Gli ippocastani mormoravano silenzio. Forse, erano come i miei baci, perduti come stelle di fuoco sulla neve bianca. E ne era caduta tanta, in passato, poi, però il vento del destino l’aveva disciolta. Era lo stesso che in quegli istanti scompigliava i miei lunghi boccoli biondi. Passeggiavo insieme ai fantasmi lungo il viale desolato che fiancheggiava il lago. Una barca a remi si appressava alla costa, di lontano, qualcuno mi faceva delle segnalazioni strane. Forse, era per la mia avvenenza, che tutti solevano lodare. Venne una nube, e la barca svanì tra le sue nebbie. Portavo sottobraccio il mio cesto di vimini con le merende. Avevo vent’anni. Era da tanto, oh, sì, da tanto, che non mi tiravano le trecce, e, vi confesso, quel gesto semplice mi faceva assai piacere. Di tanto in tanto, mi fermavo per raccogliere qualcuna delle castagne che era caduta sul selciato. Il mio sguardo era rapito dalla tristezza delle tortore, che volavano come angeli davanti ai miei occhi celesti, dalla maestà di quegli alberi, grandi e vetusti, dalla profondità del silenzio, dove mormoravano le voci del passato. Ricordo le trecce delle mie amiche. Una volta, lungo quello stesso viale, giocavamo a tirarcele a vicenda. Facevamo finta di essere innamorate le une delle altre, e ci regalavamo dei baci sulla bocca, quando nessuno poteva vederci. Eravamo come dei maschi. Altre si abbracciavano fraternamente, e ballavano chissà quali danze sconosciute, suonate soltanto dalla voce del vento, il vento del lago, che in quei luoghi soffiava forte e parlava di mistero. – Mi fai provare? Mi fai ballare? – E tu me lo dai un bacio d’amore? – Sì, porgi la bella guancia. Sono il tuo amico del cuore, non la tua amica! – E quanto mi ami? Le voci del passato svenivano accanto a me, una ad una. Ero ancora così giovane, così piena di voglia di amare e di desiderare. Sentivo la carezza del vento sulla pelle, mentre guardavo, oltre il lago, le belle Alpi, dalle cime ancora innevate, ricoperte di ghiacci che nessun fuoco poteva sciogliere. Oh, forse, quel fuoco era quello che ardeva in me. La mano della brezza era come quella di un uomo, che sfiorava la mia carne nuda e bianca, mi coccolava teneramente, sentivo che qualcosa o qualcuno mi soffocava con i suoi baci ardenti, con le sue carezze appassionate, e piangeva sul mio corpo lacrime di passione, che bruciavano come fiamme. Rimasi appoggiata sulla staccionata bianca, lungo il lago. Alle mie spalle, in cima alla collina, c’era l’ospizio, le cui finestre, una a una, andavano illuminandosi. Calava il tramonto. Il sole era un disco di fuoco che tingeva le acque di riflessi incantati. Rosicchiavo una mela tra le labbra: era rossa, come il piacere, e la mordevo con frenesia, succhiandola, godendo a lungo del suo sapore dolciastro con la lingua, la mia bella lingua che era dello stesso colore della buccia. Poi, volli regalare il torsolo ai venti… Era come se, affidandolo alle acque del lago, esprimessi un desiderio inconfessabile, che soltanto il destino poteva esaudire. In quegli anni ero apparentemente un fiore triste. Ma dentro di me bruciava la passione e la voglia. A ogni istante, il ricordo di una mano, di quella mano, che un tempo mi aveva molestata, si risvegliava in me. Sentivo che mi toccava i seni bianchi e nudi. Sapevo che nessuno mi avrebbe vista, neppure il caro giardiniere, buon vecchio dalla barba bianca, né la maestra governante. Perciò mi tolsi il vestitino, rimasi soltanto con la gonna e le scarpine di velluto blu, e affidai il mio petto eburneo e senza veli alle carezze del vento. Egli non mi lesinò le emozioni… Oh, amico del mio cuore! Mi rivestii in fretta. Feci presto a riprendere il mio cappello a falde larghe, nero, decorato con veri fiori di campo rossi e gialli, che una folata improvvisa aveva rapito e portato con sé. Sì, perché, a volte, il mio amico vento giocava con me. Lui venne presto a prendermi. Era la fine di Luglio del 1928, lo vidi arrivare al volante della sua Bugatti, una delle macchine più costose e più in voga per la bella società della Svizzera di quei tempi. Salii senza battere ciglio. Soltanto le mie labbra rosse parlavano. Oh, sì, ero ancora innamorata di lui, il mio cuore batteva ancora sempre e soltanto per lui, ero una ragazza disperata d’amore e per nulla rassegnata all’impossibile. Non mi parlò. Eppure mi ero fatta bella per i suoi sguardi. E soltanto per i suoi sguardi alzavo e abbassavo languidamente le belle palpebre, ornate da ciglia lunghe e nere, soltanto per i suoi sguardi tenevo le labbra socchiuse, e di tanto in tanto lasciavo che esalassero sospiri, soltanto per i suoi sguardi avevo le calze a rete, una follia per quei tempi, e lo mangiavo con gli occhi. Forse, mi aveva perdonata. Mi aveva perdonata per quell’amore perduto, confessato nel languore di un bacio. Guardavo la Bugatti. Correva veloce lungo i sentieri del silenzio, il facoltoso aveva desiderato guidarla di persona, era partito