Settembre 1994Oggi, quando sono uscito dal lavoro mi sentivo particolarmente bene, persino la città mi è sembrata più disponibile, aperta, umana come non l’avevo mai sentita.Da due mesi lavoro in una tipografia a qualche isolato da casa, faccio il ragioniere: preventivi, abbastanza di contabilità, pago gli operai a fine mese. Un lavoro un po’ insolito per uno come me con la maturità scientifica, ma in fondo non è male. E’ una ditta giovane, con due soci che hanno una decina d’anni più di me e stampano di tutto, dai biglietti da visita ai depliant, persino una rivista di sport. A me danno un milione al mese, per adesso non in regola. Mi bastano, anche perchè non debbo dare soldi in casa. Si lavora fino alle cinque del pomeriggio, poi sono libero di fare quello che voglio e così, spesso, senza rientrare a casa, mangio dove capita, poi vado in giro per la città senza una meta precisa.Oggi non avevo fretta di tornare a casa e ho fatto come faccio di solito, quando voglio tornare più tardi ma non mi va di andare in nessun altro posto, mi sono messo a guardare le vetrine. Poi ho guardato in alto e ho camminato per un lungo tratto così, con lo sguardo fra i tetti e il cielo, tanto da rischiare di scontrarmi continuamente con chi mi veniva incontro.Me ne sono accorto all’ultimo momento, ho rischiato di sbatterle addosso, e forse sarebbe stato tutto diverso.Era una ragazza piccola di statura, sul metro e sessanta, che trascinava a fatica una grande borsa, camminando sulla parte esterna del marciapiede, tutta inarcata da una parte a controbilanciare il peso. Faceva pochi passi e si fermava, ma senza guardarsi attorno, pareva fissare un punto lontano, molto lontano, e che questo moltiplicasse la fatica.L’ho sorpassata e mi sono girato, come facevano in molti, per vederla meglio, poi un poco più avanti mi sono fermato davanti a una oreficeria specializzata in orologi, cosa che faccio sempre anche se al polso ho il Rolex d’oro che mi ha regalato mio padre per la maturità e che non cambierei con nessun’altro.Quando mi è stata vicino e ha posato per un’ennesima volta il suo peso, i nostri sguardi si sono incrociati: il suo tutto accaldato e il mio fresco sopra la cravatta con la spilla d’oro e brillanti che mi hanno regalato per la prima comunione.Non ricordo se ha detto qualcosa, forse era solo un’esclamazione di fatica. – Dev’essere molto pesante! – è stato il mio commento. – Eh, si! – ha ammesso lei.Poi sono tornato a guardare la vetrina e ho sentito che si allontanava. L’ho seguita. – Posso essere utile? – ho evitato di darle del tu, ma non volevo darle nemmeno del lei, comunque volevo dirle una frase gentile.Lei si è girata, mi ha riconosciuto, e malgrado fosse molto stanca, ha abbozzato qualcosa che poteva essere un sorriso. – Beh, veramente… si. – ha ammesso, ma si è subito pentita. – Non importa, faccio da sola, grazie lo stesso. -Io non ho insistito e sono rimasto a guardarla mentre si passava il dorso della mano sinistra sulla fronte prima di riprendere i manici della borsa con la destra. – Vado anch’io in quella direzione – ho aggiunto senza avvicinarmi. – Possiamo almeno fare a metà. -Lei è tornata a posare la borsa e mi ha guardato, anch’io ho guardato lei: una gonna blu di cotone con due piccoli spacchi ai lati, nè lunga nè corta, appena sopra il ginocchio, una maglietta un po’ strana, di quelle con il collo che si chiude in alto, ma che adesso stava aperta e sotto la quale s’intuiva, quasi s’intravedeva, un reggiseno di quelli robusti. Aveva gli occhi castani con un taglio particolare, orientale, vagamente a mandorla e il naso piccolo e leggermente all’insù, la bocca, anch’essa piccola, assumeva delle graziose pose infantili quando parlava e lei ci passava continuamente la lingua, tanto che il rossetto era solo una traccia ai bordi. Dimostrava si e no vent’anni.Deve’essere stato il mio aspetto a convincerla, devono essere state le mie scarpe lucide, la camicia impeccabile e la giacca sbottonata con noncuranza. – Se proprio… – forse voleva darmi del lei. Mi sono avvicinato e ho afferrato la borsa, ma lei mi ha fermato. – No, no, facciamo a metà – e ha preso uno dei manici. – Ma cosa c’è dentro? – ho chiesto sollevandola. – Piombo? – Effettivamente, anche divisa in due, la borsa era molto pesanteLei non mi ha risposto subito. Mentre camminavamo lentamente capivo che stava pensando a cosa dire. – E’ il campionario – si è decisa alla fine. – Sono prodotti per la casa. -Mi sono deciso anch’io e le ho dato del tu. – E’ un lavoro duro. E’ molto che lo fai? -Non ha risposto alla domanda, ma ha esclamato: – Sapessi che fatica su e giù per le scale tutti i giorni! Arrivo alla sera che sono morta, non mi reggo più in piedi! – – Dove devi andare? – ho chiesto. – Oh, oggi è stata una giornata sfortunata. – – Venduto poco? – – No, no – ha continuato lei. – Per quello, come al solito. E’ che ho sbagliato strada e sono arrivata tardi all’appuntamento delle sei e un quarto con il pulmino, quello con cui alla sera riportano il campionario in ditta. – – E allora? – – E allora… E’ la seconda volta questo mese che mi capita e adesso mi tocca andare fino alla ditta che sta in fondo alla Cassia. -Quasi ci fossimo messi d’accordo ci siamo fermati entrambi posando la borsa. – Ma