Era quasi buio quando Ela venne a svegliarmi, soffiando leggermente sul mio viso. “Fra poco si cena, vieni.” Tornò in camera sua attraverso la porta di comunicazione che aveva aperto. Eravamo in tre. I ragazzi erano con gli amici. Senza alzare gli occhi dal piatto Katia chiese: “Perché hai spostato l’armadio, Ela?” “Mi era sembrato che qualcosa si fosse introdotto sotto il feltro. Poi non sono più riuscita a rimetterlo dov’era.” “Ah! Dopo cena vengo io e ti aiuto.” “Lasciamolo così, per questa sera, potremmo fare rumore, svegliare Roberto.” “Capisco! Si, capisco! Va bene.” Non parlò più fino al termine del pasto. Si alzò per mettere le stoviglie nell’acquaio. Andò alla credenza, da un flacone prese due grosse pillole, come quella che aveva dato a me per farmi dormire. “Spero che mi facciano effetto: buonanotte. Laku noc!” Deglutì le pillole e se ne andò. Sentimmo, poco dopo, lo sciacquone del bagno e poi dei rumori provenire dalla sua camera. Ela mi guardò, chiese: “Noi hai mangiato molto. Perché?” “Non avevo molto appetito. Adesso vado a letto. Domani dovrò alzarmi molto presto.” Lei sobbalzò, mi guardò spaventata. “Pattuglia?” Non risposi. “Pattuglia, vero? Sta attento. I ribelli sono molti e dovunque.” Seguitai a restare in silenzio. Mi alzai e andai nella mia camera. La porta comunicante con Ela era chiusa. Mi preparai per la notte, entrai nel letto. Presi una rivista che stava sul comodino, cominciai a leggere. Ela comparve d’improvviso, senza alcun rumore. “Hai chiuso a chiave la tua porta?” Feci cenno di si. “Questa la lascio aperta” -proseguì- “per sentire Roberto, se si sveglia. E così vai in pattuglia e non mi dici niente. Come posso dormire sapendo i pericoli che ti attendono.” Si era avvicinata al letto, la vestaglia aperta sulla camicia trasparente. Il seno proteso, lo scuro del pube attraverso la stoffa. La sua presenza mi eccitava. Molto. “Adesso” -disse- “te ne stai buono, farai tutto quello che ti dirò. Mi intimorisci, Giorgio. Mi intimorisce la tua eventuale irruenza, anche involontaria, e nel contempo ne sono attratta. E’ facile perdere il controllo, specie quando si è affamati o inesperti. Io ho molto più fame di te, e tu hai di che saziarmi, in abbondanza. E’ proprio questo che mi fa essere in ansia, anche perché, in fondo, non è che la mia esperienza sia tanta. Vedi, non conosco cibo da un anno, e devo stare attenta che la mia ingordigia per una tale ghiottoneria, mai sognata, non mi soffochi! Comprendi, amore? Togliti il pigiama e fammi posto. Mi metterò vicina a te. Ci baceremo, ci carezzeremo. Sarò io a guidarti. Ti accoglierò in me quando sarà il momento. Sii dolce, tenero, delicato, paziente. Non farmi male, ti prego.” Lasciò cadere la vestaglia sul tappeto, mise la leggera camicia rosa sul paralume. Restò in piedi, vicino al letto. Si chinò su me, che ero rimasto immobile, incantato, e mi sbottonò la giacca del pigiama, la tolse, la gettò per terra. Andò ai piedi del letto e, lentamente, tirò via i pantaloni. Ero supino, col sesso vigorosamente eretto. Restò a guardarmi. “Andrà tutto splendidamente, o sarebbe la più cocente e dolorosa delusione della mia vita.” Venne vicina a me. “Non posso attendere, Giorgio. Non voglio baci e carezze. Non resisto, ti voglio subito, adesso.” Ero di fianco, una gamba sulle sue gambe, una mano sul suo seno. Mi tirò dolcemente su di lei. Parlava sottovoce. “Tieniti sollevato sulle braccia. Si, così.” Divaricò le gambe, prese il fallo con le mani e lo poggiò in un punto caldo, morbido, umido ‘La soglia dell’Eden’, pensai, ed ero naturalmente portato a spingere. Le sue mani sembravano quasi volermi trattenere. “Pianissimo… bravo, così… ancora… ancora. Dio, che meraviglia, che sensazione. Si amore, entra… entra nella tua Ela che ti vuole, ti aspetta da sempre… così…, che bello… entra ancora, cerca di entrare tutto… così… fino in fondo… bravo… muoviti piano… bravo…” Sentii il suo bacino venirmi incontro e poi allontanarsi. Ancora… Lentamente, poi più celermente. Aveva gli occhi aperti, le pupille scomparse verso l’alto, la bocca dischiusa, un suono fioco sortiva dalle sue labbra. Incrociò le gambe dietro la mia schiena. “Amore, amore, mio… mio… docem… docem… eccomi… eccomi…” Si muoveva quasi con furia. Si fermava un istante, vibrando come la corda di un’arpa, portava la mano alla bocca a soffocare il grido che stava per sfuggirle, gorgogliava ancora… docem… docem… e riprendeva la sua danza voluttuosa. “Ti sento, amore, sento quello che non immaginavo poter provare. Sento che sei mio, così… ecco…, tesoro, si…, dissetami…” Mi strinse più forte con le gambe, inarcò la schiena. Giacqui su lei, ancora in lei. Sentivo il mio sesso pulsare e la sua deliziosa risposta. Era la mia prima volta. I nostri respiri si univano. Bocca sulla bocca. Sussurrai: “Posso restare così?” “Per sempre, amore, per sempre. Uvijek… Sento tutto il tuo vigore, potente, prepotente, incantevole.” Aveva sciolto le sue gambe, giaceva supina, ansante. Mi poggiai sui gomiti, per guardare quell’espressione che non avrei mai dimenticato, i capelli sparsi, sul cuscino, sul seno. Mi venne spontaneo muovermi un po’. Una piccola spinta dei reni. “Giorgio, ancora? Opet?” Senza rispondere, ripresi a spingermi in lei. Lentamente. Come se volessi uscire e rientrarvi immediatamente. “Mi fai impazzire. Sei meravigliosamente instancabile. Sei… Giorgio, ti amo… Sto naufragando di nuovo, in un mare di piacere… voglio suggerti completamente… Giorgio… Giorgio…” E riprese il suo ondeggiare, il suo mugolare, le brevi interruzioni, in un abbandono sempre crescente, fino al fremito del mio insuperabile godimento. Mi misi su di un fianco, scivolando fuori da lei, mentre le sue unghie si configgevano nella mia schiena. Mi prese il volto tra le mani. Restò così. La carezzavo dolcemente. Imprimevo nella mente le sue forme perfette. Sentivo il suo respiro sul mio petto. Ricambiò la carezza, indugiò tra le gambe. Fermò la mano. “Ma Giorgio, per te non è accaduto nulla!” E fu come prima, più bello di prima. Ricordi un po’ confusi, d’una notte di sogno. Guardai la sveglia sul comodino. Era ora d’alzarmi. Mi mossi piano, per non destarla. Dormiva abbracciata a me, come una bambina che ha bisogno di protezione. Dovevo alzarmi. Il bosco e la pattuglia mi attendevano. Si svegliò