All’età di diciotto anni, a causa dell’eccessivo affetto di mio padre, il conte M., vivevo murato in un vecchio castello sulla costa bretone, in Francia, dove non frequentavo nessuno, a parte i miei precettori; ogni giorno mi venivano impartite severe lezioni, completate dalla obbligatoria lettura di decine di tediosi volumi. Sebbene fossi e sia indolente per natura, ero terribilmente annoiato dalla monotona routine della mia vita, ed ero ormai giunto al punto di credere che non sarei sopravvissuto a lungo se non avessi ricevuto visite, in quel vecchio, tetro castello. Una mattina, mentre ero intento ai miei studi, mi giunse all’orecchio, e fu una gradevole sorpresa, il rumore delle ruote di una carrozza sul selciato del cortile. Lasciai cadere il libro, e mi precipitai per le scale. Trovai mio padre sull’uscio, in compagnia di mio zio, il conte di C., e dei suoi figli che avevano pressocchè la mia stessa età. Nel corso della giornata, mio padre mi disse poi che stava per essere inviato in Russia come ambasciatore; mio zio e i cugini sarebbero rimasti al castello per un paio di settimane ancora, quindi sarebbero rientrati a Parigi e io avrei dovuto andare con loro, restando nella capitale per tutto il periodo dell’assenza dell’augusto genitore.. Il giorno dopo, questi, dopo avermi dato tanti buoni consigli, consegnato una borsina piena di monete d’oro e impartito la sua benedizione, si mise in viaggio per San Pietroburgo. I miei cugini, Raoul e Julien, erano come due giovani puledri, dotati di una vitalità ignota agli abitanti del piccolo, sonnacchioso villaggio in cui sorgeva il maniero dei miei avi. Non rispettavano niente e nessuno, e mi facevano partecipare a imprese e spedizioni di ogni genere, approfittando del fatto che il loro padre, che aveva da sbrigare certe faccende nella zona, non aveva il tempo di occuparsi di noi e di quello che facevamo, E devo dire che in me trovarono un allievo assai promettente, in tutto e per tutto degno di quegli scatenati maestri, Un giorno ero andato a cercare mio cugino Raoul nella sua stanza e, aprendo l’uscio, confesso senza bussare, rimasi esterefatto da ciò che vidi. Raoul giaceva sul letto sopra una nostra cameriera, Manette, una ragazza molto ben fatta e prosperosa, dalle guance rosse come mele e dai capelli biondi come il grano. Lui la stringeva selvaggiamente, e lei si teneva avvinghiata a lui, con le braccia attorno al collo e le bianche, morbide gambe incrociate sul dorso di lui. Dagli scuotimenti e dai movimenti dei loro corpi, compresi che si stavano divertendo e che quella ginnastica – – tale la chiamai nella mia innocenza – che era ancora totale, piaceva moltissimo a entrambi. E ne erano a tal punto presi, da non accorgersi nemmeno che ero entrato nella stanza. Sebbene, durante i tre giorni fino a quel momento passati con i cugini, questi con il loro linguaggio licenzioso avessero sradicato tutti i miei preconcetti circa le virtù delle donne (e devo dire che ero stato rigidissimamente educato, né mai mi era stato permesso di frequentare compagnie femminili nemmeno nel villaggio ai piedi del castello), rimasi talmente stupefatto dello spettacolo che si offriva ai miei occhi, che restai inchiodato sull’uscio a guardarli, finché Raoul non smontò dalla ragazza. Si alzò, continuando a volgermi la schiena, mentre Manette se ne stava ancora distesa sul letto, con gli occhi chiusi, gonne e sottoveste sollevate, le cosce divaricate e il petto ansimante. Avvertivo in me uno strano turbamento, non riuscivo a staccare lo sguardo da quel ventre bianco e rotondo, coperto, nella parte inferiore, da un folto cespuglio di peli biondi