Finalmente anche quel lunghissimo venerdì di quella devastante settimana stava per finire. Erano le undici e mezza di sera circa e la cena aziendale volgeva ormai al termine. Stavo tra i miei colleghi e con loro chiacchieravo e ridevo fingendo un po’ di interesse per le stronzate che dicevano, quando l’unica cosa che veramente desiderassi era tornare a casa da mia moglie Laura. Sulla lunga tavolata ci si era divisi, forse senza essercene accorti, in crocchi ognuno dei quali appartenenti al medesimo ufficio. Io avevo tutt’attorno l’ufficio export, di fianco c’era l’ufficio vendite Italia, più in là il reparto programmatori ed in fondo i pezzi grossi: Noverati, Tondi, quel gran figlio di . . . di Massimo Orinelli, responsabile dell’ufficio personale. Ero in azienda da quasi tre settimane e già quel bastardo aveva minacciato di farmi licenziare due volte. Per fortuna era intervenuta entrambe le volte la moglie del fondatore della ICP s.p.a.: la nordica (come era soprannominata) Jennifer Champ, dottoressa Jennifer Champ. Essendo inglese lavorava come area export manager per i paesi anglofoni ed era responsabile vendite per l’intero mercato estero, vale a dire l’ottanta per cento dell’intero fatturato aziendale. Io ero ancora in prova, una cazzata e avrebbero potuto mandarmi a quel paese senza che io potessi dire -a-. In realtà di cazzate ne avevo già fatte ma la Champ evidentemente credeva in me, visto che mi aveva difeso (o non aveva dato peso alle parole di Orinelli). Strano a dirsi, visto che quando la incrociavo nei corridoi, ed io le sorridevo mellifluo per accattivarmi le simpatie del mio superiore, lei si accorgeva appena di me, mentre alta slanciata diafana e sempre elegantissima sfilava via veloce. Molto probabilmente le importava di più dare contro a quel leccapiedi di Orinelli piuttosto che favorire me. Stava seduta anche lei là tra i pezzi grossi, in funzione di leader supremo, visto che suo marito, Ing. Guido Pinaroli, era in Canada per affari (in verità sembrava più probabile che stesse provando le sue nuove mazze da golf nel nuovissimo golf club di Toronto). Per conto mio cercavo di rigare il più dritto possibile, con il mutuo da pagare, una famiglia da mantenere, e Laura che ora voleva pure avere un bambino. Avevo solo ventotto anni, una laurea fresca fresca, e già mi ero incastrato in un matrimonio, con casa nuova, macchina e cane. Non che mi lamentassi, per carità, ma ci avevo messo un anno a trovare un buon lavoro e non potevo permettermi di perderlo, non ero più solo, avevo delle responsabilità! Finalmente ci si stava alzando, la settimana era finita, mi attendeva un week end tra le amorevoli braccia della mia amata mogliettina. Nell’uscire tra una chiacchera e l’altra mi ritrovai fianco a fianco con la “nordica”. Spiccava tra le altre donne per l’altezza, il buon gusto nel vestire e senz’altro per avvenenza. • Cenisi?- mi chiamò con quella sua inflessione straniera molto accattivante e con il consueto tono basso e discreto -Mi scusi Cenisi, so che lei abita dalle parti di Roviglio, per cui credo che debba passare vicino a dove abito io, non è vero?- “Cazzo” pensai, “questa vuole un passaggio, la giornata non è ancora finita”: -certamente dottoressa, ha bisogno di un passaggio?- tra lei e suo marito avevano quattro macchine, possibile che avesse proprio bisogno di uno strappo?! Tra tutti poi proprio a me doveva toccare? • Effettivamente, se per lei non è un problema, avrei proprio bisogno di essere accompagnata a casa, sa sta mattina sono venuta con mio marito, ed ora sono rimasta a piedi.- Beh glielo dovevo, mi aveva “parato il culo” più di una volta, ed in fondo non era affatto una brutta compagnia, anzi era proprio ciò che in genere viene definita una “sventola”. In verità a me piacciono donne con più curve, con un po’ di carne attaccata, era forse troppo distaccata per i miei gusti ma non si poteva mancare di ammettere che fosse eccezionalmente bella. L’unico vero guaio stava nel fatto che si trattava di un mio superiore; avrei dovuto portare addosso ancora per un po’ la maschera dell’impiegato che vive per il proprio lavoro e che ne è appassionato ed entusiasta. • Ma si figuri, dottoressa Champ, nessunissimo problema- Alcuni dei miei colleghi mi fecero un sorrisino un po’ tra il “per fortuna è toccata a te” ed il “caspita sei entrato subito nelle simpatie del capo”. In macchina ero un po’ impacciato, non sapevo di cosa avrei dovuto parlare, inoltre per superare indenne la noiosissima serata avevo un po’ ecceduto nel bere (tanto offriva la ditta) ed avevo quindi paura di fare qualche brutta figura, di dire qualcosa che non andava. Jennifer metteva in naturale soggezione chiunque avesse a che fare con lei, in più io mi vergognavo un po’ per i macelli che avevo combinato in ufficio, ma su cui la Champ era così elegantemente passata sopra. Jennifer Champ era una donna intelligente, colta e distintamente raffinata. Nulla era lasciato al caso nel suo aspetto, sempre tiratissima, piacevole in quei modi regali. Non mi sarei stupito se avesse avuto origini nobili. Portava i capelli rossi e mossi sempre raccolti in uno chignon. Risaltava così quel chiaro visino luminoso ed appuntito che nei mesi estivi doveva, immaginai, velarsi di lentiggini. Il naso perfetto, piccolo e lievemente all’insù ricordava un poco quello di una diva di Holliwood. Le labbra sottili ma ben delineate davano un tocco di colore caldo a quel viso