così a che ora arrivi a casa? – – Tardi – era proprio distrutta, – anche perchè abito alle Vigne di Morena e devo prendere l’autobus da Cinecittà. Chissà come strillerà mio padre stasera. -Mi ha guardato, è stato come se di colpo si rendesse conto di quello che aveva detto e dell’abisso che nella sua mente ci divideva, che divideva la mia eleganza dalla sua scomposta stanchezza, le mie mani libere dalla sua borsa piena di deodoranti e saponi, la mia espressione incuriosita dalle sue preoccupazioni. – Se avessi la macchina – ho detto – ti accompagnerei volentieri. E’ che torno proprio adesso dal carrozziere. – – No, no – si è schernita lei – troppo gentile. – – Ho avuto un incidente proprio ieri – ho continuato senza ascoltarla. – Un incidente brutto? – ha chiesto lei con una partecipazione un po’ eccessiva. – Sono finito contro un paracarro. E pensare che l’auto aveva solo tre giorni. Proprio nuova di zecca! -Abbiamo ripreso a camminare, tenendo ciascuno il proprio manico. – Sono sempre stato sfortunato con le auto! – ho continuato e chissà perchè ho ripensato al commendator Ronchetti, un grosso cliente della tipografia e ai suoi soldi, alla potenza del denaro e mi è venuta un’idea. – Mio padre dice che sono un disastro, – ho concluso sorridendo – ho sfasciato tante auto che nemmeno mi ricordo quante. -Lei deve aver ripensato alle mie parole e alle implicazioni economiche connesse, perchè istintivamente ha commentato: – Se andassi a sbattere con la macchina di mio padre, lui mi ammazzerebbe, sono quindici anni che ce l’ha e non le ha mai fatto nemmeno un graffio. -Ho sentito da quella risposta la differenza fra lei e me accentuarsi, il solco scavarsi più profondo, e ho deciso di farvi scorrere anche l’acqua per renderlo invalicabile. – Be’, per quello, mio padre cambia auto ogni anno e poi le macchine che ho sfasciato erano mie, mica sue. -A questo punto ho fatto finta anch’io di rendermi conto dell’abisso che ci divideva e, come imbarazzato, ho detto: – Scusami, non mi sono nemmeno presentato. Io sono Tony… – e stavo per aggiungere il cognome del commendatore, ma ho pensato che lei non sapeva chi fosse, ho detto invece il nome di un mobilificio che fa pubblicità in televisione e che sicuramente lei conosceva. – Ah, come il mobilificio! – ha esclamato infatti. – Già, come il mobilificio – ho ripetuto. – Io mi chiamo Sonia… – il cognome ora non lo ricordo.Mi sono fermato. – Senti… – ho detto. – Che tu debba trascinare questa borsa su un autobus fino alla Cassia e poi andare a Cinecittà e alla fine anche sentire tuo padre strillare, è una cosa che mi dà proprio fastidio. – Mi guardava curiosa. – Non vorrei che ti offendessi, ma visto che se avessi avuto la macchina ti avrei accompagnata volentieri, permettimi che ti chiami un taxi e… – Alla parola taxi è entrata in agitazione. – No, no, – ha ribattuto – sono abituata, e poi sinceramente non ho i soldi. – – Ma no, forse mi sono spiegato male. Se ti accompagno vuol dire che il taxi lo pago io. -Devo esserle sembrato proprio un marziano. – Ma scherzi? A quest’ora, con questo traffico… – voleva dire che avrei speso un sacco di soldi, ma forse la mia cravatta e soprattutto il Rolex d’oro deve averla fermata in tempo.L’ho fissata con un mezzo sorriso. – Devo farti una confessione che forse ti aiuterà ad accettare il mio invito – ho cominciato e mi sono passato la lingua sulle labbra come se fossero diventate improvvisamente secche. – Vedi… io non mi chiamo come il mobilificio. E’ il mobilificio che si chiama come me, perchè è mio, o meglio è di mio padre. -Lei ha spalancato gli occhi per la sorpresa, chissà perchè mi è venuto da pensare che mi avrebbe detto una frase del tipo “Scusami sono tutta in disordine” o qualcosa del genere. Invece è rimasta proprio senza parole. – Davvero, per me non è proprio niente – ho insistito. – Io viaggio sempre in taxi quando non mi va di usare la macchina. – – Ma io… – ha cominciato lei. – Io non so… – E guardava me e la borsa come se fossimo i due piatti di una bilancia. Alla fine quella che ha pesato di più è stata proprio la borsa, o, come ho pensato più tardi, sono stato io, e ha risposto. – Se devo essere sincera, mi risparmi una bella faticata, però ecco… Non mi è mai successo… Non so cosa dire. – – E tu non dire niente. -Così abbiamo preso un taxi. In fondo, a volte ci vuole così poco a essere ricchi per gli altri. In taxi, mentre parlavamo, Sonia si agitava sul sedile, si aggiustava continuamente la gonna, si lisciava invisibili pieghe sulla maglietta e forse avrebbe voluto anche estrarre dalla borsetta il rossetto e rifarsi il trucco, ma così, sfacciatamente, davanti a me, non era possibile.Il tassametro batteva con piccoli scatti impercettibili il trascorrere dello spazio e del denaro. – E’ proprio in fondo alla Cassia vicino al raccordo anulare. – aveva commentato con soddisfazione il tassista quando aveva sentito il nome della strada. E lei mi aveva guardato vergognandosi, quasi incredula che io non battessi ciglio e mi preoccupassi soltanto che la sua borsa fosse riposta nel bagagliaio. Prima aveva voluto darmi a tutti i costi il gettone per telefonare frugando quasi impazzita nella borsetta, mentre io cercavo con disinvoltura nel mio portafoglio, lasciandole vedere