lentamente. Si guardò intorno, come se non sapesse dov’era. Mi vide, sorrise. Si strinse a me, con un brivido. “ Devi alzarti?” “Si, devo uscire presto.” “La pattuglia, vero? Vorrei riposare ancora tra le tue braccia. Dopo la tua voluttuosa esuberanza me lo devi. Una notte così non si spera neppure sognarla. Ma tu me l’hai fatta vivere, amore. E’ stato meraviglioso, e per te?” “Sei bellissima. Non credevo che esistesse ciò che mi hai donato. Di poterlo avere. Grazie…” “Sono io immensamente grata a te. Ti adoro come un idolo, l’idolo incantatore della tua regina. Perché è tua, Giorgio. Non immaginavo che ti avrebbe accolto, ma l’amore non conosce ostacoli. Tu hai trasformato una casupola in un castello incantato. Come nelle favole. E il mio castello ha ospitato il suo magnifico e superbo sovrano, sette incredibili, lunghe, meravigliose, indimenticabili volte. Ma io ho goduto almeno settanta volte. Sedam banchetti, sedamdèset deliziose pietanze. Vorrei poterlo urlare al mondo: sono di Giorgio! Sono stata la prima donna che ha avuto! Ma anche per me è stata la prima volta. La prima volta che mi sono sentita veramente femmina. In me v’era solo una pianta avvizzita, rinsecchita, arida, sul punto di morire per sempre. Ora è sbocciata, fiorita, rigogliosa, superba, lussureggiante.” “Ela, non dirmi cattivo, ma…?” Mi saltò addosso, con occhi spalancati e mani artigliate. “Taci, taci… tu sei l’oceano. Infinito, beskrajnost. Non la goccia, kaplja, che ti lascia più assetata di prima. Il Colosso di Rodi, e lo gnomo. Gorostas i patuljak. Tu sei il mio dio e padrone. Bog i gospodar. Per sempre.” Ero pronto per uscire. Mi abbracciò come se volesse inghiottirmi nel suo grembo. Gli occhi erano lucidi. “Torna!” Era già scuro. Quasi notte. Dietro i vetri del balcone si scorgevano due teste, nera e bionda, che sparirono quando entrai nella piazza. Ero abbastanza stanco. Portavo il moschetto a bracciarm, m’ero tolto l’elmetto e lo tenevo per il sottogola. Gli scarponi non erano molto sporchi ma sui calzettoni era rimasto qualche filo d’erba, di quelli che restano attaccati alla lana. Ela e Katia erano ad attendermi sul pianerottolo. Quasi mi soffocarono coi loro abbracci, passandomi la mano sul volto, tra i capelli. Mi portarono quasi di peso nella mia camera. Ela mise elmetto, moschetto e cinturone nell’armadio. Katia si chinò a slacciare gli scarponi e, senza alzare il capo, come se parlasse da sola disse: “Sappiamo tutto. Le notizie in paese volano più veloci di quelle portate dal tam tam nella giungla. Sono stati uditi degli spari. Tanti. Sembravano non dovessero finire mai. E’ stato visto un militare uscire dal bosco col braccio al collo, ma vispo e allegro. Siete stati contati, al rientro. Non manca nessuno. Solo quando ci hanno detto questo siamo rientrate in casa, a ringraziare il Signore. Adesso bisogna spogliarsi. Il bagno è pronto. C’è tutto.” Mi aveva sfilato scarponi e calzettoni e aveva preparato le pantofole. Restando seduto, avevo tolto giubba, cravatta, camicia. “Grazie” -dissi- “adesso posso fare da solo, grazie.” Katia si rivolse alla figlia. “Ela, assicurati che in bagno sia tutto in ordine.” Ela uscì e Katia la seguì, chiudendo la porta. Mi spogliai, indossai l’accappatoio e andai nel bagno. La porta della camera di Ela era aperta. L’armadio era stato rimesso al suo posto. Le due donne stavano in cucina. Tornato in camera, trovai sul letto biancheria e vestaglia. Mi asciugai bene e indossai quanto avevano preparato. Ela bussò, aprì piano, si affacciò sull’uscio. Parlava sottovoce. “Siamo tutti a tavola, ti vogliamo salutare, ti aspettiamo. Vieni così, non star a cambiarti.” Entrai in cucina. Stano e Mario si alzarono, mi vennero incontro e mi strinsero vigorosamente la mano. Li guardai divertito. “Ehi, ragazzi, ma io ero qui anche ieri sera, eravate voi a non esserci.” “Si” -rispose Mario – “ma le voci che giravano sulla presenza di armati nel bosco non erano rassicuranti.” Stano cercò di sdrammatizzare. “La verità è che non volevamo cambiare inquilino così presto, anche perché tu piaci. Vero, donne?” Katia intervenne con decisione. “Si, e la cena si fredda.” Sedemmo ai soliti posti. Stano alzò la bottiglia del vino e si accinse a riempire i bicchieri. “Prima di tutto un brindisi.” “Nel mio bicchiere c’è l’acqua” -disse Ela- “ma non fa niente, berrò in quello di Giorgio.” Katia si alzò e andò a prenderle un altro bicchiere. Stano si levò in piedi per il brindisi che aveva proposto. Ci fu un tintinnare di vetri. Ela non bevve, attese che io bevessi e quando sedemmo di nuovo cambiò il suo bicchiere col mio guardando la madre con un’espressione dura, di sfida. Si cenò allegramente. Si parlò di tante cose. Nessun accenno alla pattuglia. Alla fine prendemmo anche una tazzina di caffè. Come di consueto, i ragazzi uscirono. Katia cominciò a mettere un po’ d’ordine. Ela restò seduta di fronte a me, coi gomiti sul tavolo. Muovendo appena le labbra sussurrò: “Non chiudere il balcone con la maniglia.” Si alzò e si mise ad aiutare la madre. “Domani uscirò più tardi -dissi- grazie per l’ottima cena e scusatemi se vado subito a riposare.” “Laku noc.” Rispose Katia. Ela non disse nulla. Tornato in camera, chiusi bene le ante del balcone e mi assicurai che non potessero aprirsi, che gli scuri fossero al loro posto. Mi spogliai, indossai il pigiama, scoprii il letto. Lenzuola di bucato, profumate. Accesi il lume sul comodino, spensi la luce centrale. Mi misi a letto. Iniziai a leggere il giornale. Dopo poco mi alzai, andai al balcone, girai la maniglia, lo lasciai appena socchiuso. Tornai a letto e ripresi a leggere. Credo che mi addormentai subito, di colpo, pesantemente, forse russando. Non avevo udito alcun rumore, né m’ero accorto di essermi voltato su un fianco, con la schiena al muro. I capelli mi solleticavano il viso. Ma com’era possibile? Sono così corti. Nel mettermi supino mi accorsi che il letto era molto stretto. Mi riassopii. Solo per qualche istante. I capelli mi erano sempre sul viso e qualcosa premeva sulla parte destra del mio petto. Allungai la mano. Era calda, tenera e soda nel contempo, vellutata, viva. L’altra mia mano era lungo il fianco, aperta, col palmo verso l’alto, e le dita affondavano in una matassa morbida e tiepida. Sulla mia gamba un’altra gamba. Il mio