altrimenti glaciale ma eccezionalmente attraente. Il collo sottile sfumava poi nei suoi costosi tailleur scuri impeccabili ed inevitabilmente firmati che con ogni certezza celavano un corpo snello ed atletico: da indossatrice. Mi sorrise: -Bella canzone- disse indicando l’autoradio. In realtà mi resi conto solo in quel momento che stava suonando ‘Fuck the people’ dei Kills. Generalmente non si presta attenzione alle parole delle canzoni straniere mentre si ascoltano (a dire la verita spesso non si capisce nemmeno cosa dicano) ma questo non vale per chi quella lingua straniera la parla da quando è nato. Così mi accorsi lentamente che in realtà quella frase così come il sorriso dovevano essere ironici, il titolo ‘Fuck the people’ era solo la ciliegina sulla torta tra le volgarità della canzone. • Sì beh non è semplice fortuna, diciamo che ho appositamente cercato questo brano per fare bella figura . . .- Abbozzai un sorriso, era andata? Ero stato simpatico? Lei annuì e strizzò ancora di più gli occhi ridendo, mostrando un’espressione affascinante e seducente. Il ghiaccio era rotto. • So che non sarebbe bello parlare di lavoro, ma sa Cenisi, il dottor Orinelli è veramente una persona spiacevole. Non deve di certo prendersela, tutti sbagliano in principio, ed io sento che la ICP può fidarsi di lei. Noi crediamo molto nelle sue capacità e se avrà un po’ di pazienza, vedrà che sarà una passeggiata per lei lavorare con noi. Io in modo particolare tengo molto ai rapporti personali: una buona squadra vince solo se c’è un gruppo affiatato. Questo me lo ha insegnato mio padre. Sa egli allena, oh my dear, allenava una squadra di rugby. In realtà ormai è in pensione da qualche anno. Questo mi fa pensare a due cose, sa?- Chi se lo aspettava, era una chiacchierona e sembrava pure simpatica, poi mi aveva ben disposto dichiarandomi che si fidavano di me e delle mie capacità. • Quali cose dottoressa?- • La prima e che in Italia purtroppo mi duole constatare, che il rugby non è molto conosciuto: ciò è spiacevole! Essendo codesto uno degli sport che a mio avviso sollecita maggiormente la nobiltà d’animo ed incrementa lo spirito di gruppo.- Usava insoliti vocaboli, sembrava che stesse leggendo da un libro, ma le parole uscivano fluide, morbide, come avvolte in una fascinosa cantilena piacevole da sentire. Sembrava dolce e gentile e ciò la rendeva ancora più attraente, ancor di più ora che il suo delicato profumo fresco di muschio bianco stava sollecitando amabilmente i miei sensi. • Sì in effetti non è uno sport che va per la maggiore. . . da noi si può scegliere tra il calcio, ehm . . . il calcio e . . . beh naturalmente il calcio! Lo conosce? Non è uno sport molto giocato nel mondo, ma sa. . . a noi piace.- Stavo esagerando? Ero troppo brillante? Mannaggia a quel. . . quei bicchieri di troppo. Lei però sembrava a suo agio ed anch’io iniziavo sorprendentemente a ritrovarmici. Sembrò accogliere la mia frase di buon grado, la discussione stava pacatamente entrando in un campo più casual. • Well, non deve altresì dimenticare che quel misconosciuto sport. . . come ha detto che si chiama?- -Calcio- Le feci da spalla -Già calcio, lo inventammo noi. Senza per altro aver mai provato l’ebbrezza di vincere più di un unico mondiale- Risi, più per circostanza che per altro ed aggiunsi: • Accennava prima a due cose che le vengono in mente pensando a suo padre che era allenatore di rugby- • Ah già, quasi non rammentavo più, beh la seconda è che visto che mio padre è andato in pensione significa che io sono diventata vecchia.- Non potevo credere che lo pensasse davvero, certo aveva qualche anno in più di me, probabilmente mostrava meno degli anni che effettivamente aveva, ma assolutamente quando la si guardava in quei meravigliosi occhi chiari così penetranti e sensuali non si poteva certo pensare che fosse vecchia. Era una ragazza, una ragazza spettacolarmente attraente, una di quelle che ti aspetteresti di vedere sulla prima pagina di una rivista. • Non può pensarlo davvero- palesai il mio pensiero -La ringrazio Signor Cenisi, sono grandemente lusingata, lo prenderò senz’altro come un complimento- Proseguimmo a parlare del più e del meno per il resto del viaggio, finchè giungemmo presso casa Pinaroli-Champ. Non so perché, ma mi aspettavo una mega villa. Invece mi trovai nei pressi di un condominio, certo elegante lussuoso e con parco annesso, ma pur sempre un palazzo. • Sale per il bicchiere della staffa Cenisi?- Ci stava provando? No era impossibile, era semplicemente gentile. • No grazie dottoressa, sono stanco e tornerei volentieri a casa- -Mi lascia salire a casa da sola facendomi bere tutta soletta l’ultimo bicchiere?