diversi fogli da centomila (era lo stipendio del mese che avevo incassato quel giorno).Il tassista guidava con rabbia, imprecando contro gli altri automobilisti che sembrava stessero per strada solo per fargli dispetto e impedirgli di arrivare a destinazione. – Sai che non ho mai visitato il tuo mobilificio? – ha confessato lei dopo che ci eravamo scambiati una serie di banalità. – Se un giorno sei libera te lo faccio visitare! Quando sei libera Sonia? -Abbiamo continuato a parlare senza un argomento preciso, con il tassista immerso nel suo mondo fatto di traffico e di scorrettezze connesse, e per questo estraneo a quanto accadeva nel sedile posteriore, e un poco alla volta lei mi ha raccontato della sua vita: la borsa pesante, le scale, i portieri che non lasciano passare, un concerto rock visto solo perchè era il suo compleanno, il padre severo che non la fa uscire se non la domenica pomeriggio per andare a ballare in una discoteca vicina e raramente a Roma. Poi i sogni, sempre infranti, il corso da estetista fatto per corrispondenza, una fregatura, due mesi come commessa nel negozio di abiti da sposa della zia, ma solo perchè la cugina era malata, il concorso per le poste, di cui forse uscirà la graduatoria fra un paio di mesi. – Ho anche una raccomandazione, ma è piccola. Proprio piccola. -Non sapeva dove mettere le mani, aveva le unghie laccate di un rosso vivo. – E tu? -Ma ormai eravamo arrivati. Sonia è scesa per andare a consegnare la borsa ed è risalita dopo un tempo un po’ troppo lungo, truccatissima, con le labbra rosso scuro che sembravano un po’ più grandi e carnose. – Scusate! – ha mormorato guardando sia me che il tassista e io ho avuto il sospetto che forse era la prima volta che saliva su un taxi. – Allora, dimmi qualcosa di te. – Stavamo tagliando la città diretti al capolinea delle corriere sul piazzale di Cinecittà. – Mi sto laureando, ma per la verità non studio molto, debbo aiutare mio padre perchè sono figlio unico, sai gli affari… -Non so quante altre cazzate ho sparato, così grosse che credo anche l’autista a un certo punto si sia messo ad ascoltare dimenticandosi del traffico. E ho visto Sonia prima seguirmi con occhi stupiti dall’altra sponda di quel fossato che si era scavato fra noi, poi come spiccare un balzo e volare e sedere accanto a me sulla mia immaginaria Ferrari, dormire nella mia casa di Cortina, prendere il sole sulla mia spiaggia in Sardegna, tenersi i capelli per non farli volare nel vento della folle corsa sul mio motoscafo d’alto mare. – Ci siamo – ha detto il tassista, fermandosi all’improvviso e troncando i nostri discorsi, e mi ha guardato un po’ perplesso. Io non l’ho deluso. Ho sbirciato appena il prezzo della corsa e ho tolto di tasca una banconota da centomila. – Il resto – ha detto lui tendendomi la mano con alcuni biglietti e io ho sorriso facendo un cenno con la mano: il resto mancia. Che per me doveva essere normale. – Allora sei arrivata. Sono le nove e quaranta – ho detto sfoderando il Rolex. – Chissà che ora avresti fatto da sola. – – Non me lo dire – ha esclamato lei. – Ma siccome avevo telefonato a mio padre prima di incontrarti, in fondo sono in anticipo. -Adesso che era rimasta solo con la piccola borsetta a tracolla, si sentiva ancora più fragile e insignificante malgrado il trucco appena rifatto. – Facciamo due passi? – ho proposto guardandomi attorno come se quel posto non lo avessi mai visto. – D’accordo. – E vedevo che cercava di rispondermi e di comportarsi in una maniera insolita, di cancellare diffidenze e modelli di comportamento instillati in lei dalla nascita. Tutto questo perchè all’improvviso le era successo qualcosa che alle sue amiche non sarebbe mai capitato: stava sfiorando un mondo proibito, il mondo che fino ad allora aveva potuto solo sognare, guardando Dallas o Beautiful alla televisione. – Sei fidanzata? – le ho chiesto senza guardarla, quando già i nostri passi si perdevano per il largo marciapiede deserto della Tuscolana, verso l’entrata degli stabilimenti cinematografici. – No, no! – si è schermita, come se solo il fatto che io lo avessi pensato potesse rovinare tutto. – E perchè? – – Perchè i ragazzi che conosco sono tutti stupidi. – – E chi sono i ragazzi che conosci? Cosa fanno? – – Mah… C’è chi studia, chi lavora, molti disoccupati… – – E sono tutti stupidi? -Sentivo che adesso anche lei si sentiva dalla mia parte, guardava i ragazzi che le erano stati intorno fino a ieri con altri occhi, li vedeva parte di una vita grigia e vuota, da cui forse era possibile uscire. – Sono rozzi, quando ci balli allungano le mani. E poi non sanno capire i sogni di una ragazza come me. – – D’altra parte, non li potrebbero nemmeno realizzare – ho aggiunto sarcastico. – Già, proprio così. – Mi ha guardato e in quello sguardo ha cercato di mettere tutta se stessa, tutto quello che di femminile riusciva a racimolare faticosamente dentro di se. – Non mi è mai capitato di incontrare un ragazzo come te. -Pensava di lusingarmi, invece quelle parole mi hanno fatto tornare di colpo quello che ero: un giovane stupido, che lavorava, che a ballare non allungava le mani, ma solo per timidezza, che, come tutti gli altri, non avrebbe mai potuto realizzare i sogni di una come lei.Eravamo seduti su un alto