Come fosse un appartamento, l’automobile. Se la stava giocando! E lei era chiusa la dentro e non poteva far nulla. Inutile domandarsi come sarebbe andata a finire. Quel cretino! Quel fottuto bastardo! “Mi dispiace” diceva l’uomo mentre raccoglieva le carte. Dall’altra parte del vetro lei si sentì mancare. “Sappiamo che non ti è andata troppo bene, stavolta. Ma sapremo essere comprensivi. Del resto quando sarai titolare dei beni di tua moglie, non avrai più troppi problemi” aggiunse, mentre accompagnava il marito verso la porta. “Titolare dei beni di tua moglie”. Quel bastardo, l’avrebbe pagata cara pure lui. O forse no: un sorriso sinistro apparve sul suo viso, prima di uscire dalla stanza. Poi la luce si spense, e lei rimase completamente da sola, al buio. Continuò a sbattere i pugni contro la porta, fino a quando, esausta, non si accasciò al suolo, e si addormentò. La guardava attraverso il vetro della finestrella. Oramai era sua. Era una bella donna di 28 anni, slanciata, gambe lunghe, capelli biondi, fisico atletico, scolpito in regolari sedute di fitness. E ricca. Da sette anni era amministratore delegato unico della ditta di famiglia. Era abituata a gestire il denaro e le persone, in modo sicuro, determinato, spregiudicato. Il marito era uno dei pochi lussi fatui che si era permessa. Era stata una sciocchezza. Debole sul lavoro, e ossessionato da una morbosa passione per il gioco d’azzardo. Non perdeva l’occasione per mostrargli in pubblico il suo disprezzo. Del resto lo faceva anche coi suoi dipendenti, pensò lui. Per anni era stato suo segretario, per anni era stato trattato con sprezzante indifferenza. Si era perfino innamorato, e lei doveva averlo capito, perché aveva iniziato a prendersi gioco di lui, a lasciagli credere di avere delle possibilità, per poi umiliarlo davanti a tutti. MA ora aveva vinto lui. Ora avrebbe avuto i suoi soldi, ora avrebbe avuto lei. E non avrebbe provato alcuna pietà. La svegliò di soprassalto la porta blindata che si apriva alle sue spalle. Era notte. La luce improvvisamente accesa la accecava, ma l’ombra che si avvicinava le parve subito familiare: il suo segretario. “Grazie al cielo, sei tu. Via, andiamo subito via di qui…” Squashhh! Un potente schiaffo la rigettò per terra, dopo averla fatta rimbalzare sul muro. “Stai zitta, stronza! Non sei più in condizioni di dare ordini”. Altri due uomini erano apparsi dietro di lui. Le afferrarono i polsi torcendoli fino a farla gridare, ma smise presto: appena accennava un fiato, torcevano ancora più forte. Dovette alzarsi e lasciarsi condurre in silenzio per il lungo corridoio fino ad una stanza. Le chiusero entrambi i posi a delle catene che pendevano dal soffitto lungo la parete, le infilarono in bocca una grossa palla di gomma tenuta a stringhe di cuoio che si chiudevano dietro la nuca, lasciandola imbavagliata. E lui, il suo dipendente, le si avvicino con un sorriso che non prometteva niente di buono. Le poggiò la mano sul viso. Poi scese per il collo, si poggiò sul seno. Colta dal terrore cominciò ad agitarsi e a scalciare. “Le caviglie!” disse agli altri due uomini, che le afferrarono rudemente le gambe e le tirarono con forza al lato, facendole così aumentare il peso sui posi, quindi le legarono con brevi catene a due anelli di metallo fissati nel muro. Ora non poteva davvero muoversi. Si avvicinò di nuovo e rimise la mano sul seno. Non poteva far nulla. Era rossa in viso, e non ci vedeva più per la rabbia, ma non poteva più fare niente. “Ti dona il bavaglio” fece lui. La mano affondava sul suo seno. “E’ finito il tempo in cui eri la Signora. E’ ora che cominci ad ascoltare. E ad ubbidire agli ordini” iniziò a strizzarle il seno, poi le afferrò il capezzolo, mentre lei lo guardava con odio. “Perché la