- disse lei guardandomi un po’ autoritariamente. Non avevo scuse, cosa potevo dirle -Grazie se crede nelle mie capacità, è stata molto gentile a pararmi per ben due volte con Orinelli, è davvero una persona simpatica, ma ora si tolga dai maroni-? La buona educazione mi spinse ad accettare. Lei sembrò molto compiaciuta che io avessi cambiato idea. Forse ci stava provando davvero, forse le piacevo. In realtà però era più una orgogliosa speranza che una certezza. Amavo mia moglie, molto profondamente, e di certo non l’avrei tradita, ma mi avrebbe fatto piacere sentirmi desiderato. Prendemmo l’ascensore; davanti ad esso la portineria del custode era vuota. L’ambiente nell’elevatore era piccolo ma lussuoso. Mi sentivo fuori dal mio ambiente naturale, quasi spaesato in quel contesto ridondante di ricchezza. Lì fermi in quella cabina lussuosa. Di fianco a me Jennifer, il mio superiore, profumata, bella, intelligente, impeccabile. Era estremamente alta per essere una donna, mi superava di un paio di centimetri. L’aria era colma di quel suo profumo tanto eccitante che già avevo intuito durante il viaggio in auto, ma che adesso, da quando mi aveva quasi sfiorato per pigiare il pulsante numero cinque sul quadro comandi, non smetteva di torturarmi piacevolmente l’olfatto. Era fresco, pulito, ingenuo, una essenza delicata ma così complicatamente elaborata, mi eccitava e mi straziava. Se fosse stata mia moglie l’avrei certamente abbracciata e baciata e odorata. Ma lei era invece la padrona dell’azienda dove lavoravo, ed in un certo senso possedeva il mio lavoro, parte del mio tempo, parte della mia vita. Il silenzio regnò per tutta la durata dell’ascesa al quinto piano. Ero nervoso, cercavo di pensare a qualcosa da dire, ma nulla di intelligente sembrava passare in quel momento per la mia testa. La guardavo, abbozzavo un sorriso, mi dondolavo, ero visibilmente agitato. Lei invece sembrava calma, sicura di se, per nulla toccata da quei momenti di silenzio, completamente a proprio agio abituata ad avere a che fare con gente che la rispettava e quasi la temeva, abituata ad avere a che fare con l’autorità. Io facevo fatica ad organizzare la mia vita per giungere alla fine del mese, incasinato tra bollette da pagare, mutuo, relazioni di coppia, lavoro e sport. Lei mandava avanti con polso e giustizia un’azienda con un fatturato annuo da capogiro, dava da lavorare a centinaia di persone ed ora stava lì di fianco a me più calma e più rilassata di me. Mi guardò e mi sorrise attraverso lo specchio (anche lei in fondo era umana). Un piccolo ciuffo di capelli si era ribellato all’austera acconciatura ed ora le accarezzava amorevolmente la fronte. Con la forte ma snella mano si portò quella ciocca dietro l’orecchio. La candida camicia di seta aveva strusciato sul longilineo corpo di Jennifer, mentre lei alzava il braccio per accomodarsi i capelli, provocando un flebile fruscio che però in quell’attimo di silenzio aveva riempito l’intero vano. Dopo una intera giornata di lavoro e dopo la cena aziendale, quella camicia sembrava ancora fresca e soffice come appena stirata e di fatti ad ogni movimento si intuiva nell’etere una sensazione di pulito. Come era elegante la dottoressa Champ, in ogni movimento, anche il più comune. Abbassai lo sguardo e valutai le gambe esili e lunghe fasciate da collant scuri che rendevano ancora più snelle le caviglie già di per sé minute. Lei si accorse che le stavo guardando le gambe e si produsse in un nuovo sorriso. Tolsi subito lo sguardo ma ormai la figura era fatta. Volevo tornarmene a casa. Subito. Finalmente giungemmo al piano. Le porte si aprirono silenziosamente e ci affacciammo all’opulento pianerottolo con moquette al suolo e rivestimento in marmo alle pareti. • Venga Cenisi, sono sicura che a lei piace un buon whisky di malto scozzese- Non utilizzava mai chiamarmi con l’appellativo di “signor Cenisi” o “dottor Cenisi”, ma semplicemente: Cenisi. Io ero ossequioso, non mancavo mai di chiamarla dottoressa. Eppure si rivolgeva ad altri utilizzando se non un titolo per lo meno precedendo il nome con un “signor” o “signora”. Con me no. Mi ero accorto solo in quel momento che questo non mi andava proprio a genio. Dava l’idea che volesse minimizzarmi, farmi sembrare un suo “sgobbino”. Non era educato questo comportamento, come se lei non vedesse in me una persona, ma solo un suo lavorante. Forse però erano solo seghe mentali quelle che mi stavo facendo, dovute al semplice fatto che effettivamente mi sentivo inferiore a Jennifer. Inferiore per intelligenza, bellezza, altezza, rango, ricchezza, eleganza. . . tutto. • Non mi dica che preferisce quegli spregevoli blended d’oltre oceano?- Rientrai in me dai miei oziosi pensieri: -Oh beh in realtà dottoressa, non conosco la differenza, per me un whisky vale l’altro.- • Devo assolutamente farle cambiare idea, Cenisi, non è possibile che possa indifferentemente bere uno scotch o un bourbon e non notare la differenza. Di classe se non d’altro.- Disse questo mentre estraeva un mazzo di chiavi dalla borsa ed apriva la propria porta in mogano lavorato. Mi fece entrare e mentre stava per chiudere la porta prese dentro, facendolo cadere, un vaso (non molto di classe a mio parere) cui lei doveva tenere parecchio, perché nel cercare di prenderlo si produsse in uno straziante urlo che probabilmente svegliò l’intero vicinato. Vicinato che se non era ancora stato svegliato dallo strillo lo era stato certamente dal suono del vaso in frantumi e dal botto che fece la massiccia porta, che si chiuse sbattendo violentemente. • Mi scusi, sono desolata- si giustificò Jennifer -Si tratta. . . si trattava di un vaso a cui tengo. . . tenevo moltissimo. Ormai è andato- • Non si preoccupi per me- cercai di rassicurarla -più che altro mi spiace per il suo vaso- “e per il sonno dei suoi vicini, che avranno pensato ad un attacco terroristico di Bin Laden stesso!” Mi fece sedere sul divano e mi portò l’whisky mentre me ne cantava le proprietà e la sublime qualità. Anche lei ne stava bevendo, ma il suo doveva essere di una qualità differente, perché di un colore poco più scuro. Cercai di berlo il più in fretta possibile, per tornarmene a casa, mentre