muretto all’interno di un grande parcheggio deserto, illuminato da grosse lampade rossastre di cui una era spenta, dietro di noi i campi, nella semioscurità illuminata a tratti da una luna che le nuvole cercavano controvoglia di seppellire. Da quello squarcio di verde si riversava sulla strada lo stridio dei grilli e anche quello disperato di una cicala. La voce della campagna che assediava senza speranza la città. – Ma in fondo – ho ribattuto dopo quello che a Sonia dev’essere sembrato un lungo istante di riflessione – essere ricchi è facile. E’ facile essere corretti con una donna quando sai che puoi averne tante, per uno che lavora o che è disoccupato questo è più difficile. Forse la differenza sta solo nei soldi. Non credi? – – No – mi ha contraddetto, aspettando però educatamente che finissi. Stava compiendo uno sforzo enorme per trovare in se una sensibilità più raffinata, un linguaggio più elevato che fosse almeno confrontabile con il mio. – Si vede, per esempio, che tu sei diverso dagli altri ragazzi che conosco, che sei più sensibile, corretto… – cercava altre parole, ma non le trovava. E forse nemmeno le possedeva. – Sarà che i ricchi io li conosco – ho continuato mentre le macchine, oltre il piazzale, correvano sotto i lampioni, lasciando nall’aria, fra l’una e l’altra, un vuoto di attesa che il silenzio non osava colmare completamente. – Mio zio, per esempio, ha un’amante a cui ha comprato un appartamento e a cui passa una decina di milioni al mese. -Lei è rimasta muta non sapendo cosa rispondere. – A volte penso anch’io di farmi un’amante, chissà! Forse sarebbe la scelta migliore. A volte dubito persino che mia madre sia stata prima l’amante di mio padre e che poi si siano sposati. -Lei si girata da una parte, imbarazzata, erano discorsi più grandi di lei, non se la sentiva di parlare, aveva troppa paura di sbagliare. – Quando si hanno tanti soldi – ho continuato – a volte non si sa davvero cosa farsene. Siamo entrati in confidenza e te lo posso dire. Spesso vado in un locale notturno e spendo tutto quello che ho, devo far pagare il taxi al maggiordomo quando torno a casa perchè non ho più una lira. Ma lo faccio perchè mi annoio, è un modo come un altro per passare il tempo. -Lei ha trovato la forza per dire qualcosa. – Forse è perchè ti senti solo! – – Forse – ho ammesso. – O forse perchè mi va di giocare. Senti Sonia – le ho detto come se mi venisse in mente solo in quel momento e invece mi stava mulinando per la mente da quando aveva fatto quel discorso sbagliato sui ragazzi stupidi. – Quanto guadagni al mese? Ma non voglio metterti in imbarazzo… – – Be’… – ho capito subito che non voleva dirmelo. – Qualche mese di più, qualche mese di meno… -Ho tirato fuori dalla tasca il portafoglio, ho preso tutti i soldi che c’erano dentro, e glieli ho posati davanti. – Senti, Sonia, è da quando siamo scesi dal taxi che ho voglia di darti un bacio. – – Come? – – Un bacio, un bacio. Lo sai cos’è un bacio? Ecco, tutto quello che ho in tasca per un tuo bacio! -Mi ha guardato più incredula che emozionata. – Vuoi contarli? – le ho detto e mi sono messo a contarli, lì davanti a lei, comprese le banconote da mille lire. – Ah! – ho detto poi tirando fuori dalla tasca una moneta da cinquecento lire. – Ho anche queste. – E ho sorriso. – Ma io… -Sonia guardava il denaro e poi guardava me. E quando mi sono deciso e mi sono sporto verso di lei e l’ho baciata, forse sarà stata la sorpresa, non si è sottratta e la mia lingua ha incontrato la sua e le sue labbra sono rimaste aperte mentre i suoi occhi si chiudevano appena.Un attimo.Ci siamo ritrovati a guardarci negli occhi, mentre le nostre labbra pian piano si staccavano. Era come ipnotizzata. – Grazie, Sonia! Sono tuoi – ho aggiunto prendendo i soldi e mettendoglieli delicatamente in mano. – No, no – ha reagito lei cercando a sua volta le mie mani per restituirmeli e, non trovandole, ha posato il denaro sul muretto come se scottasse. – Primo: non ho detto di sì, poi comunque i soldi non li voglio. Non volevo… e comunque non bacio a pagamento. – – Ti ho offesa? – – No, però… – ha ribattuto cercando un’espressione che fosse di rimprovero, ma nello stesso tempo non offensiva. – Però non me l’aspettavo, adesso non so cosa dirti. – – Prenditi i soldi, sono tuoi – ho insistito io. – Mettili via – ha risposto cercando di non guardarli. – Non li voglio proprio. -Allora ho preso lentamente il denaro e l’ho rimesso nuovamente nel portafoglio tirando un lungo sospiro mentre lo rimettevo in tasca. – Vedi – le ho detto poi accostandomi un poco e quasi in un sussurro – vedi, Sonia, io ti ho dato un bacio e non mi è costato niente, ti avevo offerto del denaro e non l’hai accettato. Forse avrei potuto anche metterti una mano sul seno o accarezzarti le gambe e non mi sarebbe costato nulla. Lo sai perchè? – – Non mi piacciono questi discorsi – ha esclamato allontanandosi un poco e guardandomi con aria lievemente inquieta. – Lo sai perchè? – ho ripetuto continuando ad avvicinarmi. – Ma perchè sono ricco! – ho allargato le braccia e con una mano le ho sfiorato la spalla. – Se lo avesse fatto un altro, se ti avesse offerto gli stessi soldi un ragazzo che lavora, magari adesso te li saresti tenuti. E gli avresti dato una sberla e non avresti