e ricciuti, e un po’ più giù scorsi ciò di cui avevo così spesso sentito parlare dai miei cugini, ma mai prima d’allora avevo visto: una fica tra i ciuffi di peli che spuntavano sul monte di Venere; una deliziosa fessura, tal mi parve, e devo dire che ne ero affascinato come un uccellino da un serpente. Vedevo due tumide labbra rosa, leggermente dischiuse, dalle quali colava lentamente della schiuma biancastra. Ero talmente confuso e sbalordito di ciò che avevo visto, a tal punto sconvolto dalle strane emozioni che in me si erano d’un tratto ridestate, che avanzai come un sonnambulo verso il letto. Appena mi vide e mi udì, Manette si cacciò sotto le coperte e le lenzuola, mentre Raoul mi venne incontro e, prendendomi per mano, mi condusse verso il letto chiedendomi: “Cugino Louis, che cosa hai visto? Da quanto tempo sei nella stanza?” Risposi che avevo assistito all’intera scena. Raoul allora tirò via le coperte mettendo a nudo la ragazza; si sedette sul letto, le circondò la vita con un braccio e disse: “Cugino Louis, tu non hai mai gustato i piaceri che si provano tra le braccia di una bella ragazza, e dunque non sai che cosa voglia dire resistere alla tentazione di approfittare di ogni opportunità e di ogni mezzo di cui si dispone per soddisfare i propri appetiti; e Manette, come vedi, è un ghiotto bocconcino. Ieri notte mi ha fatto l’onore di invitarmi nella sua stanza, e io questa sera non potevo non ricambiare la sua cortesia.” “Sì, è molto graziosa,” dovetti ammettere e, provando l’irresistibile desiderio di partecipare in qualche modo a quel piacere di cui parlava mio cugino, posai la mano sul ginocchio di Manette che adesso se ne stava seduta sul bordo del letto con gli indumenti che le coprivano appena le parti intime, lasciando scoperte a mezzo le cosce, e feci scivolare la mano più in su, incapace di resistere alla tentazione di toccare il villoso monte che sovrastava la deliziosa fessura. Raoul però mi fermò dicendo: “Scusami, cugino, ma almeno per il momento Manette è mia. Siccome però vedo che sei impaziente di essere iniziato ai misteri dell’amore, dopo penso che con l’aiuto di Manette potrai trovarti una compagnia per la notte. Che te ne sembra, Manette?” chiese rivolto a lei. “Ma certo,” rispose la ragazza alzandosi in piedi tutta sorridente. “Procureremo a monsieur Louis la mia sorellina Rose che, vi assicuro, è molto più bella di me e ha dei seni più grossi e più bianchi di questi miei,” soggiunse scoprendo ed esibendo due bei globi bianchi e tondi, che io divorai avidamente con gli occhi. “Sono sicura,” continuò, “che Rose vi piacerà, signorino Louis, e questa sera ve la porterò.” Ritirandomi presto in camera mia la sera, passai un’ora in una febbrile attesa, incerto se la manna promessami sarebbe o no piovuta dal cielo. Finalmente Manette bussò all’uscio ed entrò conducendo per mano la sorella. Rose era una ragazza bellissima e, non appena la porta fu chiusa, mi precipitai verso di lei e la condussi al divano dove le sedetti accanto. Le tolsi la spilla che tratteneva lo scialle e le scoprii il prosperoso petto e, stringendola tra le braccia, le coprii volto e spalle di baci ardenti. La mia timidezza di diciassettenne vergine se ne era andata completamente. Rose arrossì deliziosamente e tentò di sottrarsi al mio abbraccio, e Manette intervenne dicendo: “Monsieur Louis, Rose non è mai stata con un uomo prima d ora, e come e ovvio e un poco all’ oscuro di certe faccende, ma è decisa a restare con voi, e quando sarete soli sono certa che troverete in lei tutto quanto desiderate, non è vero, sorellina?” “Oh, sì,” assicurò Rose, nascondendo il volto tra .i