Era un venerdì, al principio di settembre. Ancora belle giornate sopravvissute all’estate sepolta.Sulle pareti i ritratti a olio di suo padre, di suo nonno, il fondatore della ditta.Un grande quadro di scuola caravaggesca, un martire (o un cacciatore?) riverso in un bosco tenebroso con giochi d’acqua.I mobili di noce oscuri, pesanti, il pavimento coperto da un grande tappeto persiano.Era lo studio di Lello Albertelli, quarantacinque anni, presidente e amministratore delegato della Albertelli s.a. Lello mise ordine tra le carte della scrivania, poi scese lo scalone del palazzo. Un consunto, oscuro scalone ottocentesco, sbucante su un vasto cortile colonnato. Il terreno ancora acciottolato come un tempo, con la doppia fila parallela di lastroni di granito, su cui, scorrendo le ruote, le carrozze non avessero troppo a sobbalzare. Sotto il porticato centrale non c’erano carrozze in attesa, ma la bassa allungata sagoma della Ferrari di Lello.Questi si lisciò i capelli con la mano e, rannicchiatosi, montò sulla Ferrari. Anche se in città era scomoda, non avrebbe fatto cento metri senza di essa.Giunse a casa, dove restava solo una vecchia cameriera. Il personale era tutto via, o in vacanza, o a Santa Margherita con Francesca. Traversò i saloni spogli: i mobili radunati in gruppi, coperti da federe, i pavimenti nudi. Quella casa che, nei mesi estivi, gli serviva solo per dormire e per andare, come adesso, a raccogliere la valigetta sempre pronta, al momento di partire, per i due giorni di week-end al mare.Caricò dunque in macchina la sua piccola valigia, contenente le quattro cose che gli erano necessarie per la breve vacanza; poi ripercorse la lista di oggetti che sua moglie gli aveva quel giorno dettata per telefono. Tutte cose indispensabili, di cui aveva bisogno. “Nel secondo cassetto in alto a destra troverai un pacchetto avvolto in carta velina, con un nastro verde. Ecco, quello lascialo stare, ma vicino c’è una scatolina tonda, di cartone, non puoi sbagliare, c’è una x a matita rossa, ecco dentro c’è una chiave, tu allora apri l’armadio grande vicino alla porta…”Tutte le volte che doveva partire era la stessa storia. Francesca dimenticava sempre a Milano oggetti indispensabili. “Quando lo capirà che la mia Ferrari non è un furgone?” Odiava viaggiare con la macchina sovraccarica, e ogni volta gli toccava farlo.Riempito il non grande baule, dovette porre i pacchi rimanenti sul sedile accanto al suo. Lui si ingegnava sempre di viaggiare col minimo bagaglio possibile, e Francesca ogni volta gli combinava questo.Sentì montare la rabbia. Gli pareva di sconsacrare la propria splendida macchina.Alla fine partì. La rabbia si mutava, andando, in malinconia. Si, lo sapeva, Francesca odiava la Ferrari. Diceva che era scomoda, che era assurda. Per una gioia che lui aveva nella vita… Ma lei voleva una Mercedes. Una Mercedes! Perchè ci si sta seduti comodi dentro. Una Mercedes! E glielo diceva con incoscienza, sfacciata. Una Mercedes a un ferrarista. La più grande bestemmia non avrebbe potuto colpirlo di più. Non era però neanche un paragone da farsi, perchè a Dio non credeva, ma nella sua Ferrari sì. E ogni volta lo stesso discorso. Eppoi cosa se ne sarebbero fatti di una macchina spaziosa? Figli non ne avevano. “Guarda, se ci tieni tanto, ne compro una per te, a patto che tu non mi chieda mai di montarci dentro.” Ma lei no, lei voleva che fosse lui a guidarla. Una macchina più sicura, alla sua età i riflessi non sono più così pronti