ricambiato il bacio, perchè lui era stupido e io sono ricco. – – Perchè fai così? – ha detto offesa. – Perchè ti diverti ad umiliarmi? Perchè vuoi apparire più cattivo di quello che sei? Io non credo che tu sia cattivo come vuoi farmi credere. – Ha allungato la mano per prendere la mia. – E se io ti dicessi che i soldi che ti ho mostrato sono lo stipendio che ho preso oggi e che il taxi che ho pagato… – e ho detto la cifra esatta del tassametro – rappresentano per me due giorni di stipendio, sarei ancora carino ai tuoi occhi? -Adesso non parlava, mi guardava con stupore crescente, scuoteva leggermente il capo. – Se ti dicessi che non ho nemmeno l’automobile, che mi sono inventato di essere il figlio di quello del mobilificio, che se andassimo a ballare forse allungherei le mani, così… – e ho cercato di accarezzarle i seni, ma lei si è allontanata in tempo e si è spostata un metro più in là. – No – ha detto, ma non alla mia mano, nemmeno a me, lo diceva a se stessa e alla fine di un sogno. – Non ci credo – ha continuato. – Non so perchè stai facendo così, se ti diverte o ti stai facendo del male. O forse mi vuoi mettere alla prova? -Queste ultime parole mi hanno fatto sorridere, forse davvero nei fotoromanzi i ricchi mettono alla prova le povere fanciulle per sincerarsi del loro amore. – Davvero? Credi che voglia metterti alla prova? – E ho cercato a lungo qualcosa che la facesse ripiombare nella realtà.Mi sono frugato in tasca, ho trovato la tessera dell’autobus e gliel’ho buttata tra le mani. – Hai visto che ricco sono? Uno tanto ricco che prende l’autobus e non ci mette nemmeno la firma sulla tessera, così la possono utilizzare anche gli altri della famiglia. -L’avevo colpita al cuore, avevo fatto un minuscolo foro alla base della diga che reggeva il mare dei suoi sogni e, pian piano, un granello dopo l’altro, potevo vedere che si andava sfaldando.Eppure non voleva ancora crederci, guardava il mio Rolex d’oro, come un’ultima ancora di salvezza. – E’ un ricordo di famiglia – ho spiegato – e io sono un modesto impiegato, uguale a tanti che ti frequentano. Forse più povero di alcuni di loro. -E qui ho esagerato, perchè in fondo io faccio parte della media borghesia, con appartamento di proprietà e qualche soldo in banca. – E tutto quello che mi hai raccontato? – Adesso voleva davvero una risposta. – Sogni. Non è esattamente tutto quello che sognano le ragazze come te? -Lei ha annuito col capo, ha rigirato fra le mani la mia tessera dell’autobus, deve essersi resa conto anche della cifra precisa del taxi che io avevo ricordato e che lei si era sicuramente stampata nella mente e l’ha collegata al denaro, al pacchetto di soldi che le avevo messo davanti. Allora forse ha ripensato al bacio di poco prima, forse ne ha risentito il sapore amaro, l’ho vista mordersi le labbra e passarci sopra la lingua come volesse cancellarlo assieme al poco rossetto rimasto.Non le serviva parlare, nei suoi occhi c’era soltanto disprezzo. – Adesso – ho detto guardandola fisso negli occhi – non me lo daresti più un altro bacio, vero, Sonia? -Lei ha cominciato a dire qualcosa, sembrava non trovare le parole, poi è esplosa, un torrente di parolacce, di insulti, ma ormai non la stavo più a sentire, mi sono buttato contro di lei e le ho afferrato le mani fino a spingergliele dietro la schiena e a sentire il mio corpo premere contro il suo. – Lo sai cosa succede adesso, vero, Sonia? -Nella destra aveva ancora la mia tessera, la stretta della mia mano gliel’ha fatta cadere. – Porco! – ha urlato e forse era la parola più pesante che conoscesse oltre alle parolacce, quella che diceva ai ragazzi quando allungavano le mani ballando. Io le ho impedito di scendere dal muretto. – Adesso che sono un ragazzo normale – ho continuato – uno normale, uno stupido, puoi scegliere. – Ero calmo, le ho liberato le mani e mi sono tirato indietro per osservarla. – Porco! – ha continuato lei e cercava altre parole, ma adesso che era arrabbiata non ne trovava più nel suo vocabolario. – In fondo devi ripagarmi della corsa in taxi. – – Noo! – E ha fatto per balzare in piedi, ma io le sono saltato addosso e ci siamo rovesciati lottando oltre il muretto, nell’erba. Di colpo ci siamo ritrovati quasi al buio, una cortina di arbusti ci riparava dai lampioni della strada, la luna era stata momentaneamente coperta dalle nuvole. Sentivo il suo corpo agitarsi senza speranza sotto il mio peso e la sensazione mi eccitava. – Senti – ho continuato immobilizzandole definitivamente le mani. – Qui non può sentirti nessuno. Anche se riesci a scappare e metterti in mezzo alla strada, nessuno si ferma a quest’ora di notte. E’ più facile che ti investano. – – Che stupida! – ha detto. Si compiangeva. – Che stupida sono stata. Però tu sei un porco. – E ho sentito più che visto che mi sputava in faccia. – Se continui così, divento violento. -Lei è rimasta in silenzio come in attesa. Allora sono sceso giù con una mano e ho cominciato a far scorrere la lampo della gonna per sfilargliela. Sentivo che in lei covava una rabbia violenta, che il suo corpo era pronto a scattare, a colpirmi. – Non ti farò male se starai buona, vedrai! – ho detto io, pregustando il piacere di possederla. Di sottometterla. – Porco! – ha gridato ancora. – Ti