Eravamo in ottobre. La giornata era iniziata con un sole luminoso, una di quelle giornate che ti illudono di essere ancora in estate tanto sono dolci, limpide e chiare. Avevo portato Tuc a fare due sgambate ai giardini ed era felice: lo si vedeva da come mi trotterellava intorno ed annusava con ingordigia tutto il suo percorso. Quando esco così, senza un motivo, mi viene da pensare che ho superato la soglia dell’età in cui si progetta, si discute, ci si accalora. Quando cominci a sentirti apostrofare da chi ti incontra, con la solita frase che prima, quando eri inserito nella cosiddetta vita attiva, mai si sarebbero sognati di dirti, del tipo “ma come ti trovo bene”, allora sai che sei inesorabilmente passato dalla parte dei quiescenti e tanti saluti. Non sei più produttivo e quindi non puoi campare diritti: se potessero ti toglierebbero anche quelli sessuali. Mi siedo su un muretto, apposta per non usare la panchina, in un moto di ribellione interiore, e, beandomi come una lucertola del sole regalato, così caldo per la stagione, mi guardo intorno. Vedo le solite mamme a confabulare chissà di cosa se non delle fesserie dei figli che scorazzano in giro; la solita coppietta che fa tenerezza se pensi a quanto deve soffrire a baciarsi in continuazione e a toccarsi furtivamente senza poter sfogare l’impulso naturale al coito. Lui deve avere i testicoli che gli dolgono, lei deve essere in un brodo di sugo a furia di strofinare le cosce. E’ in questi momenti che mi assale il ricordo degli anni della giovinezza, con tutte le incongruenze, ribellioni, follie che da adolescente, lo dice pure la legge, uno puo’ combinare: un minore di anni quattordici non risponde delle proprie azioni se non per delitti contro la persona, nel qual caso sarà giudicato da un tribunale speciale, quello dei minori. Per tutto il resto rispondono, in campo civilistico, i genitori. E’ proprio attinente a queste circostanze, la storia che mi accingo a narrarvi, sul filo del ricordo, capitatami durante i miei anni giovanili. lo mi sono innamorato prestissimo. A quattordici anni. Lei, ricordo, poco meno. La gente non lo sapeva. E quando la gente l’ha saputo ha fatto quello che fa sempre la gente in questi casi: ci ha messo il becco. Nel mio caso, tra me e la mia amata, hanno messo Santa Madre Chiesa. Dopo la guerra, con la carenza di alloggi, le nostre famiglie dividevano un grande appartamento, con cucina e bagno in comune: da una parte stavamo io, mia sorella e i miei genitori; dall’altra stava la famiglia Serbenotti: padre,madre e la figlia Maria. Lei era bionda, di un biondo di avena matura. Aveva la fronte bassa e una frangetta di capelli sulla fronte, gli occhi verdi e la bocca larga, rossa, carnosa, piena, già fatta, già matura, tutta avida di baci e di morsi, di sangue. Era una ragazzina. …. Ma il lampo degli occhi verdi e il sorriso della bocca rossa la facevano donna, più donna di tante femmine di trent’anni. Mi odiava. Quando c’era gente, fra noi, mi odiava. Non lasciava mai sfuggire nessuna occasione per deridermi, per offendermi. Se c’era gente, la luce dei suoi occhi verdastri si faceva fredda e tagliente, ambigua. Ma io sapevo benissimo perchè: quella era la maschera con la quale nascondeva la sua voglia di fare l’amore; era la maschera del pudore femminile, del sentimento e della fedeltà che piace tanto agli uomini. In pubblico, Maria metteva quella maschera dura e spietata per nascondersi. Ma quando restavamo soli, lei aveva un piccolo tremito di desiderio e di paura. Il respiro le si faceva un po’ affannoso. Lasciava la bocca leggermente aperta, piena di ombra e di alito caldo. Se