L’autobus mi aveva lasciato al bivio di una stretta strada, polverosa, dove era un cartello con scritto a mano “Campo di Pian della Castagna, km.8”. E un’altra grafia aveva aggiunto, “di salita!”. Me l’avevano detto che avrei dovuto arrangiarmi, nell’ultimo tratto, ma non mi avevano specificato la distanza né la pendenza. Bell’affare. Dieci del mattino, sole già alto, giornata calda, e un pesante zaino da portare sulle spalle: per otto chilometri! In salita! E quando sarei arrivato? Sedetti sul paracarro, con lo zaino a terra. Mi misi a pensare. Ma cosa? Una bella sfacchinata. E’ vero che a diciannove anni non dovrebbe essere la fine del mondo, ma cominciavo a pentirmi di aver aderito a quel ‘Campeggio nel bosco’, organizzato, diciamo così, da un gruppo di noi. Un posto lontano da tutti, alla fine di quella specie di viottolo largo, dove a malapena sarebbe passata un’auto. Chiamai Carlo, l’ideatore, al telefonino. Gli dissi dove stavo e le prospettive. Mi rispose che erano ‘cavoli miei’. Lassù si stava benissimo… e c’erano anche le allegre ragazze, quelle che all’Università sembravano le santarelline. ‘Se vedessi qui!’, aveva concluso Carlo, e tolse la comunicazione. Mi venne in mente di aspettare il passaggio di un autobus di linea. Sarei tornato a casa. Andasse a fare in c… il ‘Campeggio nel bosco’! Proprio in quel momento sopraggiunse un auto, lampeggiò indicando che avrebbe voltato per quella stradicciola. Era molto grossa, anzi mi chiesi se ce la faceva a passare. La guidava una donna. Appena voltato, si fermò, abbassò il vetro del finestrino. Mi sorrise. “Vuoi un passaggio?” “Magari!” “Metti lo zaino nel portabagagli e salta su.” Feci come mi aveva detto, aprii lo sportello. Mi colse un’aria fresca e un profumo di buono. Entrai, sedetti, allacciai la cintura di sicurezza. Tornò a sorridermi. Non era certo giovanissima, forse aveva anche qualche anno più della mia mamma, che ne ha una quarantina, ma era simpatica. Non posso dire bella. Senza alcun trucco sul volto, tutto acqua e sapone. I capelli, di un biondo indeciso, erano raccolti a coda di cavallo. Camicetta allacciata in vita e, a quanto mi era dato vedere, conteneva un seno non eccessivo ma certamente senza reggipetto. Lo si intravedeva chiaramente. Gonna di cotone a fiori, plissettata, abbastanza su, sulle gambe, quasi a metà coscia, e le gambe ben in mostra, di fattura piacevole. Erano dorate e glabre. Un esame puramente estetico, senza alcun riferimento d’altro genere. Mi tese la mano. “Come ti chiami?” “Piero, Piero Romani.” “Io sono Beatrice Sileni. Devi andare al Campo dove sono i tuoi amici?” “Si, lo sa che abbiamo fatto un piccolo campo, con le nostre tende?” “Certo che lo so. Al bivio c’è il cartello che lo dice, e nei giorni scorsi ho dato un passaggio ad altri tuoi amici. Tu sei in ritardo, vero?” “Si, ho dovuto attendere che i miei andassero in villeggiatura.” Si avviò lentamente. Tornò a guardarmi, fissò le mie cosce, abbastanza muscolose, che uscivano dai corti pantaloncini. “Sei ben messo, ragazzo. Fai ginnastica?” “Quando posso.” “Cosa?” “Principalmente tennis, nuoto, palestra… ma lo studio me l’ha fatta un po’ trascurare.” Allungò una mano, palpò ben bene la coscia, in più parti. “Non si direbbe…” Passò con la mano al bicipite. “Anche qui… niente male…” Si assicurò anche della consistenza dei pettorali, quasi con distacco professionale, e quindi degli addominali. Più o meno casualmente strusciò lentamente sul mio pisello che, carico e voglioso com’era, non restò del tutto insensibile. “Lei è medico?” “No, sono biologa.” “E’ in vacanza?” “Si, ho una villetta poco prima del termine di questa carrareccia, e vi si accede da una stradina ancora più piccola, nascosta tra le querce.” “Sta con i suoi?” “Con mia sorella. E’ più anziana di me. Ha ceduto la farmacia, e non mi lascia sola un momento. Per questo, appena posso, prendo l’auto e scappo in paese.” Mi guardò sempre col suo sorriso enigmatico. “E tu, che facoltà frequenti?” “Ho terminato il primo anno di economia, e sono riuscito a superare tutti gli esami… ma una sgobbata!” “Hai fatto anche l’esame con Marinucci?” “Si, ho preso trenta… lo conosce?” “E’ mio cugino… ma non star a darmi del lei… mi fai sentire così vecchia!” Cercai di essere gentile. “Ma che vecchia e vecchia. Lei… scusa… tu… sei giovanissima!” “Sì… di primo pelo! Due anni fa ho girato la boa degli ‘anta’! E tutto un tramonto!” Scosse significativamente