come una volta, e queste auto troppo veloci… Alla sua età! Ma lui aveva quarantacinque anni, e anche tra cinque, tra dieci, tra quindici anni sarebbe stato più giovane dei sessant’anni incartapecoriti dei suoi coetanei. Altra stoffa, altra linfa.Percorse l’autostrada in un baleno, divertendosi, a ogni sorpasso, al vedere le altre macchine lente da parer ferme, lì sulla corsia di destra, e lui sopra i duecento, i duecentoventi… Perchè malinconia? Perchè rabbia? Lui non era vecchio, nè gli altri, coi loro discorsi sciocchi, potevano farlo invecchiare.Ma, giunto alla statale di Serravalle, cominciò ancora a deprimersi: gli autotreni, lenti a passo d’uomo, seguiti da code interminabili di piccole cilindrate, ingombravano, ostruivano, procedendo nei due sensi, o tentando di sorpassarsi a vicenda, la stretta carreggiata.Fece tremare l’aria con l’urlo lacerante del suo clacson, ed ecco tutte le macchine spaurite gettarsi a destra, sul bordo della strada, e lui via, l’acceleratore a tavoletta, il balzo avanti di una tigre, passa due, tre, quattro dei lentissimi convogli. Passato uno ne trovavi un altro, era in fondo un divertimento. Arrivato a Genova proseguì, per l’Aurelia verso Santa Margherita. Trraversò Recco congestionata dal traffico. Ora ai milanesi calanti a valle si aggiungevano i genovesi in un esodo serrato e lentissimo. Uscendo da Recco il breve rettilineo che precede la salita era sgombro dal traffico. Accelerò, schiacciando con forza l’acceleratore, e aggredì prepotente la salita di Ruta. La strada era libera, la Ferrari, scatenata in un felice ruggito, abbordava le curve con un fragore che faceva tremare le pareti delle case. Passò la galleria di Ruta e imboccò sparato la discesa di San Lorenzo.Ed eccolo, dopo San Lorenzo, sbucare sullo splendore della baia illuminata. Era ormai notte piena, sulle cupe macchie della folta vegetazione i fari dell’automobile aggredivano la grande vallata che scendeva ad anfiteatro. In basso, in fondo, sul vasto arco della costa, le lontane luci colorate della città, e di fronte, a perdita d’occhio, il mare tremolante di luna, di lampare, di pescherecci, di yacht. L’improvvisa, pacifica apparizione di quel paradiso terrestre lo riempì di serenità, lo fece finalmente respirare a pieni polmoni.Giunse a Santa Margherita verso mezzanotte. Entrò in giardino dal cancello spalancato, lasciato evidentemente aperto per lui. Fermò la macchina tra le alte palme. I suoi passi crocchiando sulla ghiaia del vialetto, risvegliarono il giardino. Un cameriere sbucò dalla sagoma assonnata dell’antiquato castelletto, lassù, nella torretta, una sola finestra illuminata, quella di Francesca.Passò l’atrio di marmo nero e bianco, salì lo scalone di lavagna, entrò a salutare sua moglie. Era a letto, mezzo addormentata. – Cosa è successo, tesoro? Ti aspettavo per le dieci. – – Lo so, ma ho dovuto ritardare la partenza e poi, non ti dico, un traffico infernale. – – Hai portato i miei pacchi? – – Si, li ho tutti. – – Grazie. Sono stata tutto il giorno in motoscafo, e ho preso tanto di quel sole che non ne posso più. Per questo sono andata a letto. Ma non mi addormentavo prima che tu arrivassi. -Francesca aveva la faccia tutta unta di crema per la notte. Gli porse la punta delle labbra in un simulacro di bacio, Lello avvicinò la sua bocca, toccò quella della moglie, lei disse buonanotte, spense la luce, lui andò in camera propria.Dopo i viaggi in macchina era sempre coi nervi sottosopra, avrebbe voluto adagiarsi