soltanto le toccavo una mano, le veniva una tale febbre nel sangue che doveva appoggiarsi a qualcosa per non cadere. Poi scappava. A me piaceva moltissimo. Era snella, fresca e tiepida. Certe volte, quando restavamo soli e la vedevo tremare e ansimare, avrei voluto baciarla. Ma io avevo quattordici anni, e non osavo. E lei mi sembrava così giovane! Mi pareva di sciupare un fiore: non capivo che quel fiore non aspettava altro che di essere sciupato. O meglio: non sciupato, ma colto. Io non capivo, avevo paura. E lei si struggeva di voglia: la voglia di una donna in una ragazzina che aveva già il sangue caldo. Sua madre non badava a noi, né a quel che facevamo. Anzi, fu proprio lei che, un giorno, ci accoppiò per forza. Senza saperlo, naturalmente: “Senti, Sandro”, mi disse, “la mia bambina a scuola non va tanto bene. Tu invece sei più bravo. Potresti dare un’occhiata ai compiti di Maria? E’ tanto asina, e ha così poca voglia di studiare…”. Maria mi guardava con odio e antipatia, come al solito, e sua madre la rimproverò. Poi, con una smorfia di dispetto, ci piantò. Io avevo promesso che avrei corretto molto volentieri i compiti di Maria, e la madre mi aveva avvertito: “Non badare al suo brutto carattere. Speriamo che cambi.» Il pomeriggio del giorno dopo, Maria venne in camera mia con i suoi tre quaderni: uno bianco, uno rosso, uno blu. Entrò, mise i quaderni sul tavolo e rimase in piedi al mio fianco, senza parlare. Mi guardava con le palpebre semichiuse e tremava lievemente. Per guardare i quaderni, per ascoltare le correzioni ai compiti, o forse per appoggiarsi, mi pose il gomito sulla spalla e accostò la testa alla mia. Sentivo la sua guancia calda vicinissima alla mia e il suo alitare caldo mi bruciava, mi eccitava, mi elettrizzava: era un alito leggero, giovane. Il mio cuore si scatenava in tuffi terribili. Non osavo guardarla, tenevo gli occhi bassi, ma le vedevo le gambe snelle e perfettamente disegnate, i ginocchi rotondi e lisci sotto la gonna corta. Lei si mosse, e io vidi l’inizio delle cosce. Quel martirio durò un’ora. Quando se ne andò, Maria era pallidissima. Io mi buttai sul letto, sfinito: avevo le vertigini e una specie di prurìto dolcissimo in tutto il corpo, in particolare ero molto teso là dove, fino a ieri, usavo l’arnese solo per far pipì. Mi abbassai i pantaloni e vidi con mia grande sorpresa che questo aveva assunto proporzioni che non avevo mai visto: era tutto teso, allungato e ingobbito, e in alto si era aperto e vedevo il buchino da cui usciva una goccia che pareva miele. Non appena toccai la pelle in punta spingendola verso il basso sentii un calore fortissimo partire da sotto, percorrere la spina dorsale ed esplodermi nella testa come un maglio e vidi uscire copioso un liquido denso e bianco, ed a ogni eruzione provavo un piacere intensissimo. Ero orgoglioso e felice, soprattutto per via dei compagni, che tanto si vantavano quando si era assieme e mi prendevano in giro per via che non ero ancora divenuto uomo. Passò una settimana. Maria veniva tutti i pomeriggi. Eravamo pallidi, ansanti. Inghiottivamo tutti e due la voglia di toccarci, perchè tutti e due sentivamo sopra di noi il peso degli insegnamenti morali che ci avevano impartito: anche il solo sfiorarci con un dito sarebbe stato peccato. Alla fine spezzammo quell’incubo di paura e di sofferenza. Fu lei a cominciare, perchè quando si trova chiusa fra quattro mura, dove nessuno la può vedere e giudicare, una ragazzina ha molto più coraggio di uomo. Il settimo giorno della nostra passione silenziosa, lei non si accontentò di tenermi il gomito sulla spalla. Mi mise il braccio