diverti a farti le ragazze così, vero? Perche se non te le fai così, non ci verrebbe nessuna con uno stronzo come te. E io come una scema che ci sono cascata. -Era il momento, lo sentivo, ho allungato una mano fino a sfiorarle il collo. – Tu non hai paura, vero? – – No – ha detto con irruenza e in quel momento ho stretto leggermente le dita. E’ stato come un segnale. Si è irrigidita. – A volte è meglio avere paura, Sonia – ho continuato. I grilli continuavano il loro concerto. Per un momento ho sentito il suo corpo fremere, ma questa volta non era solo rabbia. – No… – ha implorato posando la sua mano sulla mia, che le stringeva il collo, ma senza il coraggio di strapparla via. – Questo no. – E non si riferiva alle mutandine che pian piano le scivolavano per le gambe. C’era qualcosa che la spaventava molto di più. – Senti… – ha proposto togliendo lentamente la mano dalla mia. – Perchè non mi lasci andare? In fondo ti sei divertito. Ora basta. – – Mi dai un altro bacio, Sonia? – ho chiesto sfiorandole delicatamente i peli al confine tra il pube e le cosce. – Stronzo! -Le ho stretto ancora il collo fra le dita. – Solo un bacio, però – ha detto riprendendo il controllo della situazione, e ci siamo baciati ancora, la mia lingua ha esplorato la sua bocca in lungo e in largo. – No, no, porco! – ha urlato poi staccandosi dalla mia bocca, mentre le affondavo la mano tra le gambe. – Avevi detto solo un bacio. – – L’avevi detto tu – ho continuato io. La mia mano ha continuato a carezzarla malgrado lei cercasse di impedirmelo. – Lo sai che succederà ora, Sonia? – – Eh, no, cazzo! Questo no! – ha urlato, e ho sentito che le tornava a crescere la rabbia. – Il fatto è – ho cominciato io eccitato, fermando le sue mani che cercavano di graffiarmi – che io non voglio farti del male, voglio solo scoparti. Solo scoparti. – L’ultima frase si è persa nell’aria umida della notte. – Voglio solo infilartelo in quel bel fiorellino che hai tra le gambe, farmi una bella scopata, venirti dentro e poi lasciarti andare. Però se non ci riesco, per te finisce male. – E le ho appoggiato di nuovo le dita sul collo.Si è bloccata, ha tentato di liberarsi. – Stai rendendo tutto più difficile, Sonia. – E ho continuato ad accarezzarla, poi dopo aver preso un po’ di saliva dalla sua bocca sono tornato a cercare nel buio, tra le sue gambe inutilmente strette.Aspettavo.Aspettavo nel buio, continuando ad accarezzarla e la mano dal pube scivolava in alto fino alla maglietta, si intrufolava sotto e poi dietro, a cercarle, impaziente, la chiusura del reggiseno.Dovevo sembrarle enorme, nel buio, sopra di lei, sfiorato dalla luce dei lampioni che filtrava sopra gli arbusti. – Tony o come cavolo ti chiami – ha cominciato cercando di mantenersi calma, mentre la mia mano si impadroniva di una sua mammella sollevando il reggiseno. – Senti, perchè non ci mettiamo d’accordo? -La frase mi ha colpito, mi ha eccitato molto più che scivolare con le dita sui capezzoli ormai nudi e girarci attorno senza sosta. – Che cosa ci guadagno io da un accordo con te? Niente che non possa avere lo stesso. -Sentivo che era combattuta tra la rabbia e la paura, non sapeva che fare per tirarsi fuori da quella situazione, allora le sono andato sopra, il mio petto contro il suo, e mentre cercava disperatamente di respingermi e liberarsi, mi sono slacciato la lampo dei pantaloni, l’ho tirato fuori, le ho afferrato di nuovo le mani e con la sinistra gliele ho tenute ferme insieme sopra la testa, poi mi sono fatto faticosamente largo tra le sue gambe.Era già meraviglioso strusciarle addosso, scavarmi pian piano un varco fino a sentire il suo pube peloso, poi dopo aver vinto l’ultimo tentativo di rifiutarmela, gliel’ho messo dentro, lentamente, mentre le sue gambe si agitavano frenetiche attorno ai miei fianchi e lei cercava di colpirmi con i tacchi delle scarpe, ma senza convinzione, come se avesse paura di una mia reazione violenta. – Ti piace? – ho sussurrato quando sono arrivato in fondo. Alla fine non era neanche vergine anche se la sentivo strettissima contrarsi tutta attorno alla mia verga, ho spinto ancora fino a farle male. – Porco! – ha gridato, anche per il dolore, girando di lato la testa per evitare che la baciassi.Allora mi ha preso una rabbia improvvisa, o forse era solo l’eccitazione che si era trasformata in rabbia, e ho cominciato a sbatterla, si, proprio a sbatterla, a sentire il suo corpo rimbalzare sull’erba mentre io le entravo dentro e mi tiravo indietro solo per poter prendere di nuovo lo slancio e scivolare in quell’abbraccio appena umido della sua saliva, in quella contrazione di rifiuto che la rendeva ancora più eccitante. – No, no, porco, porco! – Forse voleva mordermi, ma la paura le impediva, mentre la baciavo, di serrarmi la lingua e si limitava a stare immobile senza ricambiare il bacio. – Ti inonderò! – Ero eccitato da sentirmi male. – Vedrai che avrai qualcosa da raccontare stasera a tuo padre. – E con la mano destra ho preso il suo seno riempiendomi la mano. – No, non venire, ti prego, non venire, non venirmi dentro! – Adesso mi dava bacetti attorno al volto, ma evitava le mie labbra per continuare a parlare. – Ti prego non venirmi dentro altrimenti rimango incinta… Ti faccio qualunque cosa… Non venirmi