nel bagno caldo, starci mezz’ora a distendersi, ma il rumore dell’acqua avrebbe disturbato Francesca. Prese allora la scatoletta dei tranquillanti, ne inghiottì due, e si sdraiò sul letto. Il mattino dopo si svegliò presto. Spostò la zanzariera, balzò a terra, spalancò le persiane. Il golfo era coperto da un grande velo di foschia, ma era foriera di caldo, di limpidezza, era la promessa di una magnifica giornata, era l’auspicio, con quel mare piatto, di un’ottima gita in motoscafo. Inspirò compiaciuto la fresca aria mattutina. Si vestì sommariamente e scese in giardino.Stefano, il cameriere, aveva disposizione di lavargli l’auto ogni mattina, ma oggi, fidando probabilmente nel pensiero che il padrone avrebbe dormito fino a tardi, non l’aveva ancora fatto.Lello ebbe un moto di disappunto al vedere il suo bel bolide rosso ancora inzaccherato.Stefano accorse premuroso. – La lavo subito. Sono solo le otto. -Era presto. Il golfo intero dormiva ancora, e Lello non aveva niente da fare. Tornare a letto? Non aveva più sonno. Incaricò Stefano di pulire bene la macchina, e andò in bagno a sbarbarsi e a lavarsi con calma.Fece con diligenza i suoi esercizi ginnici mattutini, anzi, giacchè aveva da esibirsi in costume da bagno, li intensificò.Fece poi una buona doccia, si asciugò, si pesò. Vide compiaciuto che era diminuito di duecento grammi da ieri. Poi si infilò le mutandine da bagno. Si specchiò, di fronte, di profilo. Ecco, bastava spingere un po’ indietro le reni e la leggera pancetta non si vedeva più. Si guardò soddisfatto, gonfiò il torace con una profonda inspirazione. Era fiero di se stesso, bastava che si ricordasse di tener dentro la pancia, e faceva veramente un figurone.A Milano frequentava la palestra tre volte la settimana. Erano i soldi meglio spesi. A quarantacinque anni il suo fisico faceva ancora la sua bella figura. E il proprio nome, d’altronde, era ancora quello che gli avevano affibbiato da ragazzo: Lello. Per tanti anni era rimasto attaccato a questa bambinata. Ma il suo vero nome era Lionello. Un nome ridicolo, che egli aveva sfuggito tutta la vita, preferendo la deformazione infantile all’ampolloso cattivo gusto.Era allegro. Si infilò un paio di pantaloni di tela, una polo stinta, e scese a piedi in paese. Comprò il Corriere, un pacchetto di sigarette, poi tornò a casa.Francesca intanto si era alzata. Seduta in vestaglia di fronte allo specchio, procedeva mezzo imbambolata alla sua lenta toletta, intenta a render gradatamente vita alla pelle addormentata, agli splendidi occhi che un tempo avevano fatto innamorare Lello, e che ancora oggi tutti ammiravano.Lello lesse il Corriere, poi andò in giardino a esaminare l’automobile. Era in ordine, ci si poteva specchiare. Vi montò, e tornò in paese. Gli piaceva girare lentamente per le strade e vedere le ragazzine che si fermavano ammirate. Se le salutava, rispondevano contente.Ma a quest’ora per strada girava solo qualche straniera stracciona che non capiva niente. Andò al porto, cercò il meccanico, montarono insieme sul motoscafo, e provarono i motori. Quando si fu sincerato del loro funzionamento, staccò gli ormeggi, andò a rifornirsi di benzina, tanto per far passare un po’ di tempo, poi lasciò l’imbarcazione al meccanico, raccomandandogli di tener tutto pronto, sarebbe tornato tra un’ora.Rientrò alla villa. Francesca lo aspettava. Fecero insieme la prima colazione, e infine scesero al mare.Salirono in barca e Lello, uscito dal porticciolo, si diresse a tutta