cuscini del divano. Manette disse che sarebbe andata a prendere del vino, perché il vino è un grande vivificatore dello spirito, e raccomandò a Rose e a me di bere copiosamente. Rientrò di lì a poco con un vassoio di dolci e una bottiglia di vino, e ci lasciò augurandoci una felice notte. Uscita Manette, chiusi a chiave l’uscio, poi feci accomodare Rose sul divanetto accanto al tavolo e, standole accanto, cercai di metterla a suo agio non prendendomi alcuna libertà finché non le ebbi fatto bere tre o quattro bicchieri di vino, e finalmente la naturale vivacità del suo animo cominciò a rivelarsi con un linguaggio libero e senza inibizioni. Allora l’abbracciai stringendomela al petto, e impressi calorosi baci sulle sue rosse labbra sensuali. Poi introdussi la mano nella scollatura, a sfiorare i capezzoli delle sue sode tette rotonde. Mi azzardai quindi a infilare la mano sotto la gonna, sollevandola fino alle ginocchia; e, carezzandole le belle gambe, feci scorrere la mano lungo le cosce levigate finché le dita non incontrarono il ciuffetto di peli serici che nascondeva l’ingresso della sua verginità. La ragazza oppose solo una resistenza doverosa, formale, lasciando tuttavia che la mia mano compisse il suo lavoro. E infatti, facendomi strada tra i serici riccioli, infilai la punta del dito tra le labbra titillandola dolcemente, e lei prese ad agitarsi sul divano. Nessuno mi aveva insegnato a farlo: evidentemente la provvida natura guidava il mio istinto. Non potevo resistere a lungo. Ero in fiamme. Il cuore mi batteva forte, le tempie mi pulsavano, il mio arnese dentro i calzoni premeva, deciso a erompere al più presto. Presi a spogliare Rose, strappandole quasi di dosso i vestiti per la fretta, e per farlo meglio la tirai in piedi, e continuai fino a lasciarla completamente nuda. Buon Dio! Quante bellezze, quali grazie, che seni deliziosi, piccoli, sodi, e tuttavia così rotondi e pieni! Li palpo, prendo i capezzoli in bocca, attraggo la ragazza a me fino a sentire il suo corpo nudo contro il mio, mi butto in ginocchio e dai seni scendo con la bocca lungo il ventre, soffermandomi sull’ombelico, fino alle labbra della piccola, sugosa e selvosa fessura. Ero in visibilio, bruciavo, impazzivo. In un batter d’occhio mi denudai a mia volta e, stringendo e sollevando la ragazza tremante, la portai sul letto. Le misi un cuscino sotto le natiche lisce e rotonde e, spalancatele le cosce, mi allungai su di lei. Con la punta delle dita schiusi le labbra un tantino restie – e in quella, ahimè, ahimè, tutto il mio ardore venne meno. Il mio uccello, che un istante prima era armato, pronto alla lotta, si ritrasse sotto i miei occhi, facendosi piccolo e rugoso come un fungo secco, con una goccia trasparente sulla cima. Me ne vergognai moltissimo anche perché vidi disegnarsi, sulle labbra di Rose, un lieve sorriso di scherno. Sarebbe stata cosa da umiliare qualsiasi uomo, ma in seguito venni a sapere che non è un evento tanto raro: capita spesso che l’emozione abbia la meglio sui nostri desideri e che ci renda letteralmente impotenti. Almeno momentaneamente. Perché il sorriso di Rose, che mi era sembrato di scherno, si trasformò in qualcosa d’altro, un sorriso di comprensione. E, anche lei guidata dalla provvida natura, allungò la mano morbida e delicata, mi sfiorò piano piano l’uccello e i testicoli, giocherellò con i miei peli, mi passò un dito nella fessura delle natiche, poi si chinò su di me e prese a dare dei colpetti di lingua a quel mio arnese traditore. E… miracolo! Eccolo raddrizzarsi, ecco la mia vergine verga diventare orgogliosamente dura, ecco Rose infilarsela tutta quanta in