tua vecchia vita è finita. Definitivamente. Tra poco sarai morta per il mondo. E se vuoi vivere ancora devi imparare una vita nuova” E le strinse il capezzolo, tirandolo a se e torcendolo con furia. Ma il suo viso era calmo, freddo, spietato. “E’ venuto il momento in cui i ruoli si invertono” disse sorridendo mentre le sbottonava la camicia, senza fretta, un bottone dopo l’altro. “Il tuo maritino ti ha giocata alle carte. E ti ha perso. Nessuno ti riscatterà più. Preparati alla tua nuova esistenza”. Aveva estratto un coltellino dalla tasca, e ora le stava tagliando via la camicia, poi il reggiseno, con metodica calma. Aveva un seno non grande, ma sodo e proteso, che si ergeva con impudenza sul ventre liscio e muscoloso. “Ti sei domandata il perché di quel simpatico gioco di società stasera? Il viaggio dei tuoi sogni, scrivi una cartolina per ogni tappa? Domani partirai. Hai un posto prenotato per le Maldive. Poi comincerai a girare un po’, vediamo… quali cartoline hai scritto? ….Mi sembra Messico, poi di nuovo a sud, Guatemala, Costa Rica. Solo che non ci sarai tu su quell’aereo. Ma qualcuno che avrà un gran piacere a fare un viaggio col tuo passaporto. Qualcuno che trova utile viaggiare in incognito, a nome di altri. Qualcuno che spedirà le tue cartoline. Poi temo che qualcosa accadrà in uno di quei paesi, perché non tornerai più. Com’era quella cartolina a tuo marito? `Ciao bello, non torno più, ho trovato il mio uomo…’ Ti sembrava molto spiritoso, vero? Del resto si sa, quando un bella donna arrogante e piena di soldi viaggia da sola, è facile che succeda qualcosa…” Le stava tagliando via la gonna e gli slip. Ora era completamente nuda di fronte a lui e agli altri due uomini. Contorcersi non faceva che aumentare il suo senso di impotenza, non faceva che esporre ancor più il suo bel corpo. Continuò ad agitarsi finché non si sentì spossata, mentre le mani dell’uomo si impossessavano di lei, un pezzo dopo l’altro. “Ma vedrai che la tua nuova vita ti piacerà. Ti abbiamo preparato un esordio da stella del cinema. Certo, è un cinema un po’ particolare, ma sono certo che sarai molto apprezzata.” Scostò una tenda: dietro c’era un vero e proprio studio cinematografico. Un riflettore si accese abbagliandola e scaldandole improvvisamente la pelle, mentre lui le toglieva, uno dopo l’altro, orologio, braccialetti, collana, orecchini. “La prima scena potremmo chiamarla L’INTERROGATORIO. Infatti quando ti toglieremo il bavaglio ci darai tutti i codici bancari più le password di accesso ai dati riservati della ditta. Nel frattempo raccoglieremo un bel po’ di materiale per un capolavoro da Oscar”. La mano di lui era scesa poco a poco verso il basso, e si era posata sul pube. Non poteva impedirglielo, con le gambe tenute larghe dalle catene. Le afferrò i peli e la tirò in avanti, mentre abbassava il capo a succhiarle un capezzolo. Poi si scostò e fece qualche passo indietro. Si chinò ad aprire una grossa valigia nera, da cui estrasse un rigido e sottile frustino che agitò davanti ai suoi occhi facendo fischiare l’aria, prima di consegnarlo ad uno dei suoi uomini. “Ciak, si gira!” disse allegramente prima di scomparire nell’ombra. I colpi cadevano sul suo corpo uno dopo l’altro con spietata sequenza. Non faceva in tempo a riaversi da uno che arrivava il secondo da un’altra parte, inaspettato, ancora più feroce. Ogni colpo una riga rossa. Sul ventre. Sulle cosce. In mezzo ai seni. Sul fianco. Poi ancora sul ventre. Ancora un altro, e un altro ancora. Cercava di evitare la frusta, e il suo corpo scattava automaticamente in senso opposto, straziandole i polsi. Era un o sforzo inutile, i colpi arrivavano sempre da un lato inatteso. I nervi le esplodevano. Le sembrava di impazzire. Come un martello compressore