velocità verso Portofino. Fece due o tre evoluzioni nel golfo. Il mare era piatto, tranquillissimo. Doppiò il capo e puntò su Camogli. Là si fermarono e fecero una nuotata. Poi ritornarono verso la Cala dell’Oro, e si fermarono nella piccola baia deserta. Era l’unico posto dove ci sarebbe stata un po’ di calma, di sabato. Si stava già popolando, era vero, ma almeno qui, lontano com’era, arrivavano solo barche grosse, non si sarebbe riempito di barche a remi e fuorbordi e battelli turistici come il resto della costa.Buttarono l’ancora, e Lello si tuffò con piacere nell’acqua verdissima, ancora pulita. Fra poco, con tutti i motoscafi che sarebbero arrivati, chissà che chiazze di benzina e olio.Si vedevano benissimo le rocce strapiombanti verso il fondo e lui, messa la maschera, si tuffò più volte, divertendosi a volteggiare lentamente fra le irreali architetture subaquee, fra i colori di fiaba, di sogno. Si infilava negli anfratti, sfiorava le pareti a picco, scendendo, risalendo, fluttuando a mezz’acqua, ogni tanto tornando alla superficie per un respiro, poi giù di nuovo con gioia. Vedeva oscuri i ricci che il vetro della maschera faceva sembrare enormi, vedeva l’ancora della sua barca, scese per toccarla, sentì l’acqua sempre più gelida, le orecchie cominciavano a dolere. Ma non cedette alla tentazione di risalire subito. Tenendosi con una mano all’ancora, guardò in alto. Vedeva l’abbaglio dei raggi solari filtrati attraverso l’acqua, una luce diffusa, violenta ma senza calore, accecante forse, se non ci fosse stata frammezzo tutta quell’acqua, quella specie di nebbia.Le orecchie gli martellavano, il petto faceva male. Lasciò la presa, diede un colpo di talloni.Risalì appoggiandosi al cavo dell’ancora, per frenare un poco la spinta verso la superficie. Vedeva ora chiaramente il fondo della sua barca sopra la testa. Si lasciò andare alla forza dell’acqua, poi sbucò all’aria. Respirò a fondo, con gioia. Finalmente i polmoni pieni di aria fresca. Ritornò a bordo e si stese al sole.Steso sul materassino si lasciò avvolgere dal calore dei raggi dorati. Chiuse gli occhi. Il sole gli scaldava piacevolmente la schiena. Si assopì. Sentì Francesca che parlava, si svegliò, mezzo stordito come gli capitava quando si addormentava al sole. Scosse la testa, cercava di abituarsi al mondo esterno, cercava di rientrarvi.Francesca parlava con gente di un’altro motoscafo ancorato lì presso. Doveva essere arrivata mentre lui dormiva. Lello si alzò a metà dal materassino. Si sentì salutare, cercò di sorridere in risposta, ma non capiva ancora chi erano. Vide il motoscafo, vide una gamba snella che si protendeva e toccava l’acqua con la punta del piede. – Caro Lello! Come va? – – Ti abbiamo svegliato? Che piacere ritrovarsi! -Vide l’altra gamba piegata su se stessa, il tallone contro i fianchi, le due mani ai lati, vicino ai fianchi, e il corpo era appoggiato al tallone e alle mani, era seduta, ma non sui fianchi, perchè il ventre era alzato, proteso nello spingere avanti il piede, più lontano, a toccar l’acqua con la punta dell’alluce. Erano fianchi giovani, stretti, era una bambina in bikini, no, una bambina no, aveva un seno grosso, turgido, ma appunto da adolescente, le gambe, le braccia lunghe, magre, e i capelli biondi sciolti sulle spalle. La bocca rideva. – E’ fredda! – disse con una risata allegra, e subito, in una immediata contraddizione, riportò a se la gamba protesa, si alzò in piedi, e si tuffò di testa, così rapidamente che Lello