dentro! – – Cosa mi fai se non ti vengo dentro? – – Qualunque cosa, ma non… – – Allora girati a pancia sotto. -A quelle parole si è bloccata, ho capito più che vedere che mi stava fissando allarmata. – Come… perchè? – – Girati a pancia sotto, ti ho detto. – – Ma cosa vuoi farmi? – Era spaventata adesso e la sentivo tremare sotto di me mentre io continuavo a sbatterla, ma adesso a quelle parole il mio ritmo si era rallentato, e la luna splendeva fuori dalle nuvole. – Lo sai benissimo cosa voglio farti, Sonia. Tu non vuoi restare incinta, vero? E allora, visto che sei disposta a farmi qualunque cosa, girati a pancia sotto e non discutere. – – Tu sei pazzo. Io quella cosa lì non l’ho mai fatta. Preferisco correre il rischio di restare incinta. – La sentivo ansare adesso sotto di me. – E no, Sonia, adesso è a me che “quella cosa lì” va di farla e quindi, lo vuoi o no, tu adesso ti giri. – Mi sono sfilato da lei e mi sono inginocchiato all’altezza del suo stomaco. Si è irrigidita e ha tentato di resistere in un disperato ultimo tentativo al mio sforzo di rivoltarla, l’ho afferrata per i fianchi con tutta la mia forza, stringendo forte e facendola gridare e con uno sforzo incredibile sono riuscito a girarla prona. Prima che potesse iniziare a dibattersi mi sono sdraiato su di lei e le ho stretto di nuovo le mani intorno al collo. – E’ inutile che ti agiti, Sonia. Così rischierai solo di farti più male. Cerca di collaborare invece e poi ti lascerò andare. -L’ho sentita calmarsi lentamente anche se continuava a tremare e allora continuandola a stringere con la sinistra per il collo, sono sceso con la mano destra giù e sollevandomi leggermente sulle punte dei piedi per fare spazio, ho fatto scivolare un po’ di saliva sulle dita e gliel’ho strofinata nel solco tra le natiche che sentivo dure e contratte sotto le mie mani. Le ho cercato il buchetto e l’ho trovato, stretto, chiuso per la paura del possesso che di lì a poco le avrebbe tolto la verginità posteriore. – Porco! Depravato! – ha mormorato, mentre con un dito tentavo di introdurmi dentro di lei. Si è irrigidita ancor di più nell’attimo in cui sono riuscito a entrarle dentro e ha accennato a un movimento come per sfuggirmi. – Sta’ ferma, Sonia, non muoverti o sarà peggio per te. – ho mormorato tra i denti, stringendo un poco le dita sul suo collo. – Hai un buchetto molto stretto, mi sa che dovrò faticare per ficcartelo dentro… Ecco, ecco, lo senti il mio dito? E entrato. – – Porco!… Ahi… Mi stai facendo male… No…! – La sentivo contrarsi attorno al mio dito come impazzita e agitava il sedere in un senso e nell’altro tentando di sfilarsi da quell’arpione che l’aveva trafitta come una falena notturna.Ho sfilato il dito bruciante e caldo del suo intestino e l’ho portato alle narici, aspirando eccitato l’odore del suo recesso più intimo e misterioso.Il cazzo mi faceva male per l’eccitazione e temevo di venire da un momento all’altro come uno studentello alla sua prima scopata. Me lo sono preso in mano e l’ho puntato deciso al centro delle sue natiche, l’ho sentita contrarsi sibilando e irrigidirsi. Ho cominciato a spingere aiutato anche dal mio stesso peso che la sovrastava. – No, no… Noo!… Ti prego no, così no!… Nooooo, mi spacchi!… – urlava adesso sentendosi allargare dolorosamente e si contraeva a scatti, ma ancora non ero dentro e provavo un male feroce anch’io cercando di entrarle dentro così, a secco, senza nessuna lubrificazione. Ero conscio che se fossi riuscito a penetrarla le avrei fatto sicuramente molto male, rischiando anche di rovinarla, ma ormai non potevo più fermarmi, ero eccitato al parossismo.Lei urlava, e urlava inarcandosi sotto di me e io caparbiamente spingevo per penetrarla, la smania di entrare dentro quel pertugio strettissimo ormai si era impadronita di me e niente al mondo avrebbe potuto farmi desistere dal mio proposito.Sudavo e ansimavo come un mantice per lo sforzo e per la fatica di trattenerla e ancora non ero riuscito a violarla, ho continuato a spingere stringendo i denti per non so quanto tempo e a un tratto ho sentito qualcosa cedere sotto la punta del mio cazzo, come un piccolo cratere che si schiudeva lentamente per accogliere al suo interno la mia verga eccitata.Un urlo disumano ha annunciato la mia vittoria e da quel momento in poi tutto è stato più facile.Sonia ha urlato ancora e ha tentato di disarcionarmi dando uno scrollone incredibile che ha rischiato di farmi perdere la presa mentre, con calma, spingevo il mio membro sempre più in fondo nel suo canale riottoso e lei urlava e continuava a urlare da spezzarsi le corde vocali. Scalciava anche e tentava di colpirmi con i tacchi stavolta per farmi male sul serio e con le mani artigliava l’erba umida sotto di lei spezzandosi le unghie nel parossismo del dolore.Ho continuato a martellarla tra le natiche, mentre le urla di Sonia si facevano insopportabili, mi esasperavano e mi incitavano ancora alla brutalità, alla violenza. La rabbia di poc’anzi aveva ripreso il sopravvento in me e miei colpi erano diventati sempre più tremendi, ogni volta riuscivano a penetrare un po’ di più nel suo sfintere, una vera frenesia sadica mi spingeva a tanta crudeltà: volevo ormai a tutti i costi sodomizzare quella ragazza e ci stavo vicino