senza l’autista, ingranava le marce una dopo l’altra, maneggiava il volante con i suoi guanti di pelle, aveva tirato su la capotta, per non farmi prendere freddo. – Ti amo tanto, sai? – osai sussurrare, prendendogli la mano per un attimo, follemente. Era il mio fratellino e lo amavo perdutamente. Posai un dito sulle labbra, come per regalargli un bacio, e rompere quel silenzio che ci avvolgeva: non ci vedevamo da tanti anni! Mi aveva salutata appena, quando era venuto a prendermi. – Ti amo e non posso vivere senza di te – dissi, sospirando. Ma lui guidava sempre la sua Bugatti e non mi ascoltava. E io che palpitavo d’amore per lui, che piangevo segretamente per lui, con i miei occhi azzurri che sembravano perle d’argento! Non vide le mie lacrime. Arrivammo a casa. La villa non era cambiata, era incastonata tra i monti, come un sogno perduto tra Losanna e Neuchatel. Nei miei occhi brillavano ancora i castelli che avevamo visto lungo la strada, e i monumenti dedicati ai Lodevoli Cantoni disseminati qua e là, rimasti alle nostre spalle insieme con le valli di Zurigo. Lui non resistette e fu allora che scoppiai di felicità tra le sue braccia. Volle aprirmi personalmente lo sportello, e mi saltò al collo, stringendomi appassionatamente, perché neppure lui riusciva a dissimulare la gioia di quell’incontro. – Sei tornata, finalmente – disse, con voce fiabesca. – Sì, per sempre. – Lascia che ti abbracci! Non mi sarei mai aspettata quella calda accoglienza. E mi baciò sulla bocca, oh, sì, il fratellino baciò sulla bocca l’amata sorellina, di cui era segretamente innamorato. E sussurrava sempre il mio nome. – Charlotte… Charlotte… Non importava se qualcuno avesse visto. Nei giorni che seguirono, mentre passeggiavamo mano nella mano per i viali del giardino, ripresi a corteggiarlo, come un tempo. Gli narravo storie fantastiche, o gli recitavo le belle poesie che avevo imparato a memoria per lui. Una volta mi travestii da fantasma, e con un lenzuolo bianco indosso entrai nella sua camera. Voi sapete, la nostra casa era come un castello. Ero completamente nuda, sotto. Sentii la sua mano che cercava le mie forme. Non avevo scarpe. Mi sedetti sul suo letto mostrandogli le mie belle unghie dei piedi dipinte di azzurro, per non fargli troppa paura. Anche quelle delle mani erano dello stesso colore. E le usai per graffiarlo appassionatamente, dopo averlo spogliato nudo. Gli dissi che ero folle, che ero sua sorella ma avrei voluto fare un bambino con lui. Non mi rispose che con i suoi baci. Gli piacevo tanto. Gli piaceva il colore dei miei capelli e la dolcezza delle mie labbra. Gli piacevano i miei seni grandi e bianchi – avevo vent’anni – e li stringeva forte tra le sue mani assai volentieri. – Lo faremo anche nella tua Bugatti? – gli chiesi un giorno. Non rifiutò. Non mi rifiutava mai. Quando faceva l’amore con me, la sua adorata Charlotte, la sua amata sorellina, non parlava mai. Ero sempre io a doverlo corteggiare e a dovergli confessare i miei dolci sentimenti. La cosa non faceva male a nessuno. Non disturbava nessuno. Nessuno sapeva. Era un segreto di felicità fatto per noi due. Capitava a volte che gli dicessi di farmi male, mentre mi mordicchiava i capezzoli, quando eravamo soli nel giardino, vicino alle siepi di caprifogli e di rododendri. Allora, lo stringevo forte e me, dopo aver denudato il mio mezzobusto per il piacere di lui. Diventavo rossa come una ciliegia. Non lo respingevo mai, neppure durante gli assalti più appassionati. Mi immergevo con pochi veli indosso nella fontana di marmo rosso, e poi, quando uscivo sgocciolante, lasciavo che lui mi asciugasse con le sue labbra. Gli piaceva tanto. Lo facevamo anche nella camera da letto dove un tempo dormivano i nostri genitori. Era buffo e un po’ romantico. Mi piaceva che mi accarezzasse nuda con le spine di una rosa, senza farmi male. Volevo che mi guardasse, che mi mangiasse con gli occhi. Volevo che mi toccasse ad ogni istante. Volevo essere sua e soltanto sua. Volevo che mi chiamasse col mio nome, Charlotte, che suonava tanto bene quando era sussurrato da lui. Diceva che non avremmo avuto figli. Una volta, gridavo di piacere tra le sue braccia. Eravamo nudi e lui mi aveva penetrata. Pareva mi sfondasse. Lo imploravo di non smettere, di non smettere, a differenza di come faceva le altre volte. Volevo che non ci stesse attento. La passione ci divorava, ero la sua donna. Sentivo il suo fallo strofinarsi forte nella mia vagina, ero liscia, rasata, glabra, e il suo pube sbatteva contro il mio. I miei seni grandi sobbalzavano. Mi teneva ferma contro la parete, le gambe alzate da terra, sorrette dalle sue braccia robuste e irsute. Sentivo che sarei venuta prima di lui, e fu così. Accadde più volte. E in quell’occasione, lui non interruppe, no, non smise in tempo, e venne, riversando il suo fuoco dentro di me. E l’uno morì sulle labbra dell’altra.
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