destro attorno al collo e, approfittando di un momento in cui io ero scostato dal tavolo, mi si sedette lentamente sulle gambe. Mi nascose la faccia sul petto. Allora, tremando, le cercai la bocca. Sentii il suo profumo naturale e la baciai. E la sentii come illanguidirsi, sciogliersi nell’abbandono di quel suo primo bacio d’amore vinto dopo tanta angoscia. La sua bocca era morbida. Ormai i sensi galoppavano. Il desiderio aveva affogato gli incubi della morale. La mia mano si fece coraggio, cercò sotto la gonna: toccò le gambe perfette, accarezzando la pelle liscia, incespicò nel pizzo delle mutandine, salì con frenesia verso un tepore dolcissimo, verso una tenerezza chiusa e misteriosa e vi si fermò. Maria lasciò fare, felice, con un sorriso trasognato sulla bocca larga che ora teneva aperta come aspettando il secondo bacio. Mi abbracciò forte, poi aprì leggermente le cosce perchè la mia mano potesse introdursi con più facilità. Dopo avere scostato le mutandine, le mie dita toccarono qualcosa di delicato e morbido. Sentii dei peli sericei in alto, mentre tutto il resto era liscio. Tra i peli si ergeva un bottone che strofinavo con leggerezza aiutato dal liquido che anche lei emetteva in gran quantità: questo la faceva ansimare e con la sua mano prendeva la mia e mi aiutava a colpire e sfregare là dove penso maggiore fosse il suo godimento, ritmando il movimento. Per un lungo mese, io non chiesi mai nulla per me. Ebbi uno strano pudore del mio sesso, e non volli farmi vedere nudo. Godevo nel vederla godere, anche se i testicoli mi facevano un male cane che dovevo far passare dopo toccandomi. La baciavo sulla bocca, a lungo, poi le alzavo la gonna, le toglievo le mutandine, e dopo averla contemplata la baciavo lì. Lei, docile, lasciava fare e sorrideva. Allora io la toccavo all’attaccatura delle cosce, in quel punto così fragile che mi ubriacava di spasimi. Lei sospirava, aspirando attraverso i denti accostati, fremendo e accarezzandomi i capelli e pizzicandomi le braccia, mentre io suggevo tutti i suoi umori e mi beavo della vista del colore rosa del suo sesso palpitante. Un pomeriggio di quell’estate, sua madre era uscita per alcune commissioni. Io dormivo senza coperte, nudo. Maria entrò e si mise a letto con me. Erano passati ormai due mesi e lei non voleva più essere rispettata. I giochi d’amore non le bastavano più. Le avevo spiegato come si diventa donna, e lei mi implorò di farlo a lei. “Ma, ti farà male. E poi, sei così stretta…” “Sì, lo so che mi farà male. Ma resisterò, vedrai.” Si stese sui letto e chiuse gli occhi, in attesa. Quando io le fui sopra e armeggiai faticosamente, lei si tenne con le mani alla spalliera. Strinse i denti. Mugolò di gioia. Dimenticai in quel momento tutto e tutti. Posai con delicatezza la punta del mio sesso all’ingresso delle sue labbra e iniziai lentamente a spingere. Più entravo e più la pelle che ricopriva il mio glande scendeva, più la frizione contro le pareti mi provocava sensazioni che mai più, nelle volte successive ho provato. Sentii una vampata di caldo salirmi attraverso il corpo fino al cervello e non ebbi più scrupoli. Lei non diede un grido, non ebbe un gemito, e io riversai tutto il mio essere in lei. Mi guardava con gli occhi grandi, spalancati, spavaldi. Erano occhi folli ed enigmatici: gli occhi tramortiti e vivissimi delle donne che godono. Mi strinse le spalle con le braccia sottili. Alla fine, toccandosi sopra dove io mi muovevo, quando si sentì donna pienamente, emise un gemito prolungato spalancò le gambe ancor di più, alzando il bacino iniziò a colpirmi così che ad ogni colpo io entravo sempre