non era neanche riuscito a vederle il viso. – Ma da quando siete qui? Non vi abbiamo visti tutta l’estate. -Erano i Dal Pozzo. Lello li salutò. – Siamo stati a Ischia. Siamo appena arrivati. -Lello guardava in acqua dove la ragazzina seminuda nuotava felice. – Che freddo! – gridò ancora contenta. – Ma quella è la Susy, – disse Francesca. – E’ mai possibile? – – Proprio lei. Passano gli anni purtroppo, – disse Renato Dal Pozzo. – Ma vieni qui, Susy, fatti vedere! – disse Francesca. – Magari non mi riconosci più. -Susy salì la scaletta, e venne sul loro motoscafo, la sua pelle abbronzata lucida d’acqua. – Ma guarda com’è la vita! Ti volti per un momento, ed ecco, la bambina è diventata una donnina. Quanti anni hai, adesso? -Susy non rispondeva. – Diciassette e qualche mese, – disse sua madre, dall’altro motoscafo. – Ma non vuol dirlo. Le secca. Lei vuol far credere di averne diciotto. – – Magari vorremmo farlo credere anche noi, ma è piuttosto difficile riuscirci. – disse Renato con una risata.Ora Lello vedeva i denti così bianchi sul viso abbronzato, le labbra un po’ turgide, nette, che non avevano certo bisogno di rossetto. Vedeva gli occhi assai chiari, non erano grandi, ma il loro sguardo era così vivo e allegro da calamitare l’attenzione. Il naso invece era piccolo, da bambina, non lo si notava neanche. – E me mi riconosci, Susy? – chiese Lello. – Non mi chiamo Susy. Mi chiamo Susanna – disse lei ombrosa. Poi lo guardò con un sorriso maligno. – Tu sei Lello. – Lello la guardava con desiderio.E lo sguardo di lei cambiò. Ad un tratto da maligno si fece duro, intenso. Fissava Lello nel fondo delle pupille. Sembrava aver letto il desiderio dell’uomo, sembrava non più una ragazzetta appena cresciuta, ma una donna esperta, consumata, desiderosa solo di soggiogare, di ipnotizzare, conscia del proprio fascino femminile.Fu un istante che fece girare la testa a Lello. Susy era seduta sullo stesso materassino, a due passi da lui. Egli si era alzato a sedere, stava per protendersi su di lei. Lei si volse a Francesca, le parlò con calma. – Non fai il bagno oggi? L’acqua è deliziosa. -E Lello si accorse che c’era gente intorno, i genitori della fanciulla, sua moglie. Per un istante si era sentito solo con la Susy. Francesca aveva notato qualcosa? Quello sguardo pericoloso? E cosa poteva voler dire quello sguardo? Ma no, era solo istinto femminile, la civetteria istintiva che le accompagna dalla culla, non c’era niente dietro quello sguardo. Francesca chiaccherava con la Susy. “Speriamo che non si sia accorta di nulla”, pensò Lello, ancora turbato. E si tuffò nell’acqua gelida, nuotò a lungo per calmarsi. “Com’è stupido il nostro corpo, un frammento di sguardo così a vuoto, senza ragione e senza seguito, senza possibilità di seguito, una cosa assurda, e guarda che reazioni. Mentre altre volte, quando la logica delle cose sembrerebbe portare a questo, resta invece indifferente”.Girò attorno ai due motoscafi. Adesso si era calmato. Salì su quello dei Dal Pozzo a far due chiacchere. Gli offrirono un aperitivo. Fecero i soliti discorsi. Lui chiamò Francesca a raggiungerli, sperando che venisse anche la Susy. Quando l’aveva avuta a due passi era scappato, ma ora la voleva ancora vicino. Francesca si tuffò e nuotò da loro, ma Susy restò a prendere il sole sull’altro motoscafo.I Dal Pozzo li invitarono a cena. – Visto che a Milano non ci si trova mai, frequentiamoci almeno adesso! -Era una buona idea. Perchè poi, di sabato, come si fa ad