bocca. Poi si distese sulla schiena, allargò le cosce e, sempre tenendomi l’uccello in mano, sussurrò: “Entra, adesso.” Devo dire che la resistenza che incontrai – una resistenza puramente meccanica, dovuta al fatto che nessuno era mai penetrato in quella vagina vergine— fu notevole. Ma, spingendo con costanza e circospezione, riuscii a infilare la testa dell’uccello nell’umida cavità, provocando una smorfia e un gridolino di dolore da parte della mia amica. “Ti fa male?” le chiesi. E lei: “Sì, un pochino, ma è un dolore che riesco a sopportare. Mi piace….si… mi piace.” Rinfrancato, continuai a spingere, ma l’avanzata fu di poco conto: la resistenza di quella vagina mi respinse, e finii per uscirne. Inumidii allora il glande violaceo con la saliva e provai di nuovo ad entrare tra le labbra, accompagnato dalla mano abile di lei. Finalmente le prime difese caddero ed entrai per metà, ma ero eccitato a tal punto che le paratoie del serbatoio dell’amore cedettero, e io affondai dentro di lei in un delizioso trasporto, mentre lubrificavo la sua vagina lacerata e sanguinante con un autentico diluvio di sperma. La povera Rose sopportava molto eroicamente, stringendo i denti per soffocare le grida di dolore, con le mani stringendo il mio corpo contro il suo oppure accompagnando il mio dardo così da agevolarne l’introduzione nella sua vagina. Rimasi poi ansimante e gemente su Rose, senza uscire da lei, e la durezza del mio membro, che si era notevolmente attenuata, un po’ alla volta tornò con raddoppiato vigore, e io ricominciai a muovermi dentro di lei. Lo sperma che avevo spruzzato nella vagina aveva lubrificato l’angusto antro, rendendo più agevole il mio secondo assalto. Ricominciai le avide spinte e i feroci affondo, sentendo che a ogni colpo avanzavo, finché con un tremendo urto mi conficcai in lei fino alle palle. Tale fu il dolore di quell’estremo attentato alla sua virtù, che Rose non poté trattenere un grido straziante; era il segnale della vittoria finale, che io ignorai e che ebbe anzi l’effetto di accrescere il mio godimento, mentre mi seppellivo, se possibile, ancora più dentro le dolci e lascive pieghe della sua guaina vischiosa. Giacemmo per breve tempo uniti in un abbraccio, i nostri peli confusi. Coprivo di baci le labbra vermiglie e il volto rosso e bagnato delle lacrime che la fanciulla non riusciva a trattenere e che sgorgavano copiose dai suoi bellissimi occhi. Intanto, però, un sorriso d’amore cominciava a disegnarsi sul suo volto aggraziato, ed esso pareva cancellare tutti i segni del dolore sofferto. E siccome il mio uccello era tornato a indurirsi, mi sentii autorizzato a rinnovare la tenzone. Lentamente, tornai a metterglielo dentro, e sentii le morbide e umide piegoline della sua vagina stringersi e contrarsi sul mio glande; accelerai allora i movimenti e la frizione così provocata, unita allo sbatacchiare dei miei testicoli contro le sue natiche, evidentemente le riusciva tanto eccitante che Rose sprofondò in uno stato di estasi, mi strinse forte tra le braccia e, serrandomi tra le gambe, pagò all’uomo che l’aveva ferita il suo primo, vergine tributo, mentre io la ringraziavo con altri fiotti di bollente sperma spruzzati nei più profondi recessi della sua passera, e così raffreddando almeno in parte il fuoco che ardeva in noi. Tanto nuove, originali, squisitamente deliziose, tanto divine erano le sensazioni, tanto estatiche le gioie, che entrambi ci dimenavamo e torcevamo come serpenti, mentre Rose esclamava: “Oh, Dio! Mi piace da pazzi! Muoio! Oh, cielo! Che gioia, che piacere! Oh! Oh! Ah! Ah! Aaaah!” Poi entrambi cademmo in una sorta di sonnolenza. Ma