ormai, nonostante la sua agonia.Un ultimo violentissimo affondo, infatti, mi ha portato a introdurmi completamente nel suo retto, Sonia ha emesso un urlo che nulla aveva di umano e si è irrigidita, con le vene del collo che sembrava dovessero scoppiare, poi ha cominciato a saltare sotto di me come se fosse sdraiata sui carboni ardenti. Sembrava come colta da un attacco di epilessia, scalciava e sbatteva le braccia sull’erba in un parossismo di dolore che avrebbe commosso chiunque, ma non me, che invece la osservavo sogghignando e godendo della sua atroce sofferenza.Una volta conquistatomi lo spazio, ho cominciato a martellarla con violenza nell’ano grugnendo di soddisfazione per quella guaina strettissima che quasi mi spellava il cazzo. Le urla di Sonia ormai riempivano l’aria intorno a noi senza soluzione di continuità, non la smetteva di gridare e aveva il volto tutto rigato dalle lacrime che le sgorgavano dagli occhi dilatati per l’orrore di ciò che stava subendo. Mentre la montavo infoiato come uno stallone, inarcandomi e penetrando nel suo corpo una, dieci, cento volte, prima lentamente, poi con maggiore foga, ad affondare colpi su colpi, facendola sobbalzare ad ogni affondo, la sentivo guaire ormai sommessamente. Potevo udire i suoi rochi “Ahhh!….Uhhhh!” echeggiare nella notte. – Ora viene la parte più bella, piccola Sonia. Sei pronta? – le ho detto a un tratto, sentendo che stavo per arrivare alla conclusione. – Per piacere non venirmi dentro – è riuscita a implorare lei a voce bassa. – Ma insomma, proprio non vuoi che ti venga dentro da nessuna parte – le ho risposto seccato. – Hai paura di restare incinta anche da qui? -Ho tirato appena indietro il membro, mi sono fermato un attimo, poi l’ho conficcato dentro con veemenza facendola uggiolare e attaccandomi alle sue chiappe, mi sono inarcato, continuando a dare colpi sempre più freneticamente ed emettendo grugniti di piacere.Sonia ha alzato la testa proprio mentre acceleravo i miei colpi. – Per favore, non voglio che mi vieni dentro… ti prego. – – E come vorresti che finissi, Sonia? – ho incalzato continuando a martellarla implacabile. – Vuoi… che ti faccia un bocchino? -A quelle parole il mio ritmo si era rallentato. – E come me lo fai, il bocchino? – – Te lo succhio, te lo succhio bene, giuro che lo succhio bene. Aspetta però, non venirmi dentro. – – Me lo bevi? – ho chiesto io fermandomi quasi del tutto. – Si, si, te lo bevo, te lo bevo tutto. -Allora io l’ho sfilato, e dopo aver atteso che lei si girasse sulla schiena, sono salito strusciandolo lentamente lungo il suo corpo nudo, fino a trovarmi inginocchiato all’altezza del suo seno e mi è venuto d’istinto di metterglielo in bocca e di sentirmelo sparire tra le sue labbra socchiuse. – Dammelo che te lo bevo! – mi ha incitato, ma ho capito che invece me l’avrebbe staccato con un morso e allora le ho circondato il collo con le mani e, tenendolo lontano dalla sua bocca, le ho detto: – Fammi venire così, voglio vedere che ti schizza addosso – E lei ha cominciato a masturbarmi con una mano e poi ha allungato anche l’altra per accarezzarmi sotto.Erano colpi rapidi, dati con rabbia, ma vederla lì con gli occhi chiusi che mi aspettava, mi ha fatto impazzire ed è stato bellissimo vederglielo colare addosso e vedere la sua faccia disgustata restare immobile, quasi l’immobilità la protegesse.Ho sentito il piacere avvolgere pian piano tutto il mio corpo e quando lei ha preso le mie mani, delicatamente, per toglierle dal collo, ho lasciato che si abbandonassero prive di forza sulle mie gambe.Poi è arrivato il dolore. Di colpo. Ho sentito le mani di Sonia corrermi sul ventre, chiudersi attorno alle mie palle e stringere, stringere, stringere, in una morsa fatta di rabbia, di umiliazione, di odio. Forse mi ha anche gridato qualcosa ma io non potevo sentirla, mi rotolavo per terra, boccheggiavo fra l’erba, urlavo. Quando sono riuscito a rialzarmi, piegato in due, l’ho vista già lontana correre lungo la strada in mezzo alle macchine che suonavano e cercavano di schivarla, finchè non è arrivata sullo spartitraffico ed è sparita velocemente, a sinistra verso il piazzale.Non riuscivo quasi a camminare, ma sapevo che dovevo camminare, che se rimanevo lì era finita, e mentre mi trascinavo per la campagna per raggiungere una strada laterale, pensavo che in fondo era stata stupida ad andarsene, che aveva avuto troppa paura, che, ridotto com’ero, avrebbe potuto prendermi a calci fino a farmi svenire, a lasciarmi a terra mezzo morto fino all’arrivo della polizia.La polizia. Sentivo che Sonia l’avrebbe chiamata, che era scatenata, la vedevo già nella cabina telefonica, sul piazzale pullman, frugare ancora nella sua piccola borsetta, cercare un gettone, comporre il 113, gridare.Ho corso per la strada, ma nella direzione opposta, poi più avanti, come un miraggio irraggiungibile, ho visto un autobus arrivare e come in un rifugio ci sono salito sopra, lasciandomi cadere su uno dei sedili e sentendomi finalmente più tranquillo. Mentre l’autobus si allontanava sulla Tuscolana ho chiuso gli occhi e ho rivisto Sonia, la sua faccia stravolta, i suoi occhi stretti a fessura, l’ho sentita urlare; “Porco, sei tu. E’ lui arrestatelo!”.
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