lei si era seduta di fianco a me. Non era più composta come al solito, sembrava ora tra le mura domestiche, più espansiva, meno rigida sul portamento, più comoda. Si tolse anche le scarpe e rannicchiò le gambe sul divano. Era proprio affascinante, rischiava proprio di piacermi, di piacermi sul serio. Iniziavo a desiderarla e la ascoltavo affascinato mentre le osservavo le labbra muoversi, le guardavo i movimenti flessuosi e morbidi e sussultavo non appena la sua pelle sfiorava la mia. Anche lei sembrava un poco eccitata dalla mia vicinanza e mi gurdava con occhi lucidi e fatali, mentre cercava appositamente di sfiorarmi per avere un piccolo istantaneo contatto con me. “Sono sposato e amo Laura” ripetevo come un mantra nella mia testa. Non potevo tradire mia moglie, la amavo e stimavo troppo! Forse lei si accorse di questa mia reticenza e portò il discorso su un nuovo favoloso whisky che doveva assolutamente farmi provare. Finito il primo bicchiere, andò a prendermene un altro di questa nuova qualità. Pensavo proprio che ci stesse provando, ma mi sembrava tutto così irreale. Dopotutto perché mai proprio io? No, più probabilmente, lei era una folle bevitrice di scotch, ed io con il cervello ormai offuscato dai fumi dell’alcol, mi stavo inventando delle storie inesistenti. Mi portò anche il secondo bicchiere ed alla fine di questo, mi sentivo decisamente brillo. Lei era di nuovo vicino a me, sempre più vicina, le luci erano offuscate, il suo parlare, suadente e dolce, il tono era pacato, rassicurante, era bella seducente, non smetteva di guardarmi negli occhi. Cercava in me la sicurezza che io fossi ormai perso in lei, ed io lo ero. Ero bruciato, coinvolto appassionato, ammaliato, deliziato, sconvolto e sedotto da quella inebriante donna, che si faceva sempre più vicina. Sapevo che lei avrebbe voluto baciarmi ed io lo desideravo più di ogni altra cosa. Mi si avvicinò mi lambì il braccio con le sue dita appena più fredde di me, mi sentii fremere dalla voglia, dal desiderio di lei. Mi prese la mano, e smise di parlare. Ci guardammo per qualche istante, mentre lei si portava la mia mano al viso e poi la fece scendere al collo in una carezza. Si mosse per avvicinare le sue deliziose labbra alle mie, io non avrei voluto, avrei dovuto non volere, ma dentro tra la paura e la colpa affiorava sempre più devastantemente il desiderio di baciarla e spegnere quel fuoco che mi attanagliava il cuore tremante di spasmi. Ci baciammo. Sentii il sapore del tè tra le morbide sue labbra e la calda lingua. Lei non aveva bevuto whisky! Conscio del fatto che avesse voluto ubriacarmi per farmi diventare una preda più facile mi eccitai ancora di più e gustai a fondo il sapore di quella venere adescatrice e la assaporai con ogni mio senso. Sentii in quel momento il rumore simile ad uno scatto fotografico, mi volsi e vidi che lei teneva con una mano un cellulare con camera puntato su di noi. Scattò di nuovo, quando pesò con l’altro suo braccio sul mio e stringendomi la mano mi fece strappare la sua costosa camicetta. Se nella prima foto ci stavamo solo baciando, in questa l’ambiguità era elevata e poteva sembrare che volessi usare violenza sulla dottoressa Champ. Per un attimo rinvenni in me -Ma che fai? Io me ne vado!- Feci per alzarmi, ma lei abbandonò il cellulare e mi pregò -No la prego, la prego resti!- era dolce e mi abbracciava, mi voleva. Disse un ultimo ti prego, ma questa volta più profondo, mentre avvicinava il suo viso dallo sguardo profondo e compiacente e con la sua mano premeva sul mio cavallo. Finimmo in camera lasciando una scia di vestiti dal divano in sala, fino al letto. Ero confuso già mi sentivo colpevole, ma l’alcol e l’eccitazione avevano ormai preso il sopravvento. Tentai un ultimo -Non dovrei, sono sposato. . .- Ma lei mi buttò sul letto dicendomi -Se vule può andare. . . mi dia solo un altro bacio, me ne ha dati tanti. . . poi gliene do uno io, provi ad immaginare dove?- Ero fuori di me dal desiderio e mi lasciai completamente andare al mio istinto lussurioso. Durante “quell’ultimo bacio” lei aprì il cassetto del comodino e prese delle manette, come nei migliori sogni erotici di ogni uomo. • Che fai?- le chiesi • Lasci fare a me, vedrà che bel giochino che facciamo, Cenisi- Non aveva ancora smesso di darmi del lei. Mi ammanettò braccia e gambe. Ero nudo come un verme e completamente esposto le dissi: • Non ti sembra il caso di darci del tu?- e sorrisi • Direi che non è proprio il caso, Cenisi! Anzi la prego di chiamarmi signora Champ!- Era matta? Ma che cazzo le girava nel cervello? • Allora senta Signora Champ, forse è il caso che mi liberi, che dimentichiamo tutto questo e che me ne vada- era tornata in me uno sprazzo di lucidità e riprendevo a sentirmi colpevole nei confronti di Laura, l’unica donna che amavo, la donna che avevo fatto mia moglie.Lei non mi rispose e lasciò la stanza. Tornò con il cellulare in mano e mi mostrò le foto scattate. Nella prima si vedeva un uomo (io) che baciava una donna (lei) la quale sembrava non volesse. La seconda inquadrava lo stesso uomo strappare, la costosa camicia della stessa donna, mentre guarda arrabbiato e sorpreso verso la camera. -Vede, Cenisi, quando siamo rientrati a casa tutti su questo piano hanno sentito me gridare e la porta sbattere. Inoltre possiedo queste due incontrovertibili fotografie. Lei è ora incatenato e nulla può fare per liberarsi. Tuttavia se si comporterà male io la farò licenziare e la accuserò in tribunale per tentate violenze sessuali e scommetto che anche sua moglie gradirà sapere come mai ci sono quelle foto e come mai ha questi graffi sul petto! Non metta alla prova la bravura dei miei avvocati. Lei ne ha già uno? Vuole che gliene consigli uno forse?