ben presto ci riprendemmo dal delirio, dalla trance in cui eravamo annegati. Mi alzai, versai del vino, lo porsi a Rose e ne bevvi a mia volta un bicchiere, quindi impressi un dolce bacio sulle labbra della strapazzata fessura della fanciulla, esclamando: “cara, deliziosa, pelosa fichetta, da questo momento in poi tutta la mia vita, anima e corpo, sarà votata ad essa per sempre.” Trascorsi la notte con Rose in un continuo alternarsi di piaceri seguiti da pause di rilassamento, e forse anche di sonno; ripetutamente ci unimmo in amplessi, nuotando in un oceano di piaceri, e con tanto impeto partecipammo ai combattimenti che, a lungo andare la natura si esaurì e ci addormentammo l’uno tra le braccia dell’altra. La mattina, quando mi svegliai, Rose era seduta sul letto intenta a guardare con una strana espressione lo strumento, adesso rimpicciolito e contratto, che durante la notte aveva squarciato il velo della sua innocenza. Quando si accorse che la guardavo, si buttò tra le mie braccia nascondendo il volto sul mio petto. Rassicurandola con piccoli baci che le andavo spargendo sugli occhi, sulle guance, sul collo, glielo feci prendere in mano e cominciai a trastullarmi con i suoi seni, succhiandone i rosei capezzoli, mentre il tocco della sua mano riaccendeva in me il fuoco che ben presto mi travolse. Rose gioiva al vedere quella cosa piccola e ammosciata che teneva in mano diventare un magnifico battaglio lucido e liscio dalla grande testa rossa e calda per la gran quantità di sangue che vi era affluita. Decisi pertanto che doveva mietere il frutto del suo lavoro e accogliere nel suo magazzino la ricca messe d’amore che le spettava. La stesi delicatamente e, mettendole un cuscino sotto le sode mezze lune del culo, le feci divaricare le gambe al massimo, rivelando ai miei occhi bramosi le labbra spalancate della sua micia pronta a ricevere il delizioso bocconcino che, con la bava in punta, ergeva la testa contro il mio ventre. E tanto gloriosa era l’erezione che, nonostante gli assalti che la vagina aveva subito durante la notte, non riuscivo a entrare. Mi ritirai allora per inumidire la testa del mio coso strofinandogliela tra le labbra, dapprima agitandolo con la mia mano, in un movimento che fu quindi ripreso dalla sua, e finalmente la sua natura fu inumidlita al punto giusto e io potei spingermi lentamente dentro. Rose non si muoveva, giaceva tranquilla e silenziosa, ma due colpetti bastarono per eccitarla e scioglierla, e allora prese ad agitare le anche, a rabbrividire e a gemere, e ben presto entrambi giungemmo all’acme del piacere. Ci stavamo riposando da quell’ennesima fatica, quando sentimmo bussare all’uscio. Indossata una vestaglia, corsi ad aprire. Entrarono Raoul e Manette. Li condussi al letto e, tirando via le coperte, esibii loro Rose tutta in fiamme, più bella della sera prima in virtù delle fatiche cui si era sottoposta durante la notte. Richiamai la loro attenzione dicendo: “Guardate la sua sottoveste, guardate come è macchiata dal sugo e dalla marea cremisi fatti fluire questa notte ” Mio cugino Raoul si congratulò con me, si disse felicissimo di essere stato lo strumento che mi aveva procurato “una rosa deliziosa come Rose”, e lieto, soggiunse, di essere stato, in parte almeno, la causa della mia iniziazione ai misteri dell’ arte dell’amore, oltre che del fatto che avessi avuto una vergine per i miei primi, gioiosi combattimenti. Anche Manette si congratulò con la sorella. Era felice di sapere che aveva avuto un amante come monsieur Louis, e soggiunse: “Come sarete felici insieme, adesso che avete gustato le gioie che vengono dall’essere una tra le