sesso era accolto in una deliziosa e lieve stretta che cedeva a mano a mano che ne sentiva l’eccitazione che andava sapientemente provocando. Ela aveva la bocca vicino al mio orecchio. “Ti ho svegliato, amore, non volevo. Scusami. Ma non ho saputo resistere al desiderio di carezzarti. Scusami. Sei stanco dopo la difficile giornata che hai vissuto. Ma ora ti lascio dormire. Resto accanto a te senza muovermi, buona buona.” Ero nudo! Senza farmi accorgere di nulla mi aveva tolto il pigiama! Anche lei era completamente nuda, coi capelli lunghi sul mio viso. La mia destra affondata tra le sue gambe. Poggiata sul gomito mi guardava al fioco chiarore del lume che aveva di nuovo velato con la camicia da notte. Si chinò e sfiorò la mia bocca con le sue labbra. “Dormi tesoro, dormi.” Seguitava a carezzarmi, a strofinarsi sulla mia mano. Tornò a baciarmi, insistentemente, passandomi la lingua tra le labbra. Si spostò. Il seno sul mio petto, la sua gamba sulle mie. Sentivo il premere del suo pube. “Dormi, tesoro, dormi.” Lo ripeteva come una cantilena. Mi tirò lentamente verso di sé, facendomi allontanare dal muro. S’inginocchiò su di me, con le gambe aperte. Il busto eretto, i seni protesi. Si mise il mio sesso eretto tra le gambe, lo tenne fermo, e incominciò ad accoglierlo lentamente. La testa lievemente rovesciata indietro. “Voglio tutto… tutto…” Spinse in avanti il bacino, cercando di farlo penetrare il più possibile. Aveva iniziato ad ondeggiare dolcemente. Aveva divaricato al massimo le cosce, arcuata la schiena poggiandosi, dietro, sulle mani aperte, e aveva proteso il pube. Sentivo, in lei, il suo palpitare, il suo sussultare, il suo volermi suggere fino all’ultima goccia. Mi guardò estatica. Si spostò in avanti. Con la mano portò un capezzolo alle mia bocca e quando lo accolsi tra le labbra, stringendolo dolcemente, sentii che il suo grembo mi avvolgeva con maggior vigore. Era una lunga cavalcata d’amore verso più oasi di voluttà. Sempre più veloce. “Adesso, amore… adesso… con me…” Era quasi un gorgogliare confuso, soffocato, che finiva in un roco suono inarticolato. “Adesso, amore… o sì, grazie… è meraviglioso…” E si gettò su di me, esausta, ripetendo: “Dormi, amore, dormi.” Ma volle fare ancora l’amore, e ancora, prima di voltarsi e accucciarsi sulle mie ginocchia, stringendo una mia mano sul seno e l’altra tra le gambe. Voltando il capo per un bacio mi guardò trasognata. “Sei indistruttibile amore. Ti sento ancora. Tanto. Entra in me e fammi dormire così.” Restammo come lei voleva, fino a quando Roberto non la fece fuggire, seminuda, con la vestaglia sul braccio, attraverso i balconi socchiusi delle nostre camere. Ormai temevo -si, lo temevo- che le cose sarebbero andate avanti, più o meno, sempre così. Non proprio così, speravo, perché non era possibile vivere in tale modo: lavoro, pattuglie, sesso che, per quanto delizioso e incantevole, era preteso e fatto in modo ossessivo, possessivo, esclusivo, frenetico. Ela era bella, attraente, appassionata. Anche troppo. Ma non era possibile dedicare ogni istante del tempo libero al… letto. Per qualcuno era tutto. Per me era molto, moltissimo, ma non poteva ‘essere tutto’. Sì, avevo scoperto il sesso, meraviglioso al di là d’ogni immaginazione, d’ogni attesa, ma non volevo divenirne schiavo, come un drogato che non può vivere senza. La mia gioventù esigeva la soddisfazione dei sensi, specie ora che n’aveva conosciuto il prelibato alimento che la saziava e n’aveva goduto le delizie. Ma dovevo evitare l’indigestione. Era una prigione dorata, come i capelli di Ela, ma una prigione. N’avrei parlato con Lei. C’erano anche le passeggiate, il cinema, la lettura, le amicizie. La sera sarei stato trattenuto a mensa, per una riunione di servizio, e sarei rincasato tardi. L’avevo detto alle donne. All’ultimo momento la riunione fu rinviata. Potevo fare un giretto coi colleghi, incontrare Lenka, andare al cinema con lei, giuocare al bigliardo. Invece decisi di andare subito a casa. Ela era nella sua camera, trastullando il bambino. La porta era aperta. Come mi vide pose Roberto nella culla e mi venne incontro, raggiante. Senza alcuna cautela, nel corridoio dove da un momento all’altro poteva giungere qualcuno, mi gettò le braccia al collo e mi baciò appassionatamente. “Che bello che sei qui” -bisbigliò- “lo sai che siamo soli? Mamma è dalla sorella, i ragazzi sono andati da alcuni loro amici, in campagna, torneranno domani. Non devi uscire di nuovo, vero? Saremo solo noi due, a cena. Solo noi a cena, per la prima volta. Vieni, ti aiuto a cambiarti. Scusa, sa, ma ho visto che nel tuo baule c’erano due pantaloni e alcune camicie non militari. Ho stirato tutto, potrai vestirti in borghese. Vieni.” Con la sua solita esuberanza festosa mi condusse nella mia camera. Su una sedia erano, ben stirati, i pantaloni ‘borghesi’ e le camicie. In vestaglia andai a lavarmi, nel bagno. Quando tornai presi una delle camicie, ma Ela me la tolse dalle mani. “Non ora. C’è qualcosa di bellissimo che ci attende, o almeno attende me. Vieni nella mia camera.” Mi prese per mano e mi condusse da lei. Chiuse la porta. “Quello è il letto grande nel quale vorrei stare sempre con te. Il letto grande, bracni krevet, matrimoniale. Desidero fare l’amore con te in questo letto. Spogliati, come faccio io.” Si era completamente denudata. Il proposito di farle un certo lungo discorso fu accantonato. In un attimo fui come lei, e le andai vicino. “E’ bellissimo averti qui, Giorgio, perché la mia non è solo attrazione fisica, infatuazione. E’ passione, certo, ma anche vero amore. Giorgio, non solo ti amo, ma ti voglio bene. Come non ho mai voluto bene a nessuno. Non sorridere. Ho creduto che tu mi attirassi perché da troppo tempo non ero stata con un uomo, ho anche immaginato che soprattutto fosse curiosità, ho pensato che gli orgasmi, e così ripetuti, che prima non avevo mai conosciuto, fossero dovuti alla maturazione sessuale. Ho capito, invece, la vera ragione: per ogni donna c’è solo un uomo, ed uno solo. Gli altri, eventualmente, possono essere dei maschi che le servono per sopire, non soddisfare, il suo appetito sessuale. E’ meraviglioso, e credo che capiti solo a pochissime fortunate. Innamorarsi, amare, voler bene. E io sono fortunata. Ma nello stesso tempo sono triste perché non potrò donarti tutta la mia vita, come vorrei. Immagino con angoscia quando mi lascerai. Perché mi lascerai, Giorgio, vero?” Era su di me, mi fissava negli occhi. V’era qualcosa di ieratico, di sacrale, nel suo viso nei suoi gesti, come in un rito solenne. Con tenerezza mi guidò in lei, accogliendomi con incredibile voluttuosa lentezza. Eretta, il seno proteso in turgida offerta, il bacino immobile, mentre, in lei, mi avvolgeva col caldo palpitare della sua carne. Un lento dondolio della testa accompagnava il suo dono inebriante. Perché era donarsi totalmente, generosamente, voler dare e dire tutto il suo amore, la sua passione, il suo voler bene. Prese a tremare come un ramo nella tempesta, a scuotersi come foglia squassata dal vento, in attesa di sentirmi suo e di farsi sentire mia. ‘Intender non lo può chi non lo pruova.’ Dopo, rimase a lungo, in silenzio, sul dorso, braccia e gambe larghe, guardando il soffitto. “Credevo di morire dal piacere, amore, e sarebbe stato bellissimo. Sono tutta e completamente tua, e così sarà per sempre, qualsiasi cosa accada. Non potrò mai essere d’un altro come sono tua.” Dopo un po’, chiese? “Koliko Jesati?” Anch’io ero supino. Le domandai, incuriosito: “Cosa?” “Che ora è?” Forse il tono della mia voce era freddo quando aggiunsi: “Sono io, Ela, Giorgio. E non comprendo il croato.” Si poggiò sul braccio e si voltò versi di me. “Si, Giorgio, sei tu. Il mio dio. E quando sono felice, quando mi rivolgo a Dio, lo faccio sempre nella lingua che ho parlato prima d’ogni altra.” “E da quando mi conosci?” “Hiljada godina. Da mille anni. Dobbiamo alzarci. La mamma potrebbe rientrare da un momento all’altro. In questi ultimi giorni è molto strana, nervosa.” Indossai la vestaglia e restai seduto sul letto. Lei uscì dalla camera, rientrando poco dopo, sempre nuda. Dovevo farle un certo discorso, ma prima dovevo domandarle qualcosa. “Sei splendida, meravigliosa. Ti sono grato. Non proverò mai, nella vita, la felicità che sai donarmi tu. Ma, tesoro, scusami, non credi che sia imprudente trascurare la benché minima precauzione. Non so se riesco a farmi comprendere.” M’interruppe. “Opreznost! Precauzione! Come potremmo, Giorgio, separarci proprio quando il nostro dono reciproco giunge a fondersi, o come potrei permettere che una qualsiasi barriera, per quanto tenue, si frapponga tra noi, m’impedisca di sentirti come desidero e come voglio. Che senso avrebbe, che amore sarebbe? Io allatto, e una donna che allatta non concepisce, almeno così si dice da noi. Sarebbe meraviglioso, però, se sbocciasse in me il tuo seme. E non m’interessa del domani, della gente.” Non sapevo cosa rispondere. “Ela sei incantevole. Pensavo che si potrebbe, qualche volta, uscire insieme, andare al cinema, in casa d’amici a ballare. Insomma fare una vita che ci porti fuori da…” “Sei stanco di me? Ti ho deluso?” “Sai bene che non è questo. Ma, vedere gente, insieme s’intende, vivere anche nella società, cogli altri, andare al cinema, in campagna, un breve viaggio, sempre insieme, sarebbe bellissimo.” “Si, sarebbe bello. Dobbiamo pensarci bene. Mi piace l’idea di andare a spasso con te, al cinema, a ballare, a far visite. Andare, insieme, a trovare Lenka. Se non ci fosse la gente…” Presi le mie cose e mi avviai nella mia camera. 5 Pomeriggio libero. Dopo la mensa rientrai. Sembrava che non ci fosse nessuno. Tutto silenzio. Andai in cucina per prendere un bicchiere d’acqua. Entrò Mario, per la stessa ragione. Mi disse che la madre riposava e che Stano aveva accompagnato Ela e il bambino dal pediatra. Una visita di controllo all’ospedale del Capoluogo. Cinquanta chilometri di lentissimo treno. Erano partiti poco prima del pranzo e sarebbero stati di ritorno per la cena. Ela non mi aveva detto nulla. Mario spiegò che la cartolina d’invito era giunta solo quella mattina, con notevole ritardo, e non era il caso di saltare il turno. Mi salutò perché stava per uscire. Mi spogliai e andai a rinfrescarmi. Rimasi in vestaglia e mutandine e uscii sul balcone. Una giornata particolarmente calda. Non solita in questo periodo. Anche la vestaglia era pesante. Andai verso l’angolo del balcone. La finestra del ripostiglio era spalancata, per cambiare l’aria al locale. Poco oltre, i vetri della camera di Katia erano appena accostati, gli scuri aperti. Mi venne spontaneo guardare dentro. Di fronte, l’ampio letto d’ottone lucido. Sul lenzuolo candido, Katia. Bocconi, le braccia in alto, sotto il cuscino, il viso rivolto verso la porta, le gambe leggermente divaricate, i capelli sparsi sul letto e sulla schiena. Era tutto quello che indossava. Restai a guardarla incantato. Non il candore niveo di Ela, ma una pelle dorata, dipinta dal sole. Le linee dei fianchi salivano dolcemente a modellare natiche statuarie, tonde, sode. Il volto non era sereno, si scorgeva una lunga ruga sulla fronte. Spinsi piano le ante del balcone, che s’aprirono senza rumore. Mi avvicinai al letto, dalla parte dov’era lei. Il respiro era lento, profondo. Quel corpo così bello, anche se non più giovanissimo, emanava un fascino indescrivibile, un’attrazione seducente, irresistibile. Volevo toccarle i capelli, carezzare le natiche. Lo feci. Delicatamente, con le dita che sfioravano appena. Insinuai la mano tra le gambe, col palmo in alto, nella scura lanugine che saliva verso il pube. Esplorai piano. Ebbe solo un lieve sobbalzo. Non sembrava accorgersi di me. Divenni più audace. La mano saliva carezzando, scendeva, tornava a salire con incalzante insistenza. Le dita percorrevano il solco tiepido, frugando dalla piccola protuberanza che s’ergeva sempre più prepotente, in alto, alla sensibile contrazione del perineo. Di nuovo un sobbalzo. Poi, il lento ondeggiare del bacino accolse, assecondò, guidò la carezza. La testa sul cuscino, le labbra appena dischiuse. Sotto le palpebre si scorgeva il muoversi degli occhi. Le mani, erano aggrappate al cuscino, come a salvarsi da un precipizio. La mia eccitazione era incontrollabile. Quella donna mi stregava, mi ammaliava. Non riuscivo a sfuggire quel richiamo imperioso. Non ricordai il balcone aperto, i vent’anni d’età che ci separavano. Lasciai cadere le mutandine in terra. Così, con la vestaglia ancora addosso, salii sul letto, su di lei. Tolsi la mano dal suo grembo, introdussi, appena, il