- • Quali graffi?- chiesi stupidamente • Questi- ribatté prontamente lei provocandomeli in quel momento. • Stronza!!- urlai • Ah ah, Cenisi, ricordi che deve darmi del lei! La prossima volta che se ne scorderà, verrà punito!- Mi guardava puntandomi il dito. -Non provi mai più ad insultarmi, se non vuole fare i conti con i miei avvocati! Lei ha bevuto, si faceva le canne nei centri sociali fino all’anno scorso, ed una volta è stato schedato! Io mando avanti un’azienda quotata in borsa, ho sempre rispettato la legge, sono composta ed irreprensibile e non ho mai dato scandalo. A chi crede che daranno ragione?- • Come fa a sapere che sono stato schedato!- • Sono il suo datore di lavoro, ricorda?- • Non mi metteranno di certo in galera perché mi facevo le canne!- continuai ma senza entusiasmo. Ero fottuto. Mi teneva in pugno, tutto mi era avverso e con la mente obnubilata dal vino durante la cena e da quei cazzo di whisky dopo, non riuscivo a ragionare bene. Lei intanto se ne andò dalla stanza. Io cercai per un po’ di liberarmi, ma dopo un po’ mi rassegnai e rimasi ad aspettare inerme il mio fututro. Tornò dopo circa una decina di minuti. Stava fumando, portava ancora la gonna e le calze, ma sopra aveva solo il reggiseno. Aveva un rasoio in mano, uno di quei usa e getta per la depilazione femminile. • Cenisi! Ora fermo!- mi ordinò. Iniziò a radermi le gambe a secco, dagli stinchi in su. • No, ti prego!- implorai. Lei si arrestò un attimo, mi gurdò dritto negli occhi con uno sguardo gelido e crudele. Sprezzante mi ricordò: • Non. Mi. Dia. Mai! Più. Del. Tu!- Dopo aver detto questo mi fece un taglio sulla gamba • E’ chiaro ora!?- e diede un tiro alla sigaretta. Non risposi, così mi ripuntò la lama come se volesse tagliarmi nuovamente e ripeté: • E’ chiaro ora!?- e mi sbuffò il fumo addosso. • Sì, sì è chiaro- intervenni subito, non era piacevole essere tagliuzzati. • E’ chiaro. . .cosa?- continuò come per spronarmi a terminare la frase che secondo Jennifer non era stata completata. • E’ chiaro che non devo darle del tu- conclusi. -E come deve chiamarmi?- Riprese intanto a radermi. -La devo chiamare Signora Champ- -Bravo, vede che quando si applica, anche lei può farcela?- mi prese in giro -in realtà può anche chiamarmi solo signora, o dottoressa o. . . padrona, se lo desidera.- Era ufficiale, Jennifer Champ era completamente folle. Mi rasò per bene entrambe le gambe che ora erano lisce ed arrossate, poi passò alla zona del pube, e pregai che non facesse errori. Non ne fece ed ora ero completamente nudo e privo di peli dalla vita in giù. Appoggiò in parte il rasoio dicendomi: • Questo lo teniamo qui per la parte dietro, non si preoccupi Cenisi- e mi abbandonò di nuovo per fare ritorno con un frustino nero piuttosto rigido. Sembrava fosse uno di quelli utilizzati dai fantini. Era lungo circa quaranta centimetri ed aveva all’estremità una specie di manina in cuoio larga due o tre centimetri. Non aveva più la gonna e spenta la sigaretta nel portacenere si tolse i collant lì di fronte a me. Era incredibilmente eccitante, sapeva di esserlo e se la prese comoda. Infine si tolse quelle celestiali mutandine, mostrando un piccolo triangolino di peli curati e rasati. Si sedette sopra di me con la propria fessura ad alcuni centimetri dal mio pene spoglio. Allungò le gambe sul mio busto e portò i piedi al mio volto. • Se non vuole perdere il posto, mio caro Cenisi, credo che debba leccare i piedi al proprio superiore- ironizzò. Mi diede una frustata sull’addome, una frustata forte ed energica, che mi riempì di dolore e rabbia. • Forza!- fece lei un po’ spazientita. Così presi a leccarle i piedi. Aveva passato l’intera giornata in ufficio, aveva camminato, aveva cenato ed ora stava facendosi leccare quei pedi stanchi da me. Lei sembrava divertirsi a guardarmi piuttosto che sentire la mia lingua su di se. In realtà però, benché un minimo quei piedi odorassero, tale odore non era fastidioso, anzi mi accorgevo che stranamente appariva piacevole al mio olfatto. Il cazzo mi pulsò. • Visto che le piace leccare i piedi ai suoi superiori?- accortasi del sussulto del pene, continuo divertita -Farà carriera, così Cenisi- Mi fece entrare le dita in bocca. • suck- mi disse incitandomi con un lieve colpo di frusta sul pene, che sfiorava la sua vagina. Me la immaginavo calda ed accogliente, bagnata e morbida, liscia e lussuriosa. Io le succhiai quelle meravigliose dita profumate. Iniziava a piacermi quel gioco. • Well- fece d’un tratto lei alzandosi -Non sarà mica un ‘leccaculo’ oltre che un viscido ‘leccapiedi’ non è vero Cenisi?- Mi guardò dilettata mentre si percuoteva il palmo della mano con il frustino. • Vuole dirmi che leccherebbe il culo del suo superiore, solo per fare carriera?- Mi diede un forte colpo di frusta intimandomi: • Risponda!- • No, no!- cercai di compiacerla. • No, no, cosa!?- Domandò lei innervosita, mentre mi vergava con forza -deve avere un po’ di rispetto con la sua padrona!