di più e venni una seconda volta, stavolta con lei. Calmati che ci fummo, lei mi guardò e sorrise. Era felice. Più tardi ungemmo bene i cardini e la serratura della porta della sua camera. E a tarda notte, quando tutta la casa dormiva, io andavo in punta di piedi a svegliare il mio amore. Sentivo il respiro lieve del suo sonno tranquillo. La scoprivo, le mettevo la guancia sul ventre, sul pube adombrato di una sparsa lanugine d’oro bruno. Non potevo spalancare la finestra o accendere la luce per ammirare il miracolo di quella ragazza in boccio. Ma i miei occhi la vedevano anche nel buio. Sentivo il suo corpo magro fremere e inarcarsi sotto le mie dita. Ero io a farlo fremere, e me ne sentivo orgoglioso. Era un corpo da adolescente, soffice ed elastico. Il seno si stava già formando: due piccoli rigonfiamenti duri; i capezzoli erano due fragole che io strizzavo con due dita, o che succhiavo con avidità. La baciavo sulle due bocche, e l’altra bocca aveva per me un sapore agro e dolcissimo insieme; bocconi sopra di lei, fra le sue cosce aperte, io godevo, esasperavo ed affinavo la mia abilità. Potevo vedere il suo ventre contrarsì per la felicità. Io cercavo i luoghi più segreti del suo corpo profumato di giovinezza. Per tre anni ho creduto di impazzire su quel corpo, tutte le notti. E per tre anni l’ho visto crescere, farsi più adulto e più sexy sotto i miei baci, le mie carezze, i miei morsi che lasciavano il segno. Studiavamo le posizioni più deliziose. Tutti i misteri del piacere e della perversità furono per noi. Io moltiplicavo i modi di quell’unione, le mie invenzioni per capire i suoi desideri. Maria chiudeva gli occhi, il suo corpo si distendeva, perdeva la timidezza e il pudore. Chi è stato quell’idiota che ha diviso in quadretti centimetrati il corpo della donna per tracciare i confini e i limiti della morale? Tutto, in lei, mi piaceva; e tutto ciò che del mio corpo le piaceva, doveva essere suo. Ogni carezza, anche la più strana, era lecita: la natura stessa, di cui noi eravamo impastati, rendeva morale anche i gesti considerati immorali dalla gente cosiddetta per bene. Chi aveva corrotto noi due ragazzi? Nessuno. Il nostro istinto ci aveva insegnato misteri che, più tardi, io non ritrovai nemmeno nelle donne più esperte. Per tre anni, tutte le notti, io credetti di impazzire sul corpo giovane e sapiente di Maria. Per tre anni, lei seppe godere nel mistero la vicenda del suo grande amore: con piccoli gemiti, con la passione delle sue labbra e della sua lingua ogni giorno più esperte, Maria assecondò ogni mia voglia. L’amore ci spossava, ma ci rendeva felici. Io dovevo vegliare fino a tardi, perchè la casa dormisse; dovevo aspettare che il buio racchiudesse la gioia dei nostri orgasmi lunghi, paradisiaci, indicibilmente estenuanti. Insaziati, godevamo fino all’alba. Alle sette io dovevo alzarmi. Avevo la testa vuota, gli occhi pesti e imbambolati. Sentivo un languore nello stomaco e una debolezza nelle ginocchia: a volte dovevo fermarmi perchè temevo di cadere, di svenire. Ma dentro di me ero tranquillo; tutta la mia vita era una stanca ma beata primavera. Lei veniva su svelta, sottile, bianca. Non aveva più gli occhi torbidi, la sua bocca carnosa rideva con un largo sorriso calmo. Era diventata buona. Non avete mai notato che viso e che animo buono hanno le donne dopo l’amore? E’ come se ogni contrazione delle linee del volto scomparisse, come se ogni pensiero svanisse. Maria era sempre un po’ stanca, un po’ pallida. Ma era soddisfatta e docile di carattere. Poi successe quel che doveva succedere. Venne la morale a distruggere la nostra felicità