braccia dell’altro, sorseggiando piaceri di cui, sono certa, mai vi stancherete!” Io passavo adesso tutte le mie notti con Rose, a volte nella sua stanza, altre nella mia e, impaziente com’ero, non di rado mi recavo nella sua stanza anche durante il giorno, a trastullarmi con lei. Un giorno, io e Rose eravamo nella mia camera, lei distesa sul letto, con le gonne sollevate, mettendo in mostra tutte le sue bellezze segrete, io in ginocchio tra le sue gambe tenendo in mano il membro che, devo dire, è enorme e pochi uomini possono vantarne uno di dimensioni paragonabili al mio, apprestandomi ad infilarlo in quel caldo posticino, quando improvvisamente entrò Manette, evidentemente per riordinare la stanza. Avevo dimenticato di mettere il chiavistello. Manette vide il mio membro, restò a guardarlo a bocca aperta, ma poi si riscosse e, chiedendoci scusa, uscì. Il pomeriggio seguente, Manette venne in camera mia e mi chiese di seguirla nella sua. Qui giunti, mi disse: “Ho qualcosa da farvi vedere che vi piacerà e vi soddisferà molto più dì quanto potrebbe fare la vostra amante.” Mi disse poi di guardare fuori della finestra senza voltarmi, mentre lei preparava la sorpresa che aveva in animo, e per farlo andò dietro il letto le cui tendine erano tirate. Finalmente mi disse di girarmi, e vidi Manette di fronte a me completamente nuda. Si buttò tra le mie braccia, stringendomi forte, e mi condusse verso il letto sul quale sedette. Vidi allora ciò che voleva mostrarmi e, non essendo affatto restio ad attaccar battaglia, stando in piedi di fronte a lei mi sfilai giacca, panciotto e camicia, mentre lei mi abbassava i pantaloni e tirava fuori la mia arma già pronta. “Com’è grosso e com’è bello,” commentò. Lo prese delicatamente tra le labbra e lo succhiò ben bene, portandomi quasi al godimento. Poi, stendendosi sul letto mi tirò a sé. Un istante dopo, immergevo il mio pugnale in tutta la sua lunghezza nella squisita e morbida guaina creata appositamente per lui dalla natura. E, prima di lasciare il campo, aprii per due volte le paratie e versai in lei un flusso di ardente sperma, e Manette mi ricambiò emettendo la sua essenza d’amore in tale copia che le nostre cosce ne furono completamente irrorate. Da quel giorno, e fino a quando mio zio non lasciò il castello, io mi godetti Manette di giorno e Rose di notte. Alla fine della seconda settimana, mio zio annunciò che sarebbe partito per Parigi il giorno dopo, e mi disse di prepararmi ad andare con lui. Quando i miei cugini ed io lo sapemmo, decidemmo di sfruttare nel migliore dei modi possibile l’ultimo dei giorni rimastici, trascorrendolo con le rispettive amanti nel boschetto sulla sponda di un piccolo lago che faceva parte dei nostri terreni. Era una domenica mattina, e Raoul, io e Julien partimmo raggiungendo il punto prestabilito, dove le ragazze ci aspettavano. Perché erano tre; si deve infatti sapere che, mentre Raoul e io ce la spassavamo con Manette e Rose, Julien, lungi dal restare a bocca asciutta, si consolava tra le braccia di Marie, una delle lattaie del villaggio, una bruna alta, florida e molto avvenente, nella cui camera egli si recava di soppiatto ogni notte. Le tre ragazze erano arrivate, come ho detto, prima di noi, portando da mangiare e da bere. Mentre preparavano il pranzo, ci stendemmo sul verde manto erboso e poi, conversando piacevolmente, apprezzammo le leccornie che ci avevano preparato e, soddisfatto l’appetito, passammo ad altre attività, decisi a gustare altre buone cose, in quel momento non ancora visibili. Le facemmo sdraiare sul dorso, ma nonostante tutti i nostri tentativi non riuscimmo a sollevare una sola