- • No signora, no signora, no dottoressa Champ- feci io cercando di farla smettere. Le frustate erano parecchio dolorose e lasciavano segni rossi sul mio corpo. • Brutto ‘leccaculo’ che non è altro- disse mentre venne a sedersi sulla mia faccia. Si tirò un poco su e messomi il proprio sfintere a qualche centimetro dalla bocca continuò -allora forza, lecchi pure, vediamo se farà carriera- • No!- ribattei deciso -questo no!- mi diede un’altra frustata e mi ricordò che lei aveva in mano il mio futuro lavorativo, familiare e la capacità di mandarmi in prigione. Così alzai la testa quel poco che serviva per far raggiungere la mia lingua all’ano di Jennifer e leccai. Leccai il buco del culo della mia ‘padrona’ mentre lei muoveva il bacino avanti e in dietro. • Faster!- mi intimò, voleva che andassi più veloce con la lingua, e così feci. • Lecchi bene!- Cercai di fare del mio meglio sbavando sullo sfintere della dottoressa Champ, lappavo e ruotavo la lingua intorno a quel buchetto stretto e caldo, adulavo con la mia lingua il retto umido, tra quei glutei sodi e freschi. Di tanto in tanto prendevo nel mio passaggio ritmico anche la figa che bagnata e salata mi provocava un aumento di salivazione. Leccai quel così bel culo per almeno un quarto d’ora. Incredibilmente quella situazione di impotenza mi eccitava ed avevo il membro ormai completamente eretto. Mi si sedette letteralmente sulla faccia, per qualche attimo mi impedì di respirare, ma si rialzò subito. • Molto bravo, Cenisi, è veramente zelante nel proprio dovere- -Ora la gireremo, per raderla anche di dietro. E’ inutile che le ricordi che non dovrà ribellarsi, altrimenti. . .- Mi slegò le caviglie, una alla volta, mi fece incrociare le gambe e mi riammanettò. • Si giri- disse ora compiaciuta. Si vedeva che le piaceva avere il totale controllo su di me ed era soddisfatta nel vedermi ubbidire. Aveva un debole per il comando. Mi girai pancia sotto, così lei poté depilarmi anche dietro, dalle caviglie al sedere compreso. Mi sentivo imbarazzato e umiliato. Lei era al settimo cielo. Andò nuovamente via e mi lasciò lì in attesa. Tornò con dei vestiti intimi femminili, un paio di scarpe da donna ma di un numero più facilmente utile ad un uomo, e una nuova frusta: quello che credo si chiami gatto a nove code. • Ora ti metterai questo- Mi mostrò un reggiseno. -No, quello per favore no, ti prego, almeno quello!- implorai, ma invece di trovare la sua pietà, feci i conti con la propria rabbia: • Non deve mai più parlare se non interpellato, è chiaro!? E quando verrà interpellato dovrà rispondere in modo educato, ha capito!?- • Si signora- risposi accondiscendente. Mi slegò le braccia una per volta e mi fece infilare il reggiseno. Poi mi fece indossare delle calze autoreggenti nere e mi fece calzare quelle scarpe da donna. • Ma che bella signorina è diventata, Cenisi!- mi scherniva con disprezzo. • Ora facciamo un giochino, se risponderà sì alle mie domande prenderà solo una frustata, se risponderà no, ne prenderà tre. Si ricordi di essere educato, Cenisi!- • Vorrebbe un paio di frustate?- • No!- dichiarai subito • E’ proprio stupido- mi disse scotendo la testa -Io le due frustate gliele darò lo stesso, perché sono io che decido, tre frustate le prenderà perché ha detto ‘no’ e altre cinque perché mi ha mancato di rispetto!- • Ma non le ho mancato di rispetto!- mi lamentai • Se non risponde appellandosi a me come ‘signora’, ‘dottoressa’ o ‘padrona’ verrà considerato come mancanza di rispetto. Inoltre ora ha parlato senza essere stato interpellato e per di più non ho sentito né ‘signora’ né ‘dottoressa’ né ‘padrona’. Fanno quindi altre dieci frustate, che sommate a quelle di prima fanno. . . vediamo un po’ trenta.- • Fanno venti!- cercai pietosamente di correggerla. • Ed infatti sono trenta, ora che ha parlato- continuò ridendo. Trenta scudisciate sono qualcosa che non auguro a nessuno. Creano un dolore che attanaglia e brucia. Ero inerme sotto i colpi vibrati con crudele maestria dalla mia seviziatrice, e subivo quelle frustate vestito da donna, glabro, umiliato e del tutto impotente. Sentivo lei sbuffare ad ogni colpo e di tanto in tanto emetteva un gridolino acuto, come se godesse a vedermi in quella posizione a subire quelle angherie. Quando ebbe finito e la mia schiena pulsava per il patimento mi si rivolse un po’ affannata: • Vorrebbe una bella sculacciata, Cenisi?- Ormai avevo imparato • Sì, dottoressa Champ- Andò nuovamente via e tornò con una spece di racchetta di legno, a metà tra un tagliere ed un mestolo, con un manico ed una parte piatta con dei fori. Con se aveva delle catene ed un guinzaglio. Mi mise il guinzaglio e mise le catene al posto delle manette alle caviglie, così mi fece posizionare carponi, per sculacciarmi con la paletta in legno. • Ne vuole un’altra?- -Sì, signora- E mi sculacciò. Il rumore era sordo, ma non era molto doloroso. Più che altro trovavo questa pratica ancora più umiliante della precedente. • Vestito da donna, Cenisi, sembra proprio un gay. Lei è un gay Cenisi?- • No!- Risposi. Colto nuovamente in fallo mi presi altre 8 sculacciate • Lei è gay Cenisi?- Mi ridomandò • Sì, signora- Mi diede una sola sculacciata (come da patti). • Ne ero certa, solo un gay può vestirsi da donna! E godere mentre una vera donna lo frusta! Giusto Checca Cenisi?- • Sì signora- sbuffai rassegnato. • Bene, bene, allora brutto finocchio che non è altro, le do quello che va cercando. Non si muova!