le schiacciasse il cervello. Fino a quando vide tutto nero. Poi un altro colpo, uno shock: una secchiata di acqua gelata l’aveva riportata alla luce. Una mano le afferrava i capelli e le tirava su la testa. Non riusciva a sentire cosa gridava. La mano la lasciò, e arrivarono altri colpi. Di nuovo sul ventre, sul fianco, poi sui seni. Una dopo l’altra le strisce rosse le si incrociavano attorno ai capezzoli. Svenne di nuovo. Si svegliò con la mano di lui che le carezzava di nuovo il corpo, seguendo con precisione i segni della frusta. La luce del riflettore sempre calda sulla pelle. E una sensazione strana quasi di piacere emerse appena in mezzo al dolore. Poi la luce si spense e tornò il buio. Ma lei era ancora tenuta su dalla catena. Provava un dolore atroce ai polsi, perfino peggiore di quello lasciato dalla frusta. I muscoli, costretti nella stessa posizione le davano i crampi. Il tempo sembrava non passare mai. Non c’era giorno né notte, nella stanza buia. Fu quasi felice quando li vide tornare. Pregava solo che la togliessero dalle catene. Non era in grado di reagire più. Voleva solo dormire, riposare mangiare, urinare. Bisogni elementari, animali, potenti. “Riprende il film” disse la voce sconosciuta. Di nuovo il riflettore accecante sugli occhi. Di nuovo il sibilare della frusta. “Aspetta – disse la voce di lui dall’ombra – tirala più su, prima. Rumore di catene, di un meccanismo elettrico, e si sentì improvvisamente strappare in due, coi polsi tirati verso l’alto con un dolore, mentre le catene alle caviglie la tenevano salda verso il basso. Non riusciva a pensare a nulla, solo il dolore e quella luce accecante negli occhi. Sentì una mano afferrarle i capelli, tirarle la testa verso il basso, e cercò di assecondarla per evitare che le tirasse ancor più i polsi. Abbassò la testa inarcando il busto. La mano le frugò dietro la nuca e le tolse il bavaglio. Per un momento non riuscì a parlare, la bocca era ancora paralizzata dalla pressione del bavaglio. Poi fece uno sforzo. “Per piacere, per piacere, tiratemi giù! Farò tutto quello che volete, vi lascio tutto ma tiratemi giù, lasciatemi andare vi prego. Vi prego. Vi prego…” Un colpo sordo le fece vedere nero. La risposta, un potente schiaffo. “Stai zitta stronza. Qualcuno ti ha autorizzato a parlare? Regola numero uno: silenzio. Parla soltanto quando ti si chiede qualcosa. Regola numero due: non alzare mai più lo sguardo sui tuoi padroni. Guarda verso il basso. Non te lo ripeterò più: per il mondo tu sei morta. E in effetti la tua vita è appesa a un filo. Vedi di non spezzarlo.” Le aveva infilato la mano tra le gambe e stava spingendo verso l’alto “Per oggi l’unica cosa che voglio sentire da te sono i codici e i dati dei tuoi conti, compresi quelli coperti”. “Brutto bastardo traditore, uccidimi pure subito. Non vedrai niente”. “E’ qui che ti sbagli piccola mia. Non ho alcuna intenzione di ucciderti. Però ti assicuro che sono in grado di farti rimpiangere di non essere davvero morta in viaggio”. Mentre parlava le aveva afferrato i capelli e tirava verso il basso. Poi la lasciò, con un sorriso bonario. Ora singhiozzava soltanto. “Beh, lavoratela con la frusta. Voglio sentirla urlare” disse uscendo dalla porta. Quando rientrò lei aveva perso i sensi. Nuove strisce rosse si erano sovrapposte e incrociate sulle vecchie. Aveva urlato. Quanto aveva urlato! Fino a quando i nuovi colpi non le avevano strozzato in gola la voce. La svegliò con un’altra secchiata d’acqua e la vide riaprire gli occhi a fatica, in grado a malapena di mugolare. Le sputò in faccia il fumo della sigaretta, una lunga boccata di fumo che la fece tossire. “Allora, siamo pronti per questi codici?” chiese mentre le affondava la sigaretta sul capezzolo sinistro. Era pronta, e