mio sesso tra quelle natiche che avrei voluto addentare come frutti sapidi. Si voltò di scatto con gli occhi sbarrati, sgomenti. Mi guardò come fossi un fantasma. Un terrore che si trasformò in sorpresa, ansia, attesa, implorazione. Aprì le gambe, alzò le ginocchia. Mi prese dolcemente il sesso per accogliermi in lei ma non riusciva a farsi penetrare. Spinsi con decisione. Un gemito soffocato uscì dalle sue labbra e sentii che entravo, lentamente, in un focoso inferno, in una ribollente lava incandescente. Fui io a regolare il giuoco. Lei, come in preda al delirio, mugolava. Dalle sue labbra sortivano suoni inarticolati. Il suo ventre era un oceano in tempesta. Le sue mani mi serravano i lombi. Volgeva la testa a destra e manca sempre più sparpagliando i suoi lunghissimi capelli. Mi strizzò, avida, golosa, come se volesse svuotarmi completamente in lei. Si abbandonò, senza forze, le braccia allargate, gli occhi chiusi, il respiro affannoso, piccoli sussulti del bacino. Mi prese una mano, se la mise sul seno sinistro. Il cuore tumultuava. Aprì gli occhi, con uno sguardo incredulo. Ero rimasto su di lei, sensibilmente in lei. Scosse lievemente il capo. “Ma è proprio vero, Giorgio, sei tu? Tu sei nel mio letto. Tu mi hai cercato. Tu mi hai voluto. Hai voluto entrare in me, darmi una voluttà che non ho mai raggiunto. Ma sono gelosa, Giorgio, tanto gelosa. Chi ti ha insegnato ad amare così?” “Tu” -risposi- “me l’hai insegnato tu. Coi tuoi gesti, coi tuoi sguardi, con le tue parole, col tuo indimenticabile bacio, con i tuoi eloquenti silenzi. Ti ho aspettato, Katia, perché non sei venuta da me?” “Temevo che tu mi scacciassi, che mi deridessi. E bruciavo, mi tormentavo, in silenzio. Mi ripetevo: ‘Katia, sei vecchia, mettiti l’animo in pace’. L’animo poteva trovare pace, ma la carne no. I miei sensi sono da sempre destinati a restare miseramente e insufficientemente soddisfatti e per lungo tempo ero riuscita a dominarli, a sopirli. Poi sei apparso tu. E’ stata una violenta scarica, dentro di me. Un fulmine che aveva non solo riacceso ma moltiplicato la fiamma del mio sentirmi femmina. Mi vergogno dirlo, Giorgio. Il mio ventre è stato tormentato dai crampi del desiderio. Una brama frenetica. Femmina in calore, ho compreso cosa sia la foia. Quel giorno, nel bagno, eri nudo, stavi indossando l’accappatoio. Imponente, maestoso, mi spaventavi e attraevi. Stavo morendo assetata e l’acqua era li, bastava tendere la ciotola. Per un attimo ho pensato d’entrare, denudarmi, mettermi carponi dinanzi a te, per essere la tua Io e tu il mio Giove. E poi potevo serenamente morire. Ho temuto che tu scoppiassi a ridere, che m’avresti scacciata.” Aveva preso il mio volto tra le mani. Mi baciava sugli occhi, sulla bocca. Sentiva che stavo rifiorendo in lei e seguitava a baciarmi, a passarmi lievemente la lingua sulle labbra. “Non mi è mai capitata, piccolo grande Giorgio, una cosa così. Tu mi hai sfinita. Riempendomi di te mi hai svuotata. Ho raggiunto vette sconosciute. Ho vissuto con te quello che non ho vissuto in tutta una vita. La mia vita. Ora ti sento di nuovo, e questo rinnova in me la fiamma che attende di essere di nuovo spenta, per risorgere e seguitare a vivere.” Mi spinsi ancor più in lei, per quanto poté accogliermi. “Katia, amore mio, tu sei giovane come nessuno lo è. Tu, solo tu, mi hai fatto conoscere cosa voglia dire ‘avere’ una donna, non ‘essere’ d’una donna. Mi hai fatto sentire il tuo piacere confondersi col mio piacere. Tu fai l’amore con me e per me, non solamente per te. Non parlare d’età. Non significa nulla. Sei bellissima. Alla tua bellezza non ho saputo resistere. E c’è la prova che tu sei per me ed io per te. Ho ritenuto, per un istante, di non poter entrare in te. Ma è stato solo un attimo. Ti sei dischiusa, mi hai accolto, fremente, totalmente. Perché tu sei mia, nata per me, fatta per me.” Aveva ripreso l’ondeggiare del piacere, il mugolare del godimento. Fu dolce naufragare ancora, tra le sue braccia, nel voluttuoso palpitare del suo grembo. Mi scaldò col suo corpo, mi coprì con l’inebriante tepore della sua pelle, senza lasciarmi, scrutando nel mio volto la mia estasi, cercando di accrescerla di condurla ai livelli più alti. La mia voluttà si specchiava in lei, nei suoi occhi, nelle sue labbra, nelle sue narici frementi, nel suo palpitare, nel suo totale abbandono a quello scatenarsi della natura che ci travolgeva. Non avrei mai più conosciuto una donna come Katia. In casa s’era instaurato un ben definito ’modus vivendi’. Tutti sapevano tutto e tutti ignoravano tutto. I volti erano sempre allegri, Ela e Katia canticchiavano, si parlavano sottovoce e ridevano. Era una tacita ‘triplice alleanza’. Spesso Katia suggeriva a me e Ela di andare al cinema, di fare una passeggiata. Al bambino ci avrebbe pensato lei. Ero con Ela tutte le notti. Entravo dalla porta, senza più l’espediente del balcone. Anche perché cominciava a far fresco. Katya aveva spesso un motivo per entrare nella mia camera. Si stringeva a me, mi baciava, con occhi pieni di desiderio e di promessa. Quasi una settimana dopo l’incantevole incontro con Katia, il sabato, terminata la cena, Ela disse di aver mal di capo e si ritirò subito. Udii il girare della chiave nella serratura. Andai in camera, poi a lavarmi nel bagno e stavo rientrando. Katia era sulla sua porta, in vestaglia, con la treccia sciolta, sorridente. Mi tese la mano: “Vieni.” Mi voltai verso la camera di Ela. Katia proseguì: “Poverina, ha il mal di testa. Vieni.” E da allora, devo ammetterlo, attesi con ansia il sabato, quando Ela restava nella sua camera, senza più chiuderla a chiave, col suo settimanale mal di testa, e io passavo la notte nel letto di Katia. L’indomani, la domenica, Katia mi portava la colazione a letto e dopo aver fatto di nuovo l’amore, come solo lei sapeva fare. Mi accompagnava a fare il bagno. Il tempo scorreva veloce. A novembre, al compleanno di Ela, al risveglio, al mattino, le feci trovare un pacchetto sul comodino. “Cos’è?” “Aprilo.” Tolse il nastro che lo legava, strappò la carta che lo avvolgeva, aprì l’astuccio di velluto rosso. “Oh, Rucna Ura, un orologio! D’oro! E’ bellissimo. Grazie, amore.” Si voltò dalla parte mia, si mise a cavalcioni su di me. Allacciò l’orologio al polso. “Na palub, a