- Rimasi a gattoni, aspettando il suo ritorno. Quando tornò mi mise una benda sugli occhi. Sentii che stava mettendo qualcosa di pesante davanti a me sulla testata del letto, poi andò nuovamente via e quando tornò la sentii trafficare con delle cinghie e mi parse di udire il rumore tipico di quando si indossa un guanto in lattice. Poi silenzio. Si avvicinò a me da dietro e spalmò sul mio ano una pomata vischiosa, forse vaselina. • No, la prego dottoressa Champ, la supplico, non lo faccia- mi veniva da piangere, pensando a quello che molto probabilmente intendeva fare. Lei si limitava a dire: • Sssht, ssssht- • La prego mia padrona, la supplico- cercavo di compiacerla, ma probabilmente così la eccitavo ancora di più. Mi infilò il dito avvolto nel guanto fin dentro l’ano, poi riprese a parlare: • Bene Cenisi, so che aspettava con ansia che qualcuno glielo mettesse in culo. Non faccia finta di essere una verginella!- e mi appoggiò su una chiappa un qualcosa di duro e freddo Mi sdraiai sul letto sperando di renderle più difficile la penetrazione, con quell’affare. Lei mi tolse la benda e mi accorsi che di fronte a me stava uno specchio, e dietro stava Jessica Champ con un fallo Nero della lunghezza di circa quindici centimetri legato con delle cinghie alla vita. Mi tirò con il guinzaglio cercando di farmi alzare, ma io non mi alzavo. Mi frustò, con lo stesso guinzaglio, ma io non mi mossi. • Peggio per lei, brutto finocchio!- concluse lei, mentre puntò quel dildo al mio retto e si fece largo tra le mie viscere. Sentivo quel coso gelido e robusto fendermi. La sensazione era quella che si prova quando di solito lo stesso buco viene utilizzato nell’altro senso, ma questa volta anziché trovare il sollievo di liberarsi di un corpo estraneo, il corpo estraneo si faceva sempre più presente dentro di me. Capii che sarebbe stato meno doloroso se mi fossi messo a quattro zampe, e così feci. Mi penetrò lentamente, e così posizionatomi non fu molto doloroso, ma fu grandemente degradante. Una volta messo tutto dentro, Jennifer iniziò a stantuffare, come di solito ero abituato a fare io. Vedevo nello specchio la dottoressa impegnata ad incularmi, appagata dai versi che tentavo a stento di trattenere. Mi tirò con il guinzaglio, mentre mi trafiggeva ritmicamente. • Le piace? Do you like it?- iniziò a parlarmi in inglese, forse si stava eccitando e non controllava più se stessa così bene. • Mmmh, mmmh, mmmh- continuava ad uscirmi dalla bocca chiusa ad ogni sua botta. • Mmmmmmhuuu!- mi derise lei. • Take it so deep, take it!- Perlopiù tenevo la testa abbassata, ma di tanto in tanto guardavo nello specchio la mia datrice di lavoro mentre mi sodomizzava. Era divertita ed indaffarata. Prendevo quel dildo nel mio ano e sentivo, con disgusto di me, uno strano e nuovo piacere. Chissà cosa avrebbe potuto pensare mia moglie se mi avesse visto così: vestito da donna, a carponi, a farmi sodomizzare dal mio capoufficio. Dopo un tempo indefinito Jennifer smise. • Bene, Cenisi ora la gireremo- Slegò e rilegò una caviglia alla volta mentre mi metteva supino. La guardavo da sopra le mie braccia che stavano incrociate sul mio petto, sempre legate alla testata del letto. Le catene alle caviglie mi davano un po’ di agio, quel tanto che bastava per far si che Jennifer divaricandomi le gambe me le spostasse verso la mia fronte. • Bravo- mi disse e subito dopo riprese a sodomizzarmi. Questa volta però io la potevo vedere di fronte a me. Vedevo le mie gambe alzate ricoperte dalle calze autoreggenti, vedevo le scarpe da donna ai miei piedi e sussultavo ad ogni colpo che la mia padrona mi infliggeva guardandola negli occhi. • Può dirmi di smettere, sa Cenisi?- mi avvertì lei -La prego la smetta- supplicai tra gli ansimi che involontariamente mi facevano sobbalzare. Lei rise, della mia goffaggine. • E’ proprio pietoso sa Cenisi?- -Lo so- risposi -Le piace prenderlo in culo vero?- mi guardava divertita e appagata mentre me lo infilava, mi sbatteva, mi scopava. -Le piace sentire la stecca nel culo, vero? Do you like strap? Do you like to feel a big cock inside of you? You can’t say nothing to stop me. Non puoi fermarmi, perchè tu sei gay, te lo vedo in faccia che godi mentre ti scopo, guardami, guardami! Chi è la troia ora? Chi è?- • Rispondimi!- si arrabbiò -Chi è la troia che lo sta prendendo?- • Io- risposi succube e sottomesso. Mi scopò per un bel pezzo e la cosa terribile fu che presto nell’umiliazione che provavo, nel risentimento che percepivo, si faceva spazio dentro di me un senso di eccitamento e di piacere. Ero completamente passivo ed impotente, lì con le gambe alzate, mentre Jennifer me lo picchiava dentro. . Il piacere fu ancora più lampante quando la nordica prese a masturbarmi l’uccello con la sua mano guantata dal lattice. Se avesse continuato sarei certamente venuto, ma lei si interruppe, accaldata ed ansimante e visibilmente eccitata. Uscì da me e senza dirmi niente, come niente era la quantità di rispetto che aveva per me, uscì dalla stanza lasciandomi nuovamente solo e avvilito sul letto. Fece ritorno senza più quel dilo. Ne aveva un altro ora, più grosso e rosa. Anch’esso aveva delle cinghie, ma molto più corte. Questo fac-simile di cazzo era però cavo e presentava un foro sulla punta del prepuzio. • Ora mi farà divertire un po’ lei Cenisi- Mi legò quell’affare sulla faccia, in modo che il retro del dildo mi finì in bocca. In pratica tenevo trai denti quella specie di sigaro che era ulteriormente assicurato a me tramite le cinghie che si legavano sulla mia nuca. Io ero lì sdraiato, mentre lei iniziò a farsi penetrare da