disse tutto quello che lui voleva sentire. Dopo aver preso nota, ripose il taccuino e accese un’altra sigaretta, e rimase a fumarla davanti a lei, lentamente, guardandola singhiozzare sommessamente. “Giù… tirami giù… per piacere… detto tutto… hai avuto quello che volevi… giù…” “Ti avevo detto che non devi parlare, mi sembra” rispose avvicinando la sigaretta al seno destro, questa volta con estrema lentezza, per darle il tempo di sentire il calore avvicinarsi, di contorcersi nel disperato tentativo di evitare la sigaretta, di sentire il rumore della brace sulla pelle. Lei stava ancora urlando, quando lui si rivolse ai due uomini “Ci ha messo un po’ troppo a parlare. Dalle altri venti colpi. Col bavaglio questa volta.” L’avevano lasciata là un’altra volta per un tempo indefinito. Poi la porta si era aperta di nuovo, si accese il riflettore e se lo vide di nuovo davanti. La mano di lui prendeva nuovamente possesso del suo corpo. Il calore della lampada e la pressione della mano sul ventre le ricordarono che doveva urinare, e questo la fece sentire ancor più nuda, più esposta. La afferrò per i capelli e le chiese: “Allora, come ci si sente, gentile signorina? Contenta del film? Pensa che magari, fra un paio di anni, quando tutto sarà ormai lontano, potrei mandarne una videocassetta in regalo a tutti i tuoi dipendenti. Per Natale. Sapranno apprezzare? Ma non preoccuparti, allora questo non ti preoccuperà minimamente, ti assicuro. Intanto però puoi immaginarteli seduti qui davanti, a guardarti attraverso l’occhio della telecamera, mentre commentano e mangiano pop-corn. Pensa un po’ a quanti di loro stai regalando la realizzazione di un sogno covato per tanti anni, il tuo bel corpo arrogante ridotto ad articolo di scarto, la loro amministratrice delegata che si prostituisce per un tozzo di pane lercio. Vedrai, ti piacerà… E allora, vogliamo dare qualche soddisfazione ai tuoi dipendenti? Andiamo a esibirci in qualche scena di sesso. Cerca di essere partecipativa, va bene?” Non poteva parlare, ma scosse la testa con forza. Allora lui le afferrò un seno e glie lo strizzò fino a quando il capezzolo non s’inturgidì. Quindi afferrò un paio di cesoie e le strinse lentamente sul capezzolo. Molto lentamente, fino a farlo diventare bluastro, mentre il sangue iniziava a scorrere da un lato. “Potrei tagliartelo via, zac! con un colpo solo, e tu non puoi fermarmi. Ma credo che non lo farò, perché vedi, oramai questo pezzetto di carne ha un valore commerciale molto ma molto più alto di tutto quello che hai nella tua testolina. Questo pezzetto di carne si può vendere, ed è l’unica cosa che oramai ti tiene in vita”. I due uomini le sciolsero le catene. Uno le afferrò i polsi torcendoglieli con forza. Inutile precauzione: non era in grado di reagire. L’altro uomo le stava mettendo un collare di cuoio. La fecero inginocchiare a gambe larghe fra due corti pali. Alla base di essi erano fissati due spesse fasce di cuoio, che le furono legate strette attorno alle cosce. Alla cima erano incatenati due bracciali di metallo, che le furono applicati ai polsi. Si trovava ora in bilico sulle ginocchia, con la braccia tirate indietro fino ai due pali. unirono una catena al collare e lo tirarono verso il basso, agganciandolo ad un altro anello infisso nel pavimento. Non poteva alzarsi. Era inginocchiata, con il viso pressato sulla polvere del pavimento, le parti intime esposte dal basso verso l’alto alla calda indiscrezione del riflettore. Un uomo si chinò dietro di lei, si sbottonò i pantaloni e la prese. Come un animale, come una cagna. La bocca ancora chiusa nel bavaglio, il collo tirato verso il basso, respirava a fatica, mentre il membro dell’uomo sconosciuto le penetrava nel profondo. Durò un’infinità. Poi l’uomo si