gonna tanto da dare un’occhiatina alle cosce, perché esse resistettero a tutti i nostri sforzi dicendo che non potevano acconsentire a fare certe cose in presenza di altri e che, se non ci fossimo comportati più correttamente, se ne sarebbero andate. Proposi allora di spogliarci e fare un bagno. “Noi resteremo con indosso la sola camicia,” spiegai, “e poi svestiremo voi e, a una parola data, getteremo tutti via l’ultimo indumento.” Ci furono obiezioni da parte delle ragazze, specialmente Marie che né Raoul né io avevamo mai vista prima d’allora, ma vincemmo le loro riserve e, spogliatici restando in camicia, ci avvicinammo alle rispettive amanti e cominciammo a slacciare e a sganciare, a togliere gonne e sottogonne, fino a lasciarle con indosso le sole sottovesti. Ordinai allora: “Via le camicie!” e Raoul, Julien e io eseguimmo, ma le ragazze restarono in sottoveste. Devo dire che ne fummo alquanto delusi. Proposi allora che una dopo l’altra si togliessero la sottoveste e, nude, una dopo l’altra sarebbero state esaminate dagli uomini, i quali avrebbero fatto il confronto tra le loro formosità; a chi l’avesse fatto per prima, promisi un bell’anello con una pietra incastonata. E alla più bella sarebbe toccata una collana, una volta tornati al castello. Disse Manette: “Siamo venute qui per incontrarci e divertirci con i nostri amanti e questi si sono liberati di ogni indumento, e io non voglio certo rovinare la festa, perché non mi vergogno affatto di far vedere quello che possiedo, certa come sono di avere cosce tanto belle e una micetta graziosa quanto quella di qualsiasi altra ragazza della Bretagna.” Rimasi molto colpito, quando finalmente il concorso di bellezza ebbe luogo, dalla vigorosa Marie, l’amante di Julien, con le sue enormi tette, i fianchi molto larghi, le cosce rotonde e piene e soprattutto la sua bella miciona, coperta e nascosta da una lussureggiante selva di nerissimi peli, lunghi dieci centimetri buoni, attraverso i quali facevano capolino due grandi labbra rosse e così seducenti e splendide, da indurmi a proporre che ognuno di noi, dopo il bagno, cambiasse amante, onde permettere a ciascuno di godersi la donna dell’altro, e alle donne di gustare tutti e tre gli uccelli. I miei cugini acconsentirono e anche le ragazze ne furono entusiaste, Manette perché bramava seppellirmi nelle profondità della sua succosa vagina, e Marie perché si disse ben disposta a provare nuove sensazioni. Mentre la esaminavo, mi sussurrò che, sebbene avesse una fica molto grande, in realtà aveva un buco molto stretto, e tuttavia il membro di Julien era troppo piccolo per darle piacere, mentre il mio era quasi due volte il suo, per cui si disse sicura che, se avessi voluto provarla, l’avrei trovata più appetitosa di Rose. Ci avviammo poi tutti verso il lago ed entrati nell’acqua ci demmo a giochi d’ogni genere, dando libertà alle nostre mani col pretesto di lavare noi le nostre belle compagne, e loro di farlo a noi. Palpavamo i seni, i morbidi ventri, accarezzavamo le cosce, gli organi sessuali e tutto il resto, e le ragazze si davano da fare ricambiando le nostre attenzioni. A un certo punto, m’avvidi che Raoul e Julien avevano portato le loro ninfe sulle rive del la- ghetto e le avevano penetrate mezzo fuori mezzo dentro l’acqua, con i movimenti delle natiche e dei ventri che la facevano schizzare tutt’attorno. Fu un esempio al quale Rose e io non potemmo resistere. Usciti dall’acqua, sedemmo sull’erba sotto un albero, e la feci mettere a cavalcioni sulle mie cosce con le gambe che mi cingevano i fianchi, il bianco ventre morbido che strusciava contro il mio. Con una mano trastullavo