compiuta. In principio, sua madre cominciò a sospettare. Le cambiò camera, la chiamò a dormire vicino a lei. Allora noi ci cercavamo di giorno, in tutti gli angoli bui della casa, dietro le tende, dietro le porte. Ma eravamo disperati. La scala del caseggiato era piuttosto buia, stretta e angusta: un vero nido d’ombra. Quando sua madre la mandava fuori per compere, io aspettavo il suo ritorno sulla scala. Ci si prendeva allora di fretta: con brutalità, con paura. Io la stendevo sul pianerottolo, come meglio potevo, e facevamo l’amore col cuore in gola, sul freddo della pietra, ormai senza abbandoni. Era un amore ansimante. E un giorno, all’improvviso, agghiacciammo. Sua madre ci sorprese. Era scesa dalle scale a piedi nudi, senza farsi sentire. I suoi urli ci colsero alle spalle, mentre eravamo avviticchiati e io stringevo le mammelle di Maria come per possederla più completamente. Sua madre si precipitò da mio padre, mi additò come se fossi un mostro, un satiro urlando: “Quell’assassino ha rovinato mia figlia!” Maria si era chiusa in un silenzio spaventoso; non volle dare nessuna spiegazione, non volle fare nessun commento. Tacque sempre, cocciuta e offesa. Sua madre la portò da un medico che emise la sentenza: “La sua figliola è ormai come lei, signora. E da molto tempo.” Mio padre intervenne, con gravità e buon senso, per compatire la disperazione della signora Serbenotti: “Certo, è una cosa dolorosa. Ma doveva stare più attenta anche lei, no? Sa, sono ragazzi… E adesso come si fa? Questo qua, e indicava me, il colpevole, l’assassino, prima che riesca a guadagnarsi uno straccio di stipendio, ne passa del tempo! Ci vorranno ancora sette o otto anni, e sua figlia è ancora così giovane… Se vuole che si fidanzino, io sono d’accordo. Ma con tanti anni che devono passare… credo che non se ne farà niente.” La mamma di Maria svenne. E la figlia finì in un istituto di suore. La vidi, tempo dopo, mentre passava in mezzo alle compagne, con un vestitino di rigatino grigio, e un nastro azzurro fra i capelli. Aveva di nuovo quegli occhi paurosamente torbidi di quando, ancora ragazzina, mi desiderava in silenzio. Di nuovo, come un tempo, aveva la faccia cattiva. Non riuscii a dirle nemmeno una parola: povera Maria. Era mia, tutta mia. E me l’avevano tolta. E pensavo, tutto solo, rimuginando i pensieri più foschi: dicevano che avevo rovinato la ragazza. Rovinato che cosa? Per tre lunghi anni io avevo dato a Maria Serbenotti un capolavoro di amore giovane, la gioia più compiuta, più perfetta e più innocente. E intanto cercavo di immaginare lei, rinchiusa fra le pareti del convento, nel suo lettino di prigioniera. Ero sicuro che, ogni notte, lei sognava me, torcendosi, inarcandosi sulle reni, smaniando nel ricordo dei nostri baci. Ero sicuro che lei desiderava sentirmi ancora penetrare dentro di lei, possederla tutta, mentre le donavo una parte della mia vita e della mia forza perchè lei potesse vivere e godere. Ma ciò che più mi faceva soffrire non era quella voglia frenetica che sentivo, come una corrente elettrica, sulle dita e dentro di me; non erano le ondate calde di desiderio, ma il pensiero che quel dolore, a Maria, gliel’aveva dato proprio sua madre. Quella, madre saggia ma sadica che adesso aveva un solo grande desiderio: che io morissi, affinchè sua figlia fosse vendicata dal torto e dalla vergogna subiti. Tuc mi scosse dai miei pensieri, come a volermi far capire che era l’ora per tornare a casa. Il giardino, non me ne ero accorto,si era svuotato. Con un sospiro mi alzai e lentamente mi incamminai con Tuc che felice mi accompagnava di fianco.
Aggiungi ai Preferiti