uscire? I ristoranti sono così pieni che è impossibile, ci metti tre ore per mangiare, e male.Lello voleva tornare dalla Susy, cercava un pretesto. Lo trovò. – Vado a prendere la maschera e le pinne. -Si tuffò, e raggiunse il proprio motoscafo. Ma, appena lo vide arrivare, la ragazza saltò in acqua e nuotò via. Così a lui toccò mettersi pinne e maschera e tornare a nuotare sott’acqua, che adesso non ne aveva più voglia.Restarono lì più di un’ora, e conclusero che era veramente un delitto non vedersi mai, una volta erano così buoni amici, quasi inseparabili, e poi, da qualche anno, senza una ragione, non si vedevano se non assai raramente. Ma Milano era una città fatta così, se non ci si metteva d’impegno, proprio non ci si incontrava. Alla fine si proposero, già che si erano ritrovati, di non lasciar più riaffievolire la loro bella amicizia di un tempo. Ma con la Susy Lello non riuscì più a parlare, si era fatta scontrosa e pareva sfuggirlo.”La solita civetteria femminile. Ha capito di interessarmi e fa la preziosa.” O forse davvero Susy non si accorgeva di lui per niente?Arrivata la una, i Dal Pozzo salparono. Tornavano a mangiare a casa, perchè la Susy aveva gli esami a ottobre, e il pomeriggio la tenevano chiusa a studiare. – A stasera allora! -Lello e Francesca fecero ancora un bagno, mangiarono i sandwich che si erano portati dietro, poi Lello se la spassò per tutto il pomeriggio a percorrere il golfo in su e giù da Zoagli a Portofino, a piena velocità. Susy, la sera, aveva un paio di pantaloni rossi.Renato Dal Pozzo era molto cordiale con Lello. Parlavano di affari.I pantaloni di Susy erano molto attillati.Lello si chiedeva come mai gli Albertelli non si appoggiassero alla banca di Renato.Probabilmente Susy non portava mutandine. Anzi, di certo non ne portava, coi pantaloni così aderenti se ne sarebbe visto il segno.Lello decise che bisognava parlarne a suo fratello Alberto. Sarebbe stata una buona cosa servirsi della banca di Renato, la miglior banca privata di Milano.Quei fianchi compatti era come se fossero nudi.Non c’era ragione che Renato e Lello non diventassero amici. I migliori amici. Vedersi tutti i giorni.Susy portava le tazzine di caffè alle signore. Camminava lenta, una tazzina per mano, attenta a non versarlo. Il suo cagnolino la seguiva dappertutto, un barboncino nero.Si, in effetti la Banca Pisoni era la miglior banca privata di Milano.Com’erano sodi quei fianchi. Com’era tesa la stoffa leggera sulle loro curve. Sembrava incollata. Susy si chinò, porgendo il caffè alle signore. Lello la vedeva di schiena, chinata in avanti, peggio che nuda con quei pantaloni rossi. – Vuole zucchero? -La madre di Susy nasceva Pisoni. Le signore erano sedute sulle poltrone di vimini, in veranda.Susy si alzò, venne verso gli uomini. Così giovane il suo ventre, così liscio.Renato dirigeva la Banca Pisoni. Un uomo con la testa quadra. – Adesso lo porto a voi. – Si voltò per prendere le altre tazzine.Era un corpo adolescente, ma già formato. Le curve erano tutte là, evidenti, pur se di piccole proporzioni, ancora in boccio.Anche Lello aveva la testa quadra. Erano veri milanesi, non disposti a perderla. Il lavoro è la prima cosa, tutto il resto è subordinato ad esso. E infatti erano là, in alto, perchè nulla mai li aveva distratti dal lavoro, così come non ne erano mai stati distratti i loro padri, o i loro suoceri, o i loro nonni.Susy finì di servire gli altri ospiti, e in ultimo venne da loro.Lello e Renato fumavano i