alzò, prese la frusta, e iniziò a colpirle le natiche con violenza. Un colpo, un altro, un altro ancora. Quando si fu calmato si avvicinò di nuovo e le infilò il manico della frusta nell’ano, spingendolo quanto più a fondo poteva. Quindi la prese anche l’altro uomo, sempre allo stesso modo. Una mano di lui le premeva il ventre gonfio, l’altra si stringeva sui seni martoriati dalla frusta, le pizzicava e torceva i capezzoli. I due uomini si davano il cambio, uno dopo l’altro, o le penetravano con strumenti che non riusciva a vedere, ma di cui percepiva la ruvida e dura consistenza. Per un tempo infinito. la luce si spense di nuovo. La lasciarono li, inginocchiata nel buio, col viso a terra e le mani dietro la schiena. Col silenzio e la calma si riaffacciò la fame. E la sete. Poi il sonno ebbe la meglio. Si svegliò nel buio mentre il rigagnolo caldo le scendeva lungo le gambe. Da quanto tempo era li? Un giorno? Due? Aveva un disperato bisogno di urinare. Aveva resistito mentre la frusta le si abbatteva sul ventre, quando le mani dei due uomini che la prendevano le premevano la vescica già compressa. La dignità in lei aveva resistito. Ma ora non ce l’aveva fatta. Il sonno, per quanto in quella penosa posizione, l’aveva rilassata, e ora si trovava in un lago della sua stessa urina. Il pavimento era in lieve pendenza, e il lago avanzava verso i ginocchi, sotto il ventre e si avvicinava al viso, schiacciato contro il suolo. Tentò pateticamente di alzare la faccia, e riuscì a tenerla a qualche centimetro dal suolo, a prezzo di grandi sofferenze sulla schiena e sulle ginocchia. La sentì nei seni, dove i colpi della frusta reagivano con dolore a contatto con l’acido dell’urina. Vide con terrore il rigagnolo passarle sotto al viso, inzuppare i capelli di cui un tempo era andata tanto fiera, i suoi lunghi capelli biondi. Resistette ancora qualche lungo minuto, poi un crampo alla schiena le fece perdere l’equilibrio, e con un sonoro “spalsh!” ricadde nella piccola pozza di urina. Si rialzò, ma ormai era tutto inutile: il viso era completamente bagnato, e la schiena le doleva ancor più. Si lasciò ricadere nella pozza, sapendo che stava perdendo uno degli ultimi residui della sua dignità. Gli uomini l’avrebbero trovata nella sua stessa urina, l’avrebbero derisa mentre la torturavano. Si svegliò con la sensazione di affogare. Il flusso caldo le scendeva per i capelli, per il viso, le gorgogliava nel naso. Le stavano urinando sulla faccia. “Buon giorno signora! – la voce era sopra di lei – E così ce la facciamo addosso, eh? Molto fine. Davvero, molto aristocratico. Visto che ti sei ridotta a un cesso prendi pure questa” mentre dirigeva il getto di urina verso le orecchie, verso il naso, verso gli occhi. Quindi si abbassò su di lei e le sfilò il bavaglio. Quanto tempo lo aveva portato? La bocca faticava a chiudersi. Se ne accorse quando l’altro uomo, che aveva anch’egli cominciato ad urinare, diresse il getto proprio tra le sue labbra. Sputò con orrore, ma un’altra mano le afferrò i capelli tirandole la testa indietro con violenza. “Apri la bocca e ingoia, puttana!” Non c’era bisogno che lo dicesse, perché il gesto violento le aveva automaticamente aperto la bocca, che si era riempita del caldo e acre sapore di urina. “Ingoia, stronza!” continuava la voce, mentre la frusta la colpiva nuovamente dietro con rabbiosa ferocia. Ingoiò. Vomitò e ingoiò di nuovo. “La nostra attrice migliora di giorno in giorno!” commentò lui con soddisfazione. “Brava, ti sei meritata il pranzo” All’improvviso lo stomaco le si aprì, malgrado ancora l’attraversasse la sensazione di nausea, si ricordò di quanta fame avesse. Le gettarono un pezzo di pane raffermo nella pozza di urina davanti al suo viso e se ne andarono spegnendo la