il seno. “Altro che la tua saldezza. Senti!” Mi prese la mano e la portò sulla sua coscia, proprio là dove finiva l’orlo del vestito, sulla carne nuda. Fu naturale che stringessi… palpassi. “Però… fai ginnastica anche tu?” “Raramente, un po’ di tennis. Basta!” Non tolsi la mano. Non solo quel contatto mi piaceva, ma stava eccitandomi. E parecchio. Non mi era mai capitato di ‘tastare’ una donna di quell’età, e mi aspettavo qualcosa di più molle. Era piacevole quel contatto. Piacevolissimo. Tanto che mi spinsi un po’ in su. Inutile, giovane o non giovane, la strada per la ‘gnocca’ è sempre quella, e l’effetto non cambia. Pisellone lo confermava. Beatrice strinse le gambe e serrò la mia mano. Mi dette uno sguardo enigmatico. Poi, senza nulla dire, allungò la mano e la posò decisamente sulla mia patta, ben rigonfia. “Allora, ragazzo, non menti quando dici che non sono vecchia. Mi sembra che lo stai dimostrando chiaramente.” E ‘lo’ afferrò, con risolutezza, energicamente, e lo stringeva, attraverso la stoffa dei pantaloncini. La reazione fu di salire ancora con la mia mano… Perdiana! Non aveva mutandine.. era una foresta di seta, di ricci che sembrano muoversi di vita propria. Beatrice svoltò in un viottolo, nel quale la macchina passava appena appena, girò ancora, fermò sotto i castagni, nel fitto del sottobosco più alto dell’auto. Fermò, spense il motore. Senza parlare, destramente abbassò la zip dei miei shorts e il pisellone balzò fuori, ritto e palpitante. Tirò su il vestito, e agevolmente si mise a cavallo a me, sostenendosi sui piedi. Prese il glande, con due dita, e con l’altra mano scostò le grandi labbra, ‘lo’ portò alla sua vagina che fremeva e vi si impalò, quasi di colpo, cadendo con le sue sode chiappe sulle mie cosce. Si spostò in avanti, ne voleva ancora, Ce n’era, certo, ma non ne entrava di più. Cominciò a dimenarsi, dapprima piano, poi sempre più ardentemente, con la testa rovesciata, gli occhi socchiusi, e gemeva sempre più forte. Ad un tratto slacciò la blusa, l’aprì, avvicino un capezzolo alle mie labbra. Cominciai a ciucciare. Il collegamento tetta-vagina era perfetto. Io ciucciavo e lei mungeva il mio fallo. Meravigliosamente. Un attimo prima che io godessi, fu lei a gridare un lungo e soffocato ‘eeeeeccooooooooo!’ che la travolse e si strinse a me, quasi mi stritolava quando il mio seme, caldo e abbondante, irruppe in lei. “Come sei bravo Piero… come sei bravo… si…. riempimi di te…. di te…” E si avvinghiò voluttuosamente. Non so per quanto tempo restammo così. Immaginavo lo stato dei miei pantaloncini, perché sentivo scorrere sulle gambe quanto usciva da lei. Percepivo il calore del suo grembo,le piccole contrazioni, e questo stava facendo rifiorire la mia eccitazione. Il mio sesso stava ricrescendo in lei. Di nuovo! Mi guardò, con occhi sfolgoranti, nari frementi. Sudata. Ed era bellissima. Si mosse un po’. Si, la rivolevo, volevo ancora esplodere in lei. Non mi fece attendere. Era più ardente e impetuosa di prima. Il ‘ciac ciac’ delle sue natiche sulle mie cosce ritmava il crescendo della nostra voluttà. Le mie labbra si alternavano sui suoi capezzoli, le mani erano afferrate ai suoi glutei, li accompagnavano, attendevo…. attendevo… “Amore mio…. Amore mio… mio… mioooooooooooooo!” E proprio allora il mio seme la invase, si sparse in lei… Ci eravamo rassettati alla meglio, avevo aperto lo zaino, tratto dei pantaloncini puliti. Beatrice mi seguiva cogli occhi, estasiata. Si avvicinò a me, mi abbracciò, mi baciò sulla bocca, a lungo, stringendosi fortemente. “Grazie, bambino mio. Mi hai resa felice… beata. Non ti dimenticherò mai. E’ stato bellissimo, meraviglioso… Grazie!” Risalimmo in auto, tornò sulla carrareccia, giungemmo allo slargo dove, dopo pochi metri, era piantato il ‘campo’. Presi lo zaino, le tesi la mano. Ci salutammo così. Qualcuno del ‘campo’ poteva vederci. Quando giunsi fui accolto da un coro di applausi, di grida… ecco Piero! Posai lo zaino per terra, mi porsero una lattina d’aranciata. L’aprii, feci un sorso. “Ragazzi, devo svelarvi quello che mi è capitato.” Risero da matti. Le ragazze accennarono ad allontanarsi. Carlo fece segno di stare zitti. “Silenzio! Ora Piero ci svela come ha conquistato Beatrice la scopatrice, quella che s’apposta sulla statale per dare l’autostop a qualche bel fusto, e poi se lo fa come un’assatanata. Silenzio!”
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