sigari, e Susy storse la bocca disgustata, se ne andò subito. – E’ la vostra unica figlia, vero? – – Si. E meno male che non ce ne siano altre. Non ti dico le preoccupazioni. Già così donna a quell’età, e sai cosa sono i ragazzi d’oggi. Bisognerebbe tenerla incatenata, ma col caratteraccio che ha, chi ci riesce? L’ha sempre vinta lei. – – Già. Così bellina, poi, troverà regolarmente il modo di farvi trangugiare tutto con due sorrisi. – – Cosa vuoi, siamo noi i più deboli. D’altronde, se non si vive per loro, per i figli, cosa ci stiamo a fare al mondo? -Poi Renato pensò che Lello poteva aversela a male, Lello non aveva figli, e cambiò discorso.Gli altri sedettero a giocare a carte. Lello non amava molto il gioco, e restò sulla veranda a fumare. Anche la Susy era lì, ingrugnata.Teneva sulle ginocchia il suo barboncino e lo carezzava automaticamente, con un viso arrabbiato. Non c’era modo di parlarle.A un certo punto sbottò, piena di dispetto, rivolta ai suoi: – Siete crudeli. Cosa volete ancora da me? Li ho fatti i compiti. E se non mi lasciate andare a ballare stasera, quando ci vado? Quando sono vecchia? – Aveva il pianto nella voce. – I miei amici sono tutti lì ad aspettarmi, e io neanche il sabato posso uscire. Mi volete vedere ammuffire. Ma non avrete questa soddisfazione. -Ormai era sull’orlo del pianto, ma si tratteneva con rabbia, non volendo mostrarsi infantile. Lello notò che stava mordendosi le labbra per non lasciare uscire le lacrime. – E scusa, ma come vorresti andare? Da sola? – chiese Renato. – Cosa c’è di male? – – Potrei accompagnarla io, – propose Lello. – Ma no, dai poveretto, non vogliamo annoiarti. – – Oh, tanto, sto qui a far niente. – – Susy non se lo meriterebbe, ma d’altronde è vero, le avevamo promesso il sabato sera. – disse la madre. – Coi ragazzi bisogna essere di parola, per abituarli col buon esempio a fare altrettanto. – sentenziò Renato. – Allora possiamo andare. – disse Lello.Susy si volse a lui, ostile, con gli occhi gonfi di lacrime represse, la faccia rossa, congestionata. – Che macchina hai? – gli chiese. – Una Ferrari. -Di colpo il viso di Susy si trasformò, le lacrime scomparvero, un’espressione di beatitudine, di gioia, le illuminò i lineamenti. – Andiamo. – disse. Affidò il cane a sua madre, e si avviò verso l’uscita.Lello si fermò a salutare gli altri. – Ci rivediamo subito, a ogni modo. La lascio con gli amici, e torno qui. – – Ma vedi prima di informarti bene dove vanno, perchè a mezzanotte andiamo a prenderla. – rispose Renato. – A lasciarla, non tornerebbe prima della chiusura dei locali. -Lello uscì. Susy era già in strada, ferma davanti al bolide rosso. – E’ questa la tua? – disse con ammirazione beata.Lello le aperse la portiera. Lei sedette raggiante. – Io ho un amico con una Maserati, e poi ne conosco uno con la Porsche. Abbiamo fatto l’autostrada fino a Piacenza e indietro, con la Maserati. Quello della Porsche non ha mai voluto portarmi. Poi ne conosco uno con la Bmw e due con l’Alfa, ma questi naturalmente non contano. Portami al “Barracuda”. Ma prima gira davanti ai caffè, che devo vedere se c’è qualcuno. Va’ piano, ora. -E Susy si mise in mostra, con la testa fuori, per farsi vedere dai suoi amici. Ma non incontrò nessuno, e ci rimase male.Andarono al “Barracuda”. Il locale era gremito. Appena entrati, il direttore, che conosceva Lello, gli chiese premuroso se voleva un tavolino. – No, grazie, vado via subito. -Cercarono gli amici di Susy, ma non riuscirono a vederli