luce. Nel buio poteva vedere chiaramente il pezzo di pane. Mezzo intriso dall’urina che lo circondava, ma era pane, e lei aveva fame. Era li, a cinque o sei centimetri dal suo viso, ma non riusciva a raggiungerlo. Allungava invano la lingua, ma il collare fissato al suolo le impediva di muoversi. Combatté per un’ora circa, alla fine rinunciò, ma il pezzo di pane era sempre li a torturarla. Poi la porta si aprì e la luce si accese di nuovo. Vide una scarpa avvicinarle il pane di un centimetro, con cura. Era più vicino ora, ma riusciva appena a raggiungerlo. Allungava disperatamente la lingua fino a raggiungerne la superficie intrisa di urina, ma otteneva solo di allontanarlo. Eppure insisteva, come colta da ossessione. Sapeva che stavano filmando, che avrebbero venduto il film a centinaia di perversi, ma oramai quello non era più il suo mondo, non la riguardava. Ora aveva soltanto fame, fame, fame. Su una cosa non le avevano mentito: l’interrogatorio era solo la prima scena. Che lei avesse detto o meno quello che si aspettavano, questo non cambiava per nulla la sua posizione, l’interrogatorio proseguiva anche senza domande. Dapprima iniziarono a chiederle di assumere atteggiamenti provocanti e volgari di fronte alla cinepresa, e dovettero insistere un po’ per ottenerli. Ma la villa in cui si trovavano disponeva di una fornitissima palestra, rapidamente adattata a camera di tortura. La stesero a braccia e gambe divaricate colpendola con frustini da cavallo. La torturavano dopo averla legata ad una pertica, vestita in abiti provocanti. Spalliere, cavalletti, anelli, tutto fu utilizzato, e quando non avevano nulla da pretendere, si limitavano ad abusare di lei, colpirla e filmare. La legavano in posizioni bizzarre, attorno a bastoni che poi venivano issati fin sul soffitto. Le fissavano corde o pesi ai capezzoli, la appendevano per le gambe e le braccia e la prendevano mentre fluttuava, oppure la legavano a sgabelli e tavolini, sempre coi seni e il sesso rivolti verso l’alto. La misero una gogna per poi penetrarla da dietro e da davanti contemporaneamente. Ottennero la sua collaborazione incondizionata dopo averla calata nel “buco”. Ne aveva sentito molto parlare, in frasi venate di minaccia, ma non aveva mai capito cos’era. Lo imparò il giorno che la condussero in un sotterraneo, la legarono per i polsi a una catena, aprirono una botola e ve la calarono. Il buio era totale. Sentiva dell’acqua scorrere sotto di sé, che ogni tanto le bagnava i piedi. Quando i suoi occhi si abituarono al buio, iniziò ad urlare terrorizzata. L’avevano calata nella fogna. Al suo fianco, lungo tubi coperti di marciume, correvano senza posa file di grossi ratti. Qualcosa le urtò il piede. I ratti nuotavano nella fogna. Dovette tenere le ginocchia alzate per evitarli, ma così il peso si concentrava sui polsi. Poco a poco le gambe le scendevano in basso fino all’acqua. Allora le risollevava di scatto con un dolore improvviso. Attorno a sé i ratti avevano percepito la presenza estranea e si protendevano dai tubi, cercando di raggiungerla. Dopo un tempo infinito di lotta col suo stesso corpo, svenì. La tirarono su, e la svegliarono scuotendole la testa per i capelli, quindi la calarono di nuovo, per una, due infinite volte. Da quel giorno fu sufficiente nominare il “buco” per ottenere dai lei tutto. Si diedero il cambio diversi registi, diverse produzioni. Doveva essere stata noleggiata a diverse società. Passò di mano in mano, ma non poté dire che ci fossero grandi differenze: non le chiesero mai di recitare. Sperava che i tanti film di cui era protagonista, fossero destinati a circolare in paesi lontani, anche se questo le toglieva le speranze di essere rintracciata.
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