i seni dai capezzoli color rubino, sodi ed elastici al tocco, mentre con l’altra cercavo l’entrata al porto dell’amore, allo scopo di preparare l’adito a quel capolavoro di cui la natura mi aveva dotato e che stava eretto tra me e lei, premendo duramente contro il suo ventre, quasi a domandare accoglienza e ospitalità. Rose fingeva di eludere i miei sforzi allo scopo di protrarre ed esasperare il desiderio, attizzando il fuoco che ci ardeva dentro e raddoppiando la mia e la sua eccitazione. La coprivo di ardenti baci e i suoi occhi lanciavano umide fiamme, sembrando sciogliersi languidi sotto le lunghe e seriche ciglia che li coprivano. A questo punto ci rotolammo sul verde tappeto strettamente avvinghiati, e in un istante fui dentro Rose la quale, sentendo il dardo dell’amore penetrare nelle sue profondità più recondite, cedette e fu alla mia mercé. La battaglia diventava sempre più accanita, e ben presto giunsi al culmine, mentre la mia avversaria pagava a sua volta il tributo a Venere. Chiudendo gli occhi e sospirando, fu scossa da un brivido; i muscoli si rilassarono, e tutto mi fece capire che aveva provato il più grande piacere che l’uomo possa dare e la donna ricevere. Non c’eravamo ancora riavuti dalla trance, quando sopraggiunsero gli altri che ci tolsero dal nostro dormiveglia dandoci degli allegri colpetti sul culo. Facemmo allora un altro bagno e poi cambiammo partner. Raoul prese Rose, Julien Manette, io Marie e, dopo averla chiavata una prima volta, mi sdraiai accanto a lei, a testa in giù, sorseggiando i deliziosi umori che la sua bella miciona emetteva con grande abbondanza, mentre lei mi succhiava con delicatezza l’uccello. Devo dire che la vagina di Marie era piccola, incredibilmente stretta, in pieno contrasto con le dimensioni delle sue grandi labbra e con la vastità del suo pelo. Come se non bastasse, aveva un clitoride letteralmente spropositato, e infilarle dentro l’uccello era fonte di sensazioni stupefacenti, perché il clitoride strusciava contro la superficie del mio membro, e quando estraevo quest’ultimo quasi completamente per rituffarlo poi fino in fondo, me ne sentivo titillare la testa, ed era una sensazione quale mai avevo provato. Colpi, contraccolpi e rinculi divennero sempre più rapidi e gagliardi, e ben presto ci lasciammo andare mescolando insieme l’essenza delle nostre anime. Raoul propose che, visto che avevamo passato insieme la giornata, tanto valeva trascorrere insieme anche la notte nella stessa stanza, e se una delle ragazze avesse espresso il desiderio di essere amata da chiunque di noi, non avrebbe avuto che da dirlo: sarebbe stata subito accontentata. La sera ci riunimmo nella mia stanza subito dopo aver cenato; le ragazze portarono altri materassi e li disposero sul pavimento. Nudi, ci sdraiammo gli uni accanto alle altre, io presi Manette, Raoul preferì Marie, e Julien Rose. Dopo aver dato prova a Manette dei miei poteri, si fece il cambio, e a me toccò la vigorosa Marie, e così continuammo tutta la notte, e all’alba ci addormentammo, io nella mia posizione prediletta, tra le gambe di Rose, la testa posata sul suo morbido e bianco ventre, la guancia sui serici e odorosi peli che adornavano il monte. Facemmo colazione, e quindi dissi a Manette, a Rose e a Marie di attendermi nella stanza della prima. Tornai di lì a poco, portando a ciascuna di esse un bel regalo e dissi che, se mi fossero rimaste fedeli, al mio ritorno da Parigi le avrei prese e tenute tutte tre con me. Mezz’ora dopo, ero in viaggio per la capitale, dove nuove e straordinarie avventure mi attendevano.
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