bordo! Odlazak, partenza! “ E cominciò la sua movimentata crociera, beccheggiando follemente, sostando nei porti del suo piacere, concludendola con un lungo e sospirato: “Olazak, arrivo! Rimase così. Tolse l’orologio, Lo girò da tutte le parti. Sulla cassa vide incisa una ‘E’. Si chinò a baciarmi. “Ma ci voleva anche una ‘G’”. “Un certo momento non lo porteresti più.” “Non potrebbe impedirmelo nessuno e per nessun motivo.” A Natale e Capodanno ci furono i regali per le feste. Piccole grandi cose, date con tutto il cuore. Subito dopo ebbi la licenza per trascorrere una settimana a casa. Ela mi aiutò a fare la valigia. Quando la ebbe chiusa si voltò verso di me. “Cosa porti a regalare alla tua fidanzata?” “Niente, non credo che debba portarle qualche cosa.” “Poverina, ci resterà male.” Mi aveva dato un’idea. A Trieste ci avrei pensato. “Giorgio, vorrei che tu mi facessi una promessa. Solenne.” “Quale?” “Giurami che non farai l’amore con lei.” “Ma io non faccio l’amore con lei.” “Non lo facevi. Ma ora vorrai mostrare quello che hai imparato e come lo hai… perfezionato. Attento perché io mi accorgo se fai l’amore con un’altra. E con un’altra sarei perfino disposta a perdonartelo. Io sono comprensiva con te. Ma non se lo farai con la tua fidanzata.” “Perché?” “Perché con le altre è solamente sesso. Con la tua fidanzata sarebbe amore. Cosa credi, che non abbia saputo di Lenka e di Vittoria?” “Ma cosa dici…” “Povera Lenka, abituata al suo allevamento di canarini è rimasta spaventata dall’aquila. Lo so che posso apparire volgare, ma mi è stato detto che… “ “Ma chi ti racconta tutte queste fandonie?” “Niente fandonie, tesoro. Sono tutte verità. Vittoria, poi, con quel suo fare da santarellina appiccicata al muro…, é stato un punto d’onore, per lei, farti… entrare in casa! Sembra che adesso senta un gran vuoto. Sfido io! E’ stata una settimana senza vedere il suo ragazzo. Poi, hanno litigato e sembra che si siano lasciati per sempre.” Questo tipo di discorso non mi piaceva, era volgare. “Non per colpa mia, certo.” “Non per colpa, amore, per merito. In ogni modo, Vittoria, quando le ho chiesto il motivo per cui aveva lasciato Angelo, si è limitata a mordersi il labbro inferiore. Capito, Ercolino Santin, cosa mi combini? E questa è la prova che sesso senza amore … ma lasciamo perdere. Io fisicamente sono come le altre, tesoro, ma io ti amo e ti voglio. Tutto per me, solo per me. Ma con amore.” Ero irritato. La mia voce era aspra, quando le chiesi: “Allora potrò essere accolto solo dal grembo di chi mi ama? Il desiderio e tutto il resta non hanno alcun ruolo in proposito?” “E’ così. L’amore é la sola chiave che apre ogni porta. Senza amore rischi di restare fuori.” Fui cattivo. “Non mi sembra che tu mi accolga… senza limitazioni. Allora?” Rimase impassibile. Rispose soavemente. “L’amore che ho per te é già immenso, ma crescerà ancora. Un bel giorno t’ingoierò tutto intero. Non ti troverà più nessuno. Quando la gente chiederà: ‘Dov’è Giorgio?’, risponderò che è in me. Perché è mio. Solamente mio. Ma adesso vieni da me perché devo consacrarti una cosa.” Mi trascinò sul letto. Cominciò a spogliarmi. Si spogliò. Mi tirò su di lei. “Vediamo se ti amo più di ieri, se parlerai più di ‘limitazioni’”. Il suo corpo sembrò trasformato. Mi succhiò in lei, tutto. Fu una furia insaziabile, meravigliosa. “Non ti lascerò la minima possibilità di poter stare con un altra donna fino a quando sarai con me.” E mise in atto il suo proposito, con zelo e diligenza. La licenza fu splendida. Con Carla, ci baciavamo, ci cercavamo golosamente, ma non potevo scacciare dalla mia mente il pensiero che mi assillava: ‘Come sarà?’. Carezze più intime che mai. Sentivo, anzi sentivamo, il desiderio, l’impulso, di fare l’amore. Lei sussurrava di aver pazienza, ci saremmo sposati dopo pochi mesi. Io annuivo con la testa ma in cuor mio bramavo, e nel contempo temevo; averla subito. E se avessi avuto la dimostrazione che… non mi amava? Se avesse avuto le stesse reazioni di Lenka e di Vittoria? Se, invece, la cosa fosse accaduta dopo sposati, come avremmo potuto rimediarvi? Se avessimo subito dei rapporti e non le fosse possibile…? Diavolo d’una Ela, quanti ‘se’ mi aveva messo in testa. Non solo. Sarebbe stata insaziabilmente possessiva come Ela o appassionatamente dolce, deliziosamente voluttuosa, come Katia? Già, Katia, nessun problema anche con Katia, perché ne avrei dovuto avere con Carla? Ma guarda quali problemi sorgevano con la propria fidanzata dopo essere stato con altre donne. La sera prima della partenza andai, con lei, in casa di amici. Ballammo stretti. La sentivo, attraverso il suo vestito leggero. E lei mi sentiva, deliziosamente turbata. Ci carezzavamo col pube, vicendevolmente. Io mi piegavo sulle ginocchia, in artificiosi passi di danza, per sentire il caldo morbido del suo sesso. Lei non parlava più, si strofinava a me. La presi per la mano e la condussi nella camera della ragazza che ci aveva invitato. Non disse nulla. Mi seguì come un automa. Le sollevai la gonna, scostai le mutandine. Mi lasciava fare, impietrita. Mi sbottonai i pantaloni che stavano scoppiando. Sembrava immenso anche a me. Lei non batté ciglio. Attese. Lo introdussi tra le sue cosce. Non volevo entrare in lei. No, non era quello il modo, in piedi, in una stanza sconosciuta, di fare l’amore con lei per la prima volta. Mi mossi lentamente. E cominciò anche lei a muoversi, un braccio intorno al mio collo, l’altra mano sulle labbra. Non riuscivo a fermarmi, e lei non voleva che mi fermassi. Sentii che s’era completamente abbandonata tra le mie braccia. La tenevo stretta, con le mani sulle sue piccole sode natiche che fremevano. Così, fino alla conclusione di quella prima, squallida, anomala e incompleta conoscenza. Quando si ricompose, mi baciò a lungo. “Grazie Giorgio. Grazie per non aver guastato tutto. Quando saremo sposati ti compenserò anche per questo.” Il rientro fu un vero e proprio ‘ritorno in servizio’. Era la sera della domenica. Perfino Roberto sembrava contento di rivedermi. Ormai mi conosceva da tanti mesi. Avevo portato piccoli pensierini a ognuno. A Ela avevo comprato una collana di corallo, pelle d’angelo. Ero riuscita a trovarla da un compagno di scuola, Israelita, che stava vendendo tutto. Quando fummo a letto mi accorsi