quel manico rosa lungo e largo. Jennifer stava sopra di me, e si masturbava sulla mia faccia con quell’arnese cui io ero legato. Andava su e giù e vedevo le sue chiappe allontanarsi e poi scendere fino a sbattere sulla mia fronte. Il naso mi finiva sul suo ano e presto in bocca avvertii il sapore della figa, grazie ai liquidi che lei stava versando nel dildo e attraverso esso nella mia cavità orale. Avvertivo tutto il peso di quel corpo esile e aggraziato, snello e sensuale, sentivo il piacere di lei attraverso i succhi della sua goduria. Captavo il calore ed il sudore tra le sue cosce ed i suoi glutei mentre sempre più assatanata si sbatteva sulla mia faccia. Ero eccitato, mi piaceva, ero elettrizzato da quella sensazione. Io non godevo direttamente ma solo attraverso di lei che invece provava il piacere di sentirsi penetrare con sotto un uomo completamente nelle sue mani: lei stava scopando con me, ma io potevo provare piacere solo se lei ne provava, perché non era mio il pene dentro il suo corpo. Mi sarei masturbato, infischiandomene della mortificazione del mio ego della sconfitta del mio io, mi sarei fatto una sega mentre la mia padrona si serviva di me, fregandomene di mia moglie che mi amava, lì vestito in quel modo grottesco provando piacere ad essere insultato e ridicolizzato e privato di ogni dignità dalla donna che io ora anelavo con ogni mio senso. Purtroppo però le mie mani erano legate. Presto la mia bocca fu colma della libidine che gocciolava calda e collosa dalla vagina famelica di Jennifer che finalmente ebbe un orgasmo. Rimase per un po’ lì accasciata sul mio viso, poi se ne andò. Udii il rumore dello scroscio della doccia, dopo breve, e capii che si stava lavando, mentre io stavo ancora lì legato con quel dildo in bocca. Di tanto in tanto sentivo ancora delle gocce di umore che mi percolavano sulla lingua, ed io gustavo appieno il sapore dell’appagamento della mia padrona. Quando tornò, bella come non mai, portava con se sulla pelle il profumo di un bagnoschiuma esotico. Stava a piedi nudi in un candido accappatoio, con i capelli sciolti e bagnati. Io ero tremante, scosso di voglia mista ad un sorta di timore di cui non conoscevo l’origine. Avevo ancora il mio membro in erezione. -Sapevo che le sarebbe piaciuto questo giochetto, Cenisi- spiegò Jennifer osservandomi il pene. Prese una chiavetta, mi aprì una manetta al polso e poi mi diede la chiave per potermi liberare del tutto. Si accese una sigaretta. Una volta toltomi il dildo dalla bocca impastata dei suoi sughi, mi soffermai ad osservarla, rapito dalla fulgida bellezza di Jennifer. Lei sorrise beffarda: -Si tolga quei vestiti ridicoli e se ne vada!- Ubbidii, ma una volta rimessi i miei soliti panni, che finalmente celavano il pube glabro, le gambe rasate ed il mio corpo segnato dalle vergate sofferte, mi resi conto che non avevo un posto dove andare. Era tardissimo, quasi le cinque di mattina. Mia moglie avrebbe voluto sapere dove fossi stato, avrebbe senz’altro visto i miei segni e la mancanza di peli. Cosa avrei potuto raccontare? Che ero stato forzato, ricattato, da una esile donna bellissima, potente e ricca a fare del sesso? Non era molto credibile. Non avrei mai potuto dirle che ero stato sodomizzato, la vergogna sarebbe stata troppa. Guardai Jennifer. Se mi fossi sottoposto ad un esame medico, certamente sarebbe venuto a galla che ero stato torturato contro il mio volere. Con ogni probabilità avrei vinto qualsiasi causa anche se la Champ avesse chiamato il più bravo avvocato del mondo per difendersi. Ma mia moglie avrebbe mai creduto? Con che faccia avrei dovuto presentarmi da lei? Come avrei potuto nasconderle che in fondo io avevo provato piacere? Sentivo ancora l’eccitazione addosso, il mio cazzo era duro, e pensavo a Jennifer come ad una ninfa seducente e splendida, non come ad un nemico. Mi accorsi che in realtà il problema forse era un altro: non desideravo più tornare a casa, punto. • Mi scusi . . .- iniziai, ma Jennifer mi interruppe: • Non si preoccupi, non è colpa sua, era la prima volta per lei e non sapeva come reagire, vedrà che la prossima, si divertirà di più, vedrà che non la licenzierò- Mi venne da ridere, non sapevo proprio a cosa si stesse riferendo la mia padrona: • Veramente, dottoressa Champ, volevo chiederle se potessi passare ciò che rimane della nottata qui a casa sua. . .- • Beh di là c’è la camera della servitù, ma la servitù è stata licenziata la settimana scorsa da mio marito, per cui. . . se vuole può dormire lì, ma. . .- • Ma?- chiesi • Ma non dorma sul letto, dorma per terra, altrimenti sarebbe troppo comodo, ed io non desidero che lei stia comodo- Io sorrisi ed ebbi un ulteriore sussulto al mio sesso • Si padrona- garantii servizievole. Uscii dalla camera da letto di Jennifer e la lasciai a dormire nella propria lussuosa camera da letto, dove le lenzuola di seta del suo caldo e comodo giaciglio avrebbero accarezzato la nuda pelle vellutata e profumata della mia dolce seviziatrice. Io mi sdraiai sul freddo pavimento ai piedi di quell’essenziale e sobrio letto nella stanza della servitù. Lì pensai a Jennifer, mi presi in mano l’uccello e mi masturbai rievocando nella mia mente il sapore della sua figa. Quasi subito spruzzai per terra la mia depravazione, mentre ansimavo animalescamente. Definitivamente appagato mi addormentai quasi istantaneamente, esausto e provato.
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