che indossava solo quella. La collana e la sua pelle si confondevano. Mi abbracciò tremando. “Ti ho atteso con ansia. Mi devi tutte le notti che non hai passato con me. E poi voglio qualcosa anche per domani sera, perché dovrò avere il mal di testa domani sera. Anche se non é sabato! Sei in debito, e voglio svuotare la cassa. Fino all’ultimo centesimo.” E fu esigente, nella riscossione. Benché fossi stato molti giorni lontano da lei e da Katia, e nonostante la gioventù, non fu agevole saldare il conto fino in fondo. Il viaggio e la notte con Ela, suggerirono, nel pomeriggio, un sonnellino nella vuota infermeria ufficiali. La sera ero fresco e riposato. La cena si svolse in allegria. Ela aveva il mal di testa. Strano, non era sabato. Katia mi ospitò nel suo letto. Fu appassionata e tenera come non mai. Nei pochi momenti che riuscivo ad assopirmi restava a guardarmi, e non resisteva al desiderio di carezzarmi, baciarmi, finché non sentiva che la desideravo ancora. Meravigliosa Katia. L’indomani mattina ero sfinito, esausto. Agivo come un sonnambulo. Ero prigioniero d’una situazione dalla quale non sapevo, e soprattutto non volevo, uscire. Il sesso era divenuto una fissazione, una droga. Mi stupiva l’insaziabilità delle mie deliziose compagne, la loro fantasia erotica, la carica di passione, la voluttà, ma ancor più come riuscivo a far fronte alla loro esuberanza. Si andò avanti così per molto tempo. Era, ormai, il nostro modo di vivere con gioia, senza mai trasformare la esaltante consuetudine in noia, in monotonia. Notizie dei mariti arrivavano sempre più raramente. Poi ci furono gli eventi della Russia, i dispersi. Di Mirko non si seppe nulla. Le nostre navi erano divenute bersaglio quasi indifeso per gli Inglesi. La nave di Dario fu affondata. Lui fu ritenuto essere tra i salvati dal nemico. Prigioniero. Ero li da oltre un anno quando giunse il trasferimento ad altra sede. Molto lontana. Una località abbastanza al riparo dalle incursioni nemiche. Le mie nozze erano imminenti. Mia moglie avrebbe potuto vivere con me nella nuova sede. Il distacco fu atroce. Gli ultimi giorni li vivemmo come in trance. Ela piangeva di fronte a tutti. Non dormiva più. Faceva l’amore follemente, accanitamente, disperatamente. Restava avvinghiata a me per ore. Katya mi guardò sorridendo mestamente, quella sera. “Grazie per quello che mi hai dato. Resterà per sempre con me.” Amò con l’ardore d’una adolescente, la sapiente dolcezza d’una sposa, l’insuperabile voluttà della sua maturità. Mi baciò freneticamente. Le sue labbra vellutate si posarono sulla ‘folgore ardente’ del suo dio, come diceva, si dischiusero per picchiettarlo col saettare della sua lingua infuocata, suggerlo golosamente, cospargerlo del nettare della sua saliva. “Giorgio, voglio donarti una cosa che non è stata e non sarà mai di nessun altro.” Si mise carponi. “Entra in me, Giorgio.” Mi avvicinai a lei, eccitatissimo, con una imponente erezione. Prese il glande violaceo, lo cosparse di saliva, lo guidò tra la sue meravigliose natiche che spinse lentamente ma decisamente verso di me. Sentii dilatarsi adagio la sconosciuta deliziosa apertura che m’invitava a penetrare. Scivolai in lei, a poco a poco, travolto da una inimmaginabile voluttà. Una sensazione indescrivibile. Si muoveva stupendamente. Volse la testa verso di me. “Carezzami.” Prese la mia mano e la condusse tra le sue gambe. In lei si scatenò una tempesta che mi travolse, come cavalloni che assalivano il molo proteso nel mare della felicità. Mi avvinghiai con l’altra mano a una mammella, la impastai freneticamente, strizzai il capezzolo. Raggiungemmo le più alte inesplorate cime del godimento, sempre più convulsamente. Crollò di colpo, sul letto, braccia e gambe spalancate, io non uscii completamente da lei. “L’unico regalo che posso farti, Giorgio, ma lo ricorderò per tutta la vita. E’ stato fantastico.” E’ trascorso tanto tempo, da allora. Anni. Ma i ricordi sono sempre vivi, attuali e incancellabili. Il paese di Katia e Ela era caduto nelle mani dei cosiddetti ribelli, pochi giorni dopo la mia partenza. Un colpo di mano. Erano state commesse infinite atrocità. Le foibe erano state riempite di corpi, alcuni ancora vivi. Avevano dato la caccia a chi aveva ‘collaborato’ con gli Italiani. Bastava non essere stati apertamente ostili a loro per essere materialmente bollati a fuoco con una ‘I’, izdajica, traditore. La guerra guerreggiata era terminata, ma ero ancora in servizio per ‘particolari esigenze dello Stato’. Ero intento a leggere una relazione quando il piantone mi portò una busta. “E’ stata recapitata a mano. Un uomo in bicicletta l’ha consegnata al militare di guardia ed è subito andato via. Un uomo di mezza età, vestito molto modestamente. Non si è voluto fermare. Pareva avere molta fretta.” Una grossa busta, di quelle arancione che s’usano per inviare domande o trasmettere documenti. L’aprii. Dentro c’era un’altra busta, più piccola, bianca, indirizzata, con una grafia chiara ed elegante, al Tenente Giorgio Santin, al mio vecchio Comando, lasciato da tempo, accompagnata da un foglio di quaderno scritto a matita. “Egregio Signor Tenente, molto tempo fa ho avuto l’incarico di farle pervenire quanto allegato, ma solo in questi giorni sono riuscito ad entrare in Italia e, grazie agli amici, ho potuto rintracciarla. Non so cosa contenga la busta. Mi è stata data chiusa, con la raccomandazione di distruggerla senza leggerne il contenuto in caso che non fossi riuscito a fargliela avere. La signora che le invia la lettera mi ha anche raccomandato di assicurarle che sta bene. Ma questa sarebbe una bugia, e io non dico bugie. Mi perdoni se non firmo, ma sono ricercato dalla polizia che ora opera nel mio paese, dai rossi, ovviamente, che hanno informatori dappertutto. Addio.” Aprii la busta bianca, senza romperla. Alcuni foglietti riempiti con una scrittura piccola e chiara. Una data vecchissima. Senza località. “Giorgio, amore mio, Da quanto tempo avrei voluto scriverti, dopo essere stata portata qui, ma come inviarti una lettera? Sai anche tu come si sono svolti gli eventi al mio paese e sono certa che non hai mai ricevuto le notizie che ho spedito subito dopo la tua partenza, perché mi è stato detto che tutta la posta è stata sequestrata e distrutta. Affido la presente a un amico, sperando che possa giungerti. E’ trascorso tanto tempo da quando mi hai lasciata e ti amo sempre. Più che mai. Sono accadute tante cose. La nostra casa è stata distrutta, dei ragazzi non so nulla. Io sono stata obbligata a cambiare residenza, e vivo qui, da una lontana parente, poverissima. Meglio che non ti dica dove. E’ un trascinarsi giorno per giorno, aiutandomi con il poco denaro che riesco a raggranellare con mille espedienti. Le suore mi fanno fare qualche ora d’insegnamento. Ma quello che più mi aiuta è che, mentre lavoro, pensano loro, le suore, ai bambini. Si, amore mio, ai tre bambini. «Ca’ de Do’», testimone di quanto ti abbia amato, e le cui mura ancora risuonano dei miei appassionati sospiri, ha voluto che il mio amore non svanisse nel nulla. Poco dopo la tua partenza, mi sono accorta d’aspettare un figlio. Tuo, tesoro mio. Ero pazza di gioia, avrei voluto gridarlo a tutto il mondo. Ma dovevo tenere per me questo segreto. Presto, però, la mia condizione sarebbe stata evidente, così decisi di confidarmi con la mamma. Mamma -le dissi, mentre era intenta a cucinare- sono incinta, di Giorgio. Seguitò senza neppure voltarsi, e rispose, calma: Anch’io. E nella sua voce c’era una profonda dolce, commossa felicità. Il suo volto era radioso. Ci abbracciammo, ridendo e piangendo nel contempo. Sedemmo accanto al tavolo. Mamma prese le mie mani, e le tenne tra le sue mentre parlava. Sapevo di attendere un bambino fin da quando Giorgio era ancora qui. Inizialmente avevo pensato che fossero le prime avvisaglie della menopausa, ma l’ostetrica mi disse che ero gravida, di almeno tre mesi. Avrei voluto comunicarlo a Giorgio, avrei voluto fargli conoscere quale grande dono mi aveva fatto, cosa ciò significasse per me, alla mia età. Ero tornata giovane. Ma ho preferito tacere. Questo bambino è mio. Stava accadendo quello che neppure la fantasia avrebbe immaginato. Eravamo state rivali, e lo sapevamo. Avevamo vissuto un compromesso che farebbe rabbrividire anche i non moralisti. E adesso proseguivamo sulla stessa strada, sentendoci, addirittura, più vicine che mai perché entrambi aspettavamo un figlio dallo stesso uomo. Capii, però, che quello che ci univa, in effetti, era lo stesso amore, infinito, che, ognuno a modo suo, aveva avuto per te e ancora ci legava a te. Anche per me, mamma, è stata una sorpresa. Ero convinta che finché allattavo non avrei concepito. Ma sono infinitamente felice di essermi ingannata. Avremo un figlio di Giorgio, mamma. Prima tu, e io accudirò a questo mio fratellino. Poi io, e tu accudirai a questo tuo nuovo nipotino. Parlavamo solo di te, Giorgio, ognuna un po’ gelosa dei ricordi dell’altra. Ma il destino aveva scritto un domani drammatico. Quando mamma mise al mondo la sua creatura io ero vicina a lei. Un parto lungo ed estremamente laborioso. Soffrì molto, ma non emise un lamento. Qualcosa di innaturale. Sforzi sovrumani affrontati con incredibile serenità. Era uno splendido bambino. L’ostetrica lo mostrò a mamma e le fece i complimenti. Sottolineò sorridendo che il bimbo ci teneva moltissimo ad evidenziare la sua mascolinità, che metteva in bella mostra. Mamma era affranta, ma bellissima. Lo guardò felice. Mosse appena le labbra per dire debolmente: Ciao, Giorgio, che dio ti benedica. Il suo sguardo rimase fisso sul bimbo. Il suo cuore non resisté oltre a quella felicità. Lo abbiamo battezzato come lei lo aveva chiamato: Giorgio. Gli uffici anagrafici hanno cambiato Santin in Santic. Solo la mia povera parente e le suore sono riuscite a non farmi cadere nella più profonda delle depressioni. Dopo due mesi è nato anche il nostro bimbo. Il nostro, amore mio. Anche lui con quel… particolare che aveva fatto sorridere l’ostetrica. I due fratellini, che sono anche zio e nipote, sono due splendidi, vispi e intelligenti bambini e crescono benissimo, a vista d’occhio. Il nostro bambino si chiama Bogdar, dono di Dio, Bogdar Santic. E quando li chiamo entrambi, Giorgio… Bogdar…, posso gridare al mondo la mia felicità repressa, invocandoti, con la speranza che non mi abbandonerà mai, quella di averti ancora. E nessuno comprende il mio segreto, Giorgio… Bogdar…! Giorgio, dono di Dio! Mi manchi, tesoro. Ti prego, vieni a prendermi, tienimi con te, come una volta, anche se dovrà essere una sola volta. Che Dio ti benedica, Giorgio, e mi consenta di sentirti di nuovo realmente, mio, come adesso ti sento nel ricordo. Sono la tua Ela.” * * * Durante i lunghi anni trascorsi ho riletto più volte questi appunti. Anche oggi. Li ho lasciati così, senza modifica, senza commenti. Come li avevo scritti allora. Non ho tralasciato nulla, non ho dimenticato nulla. Dopo anni e anni di vana ricerca, nonostante il prezioso interessamento delle autorità locali, dopo gli inutili viaggi nel paese dove la «Ca’ de Do’» non esiste più, e che avevo trovato ancor più grigio e povero di allora, mi capita spesso di sorprendermi assorto a pensare a un passato che mi domando se tutto questo sia realmente accaduto o sia solo frutto della fantasia. Torno a leggere, allora, la lunga lettera di Ela. La realtà è lì. Lo svolgersi rapido d’un film che di quando in quando sosta su un fotogramma per poi dissolversi lentamente in un altro. Ela e il suo appassionato ardore: bellissima valchiria lanciata al galoppo, il seno nudo, i biondi capelli al vento. Il volto del piccolo Roberto con fattezze note e nel contempo sconosciute, forse quelle di Giorgio o di Bogdar. La morbida, scultorea nudità dorata di Katia irrigidita nella fredda immobilità marmorea d’una statua. Ho fatto una fotocopia della lettera di Ela. E’ sempre nel cassetto della mia scrivania. L’originale, chiusa, é nell’album dei ricordi. Non so se mia moglie, i miei figli, l’abbiano mai letta. Comunque, non ne hanno mai parlato. * * * Catela, la mia prima bambina, è già mamma. Da qualche anno. Ieri è venuta a trovarmi. Come per caso ha preso sulla scrivania un cartoncino che m’è giunto giorni addietro. “E’ dell’Associazione Italia-Croazia, vero papà?” Assentii con la testa. “Ti invitano a un incontro sugli scambi tra i due Paesi. Ci sarà anche l’addetto commerciale croato, il dottor Bodgar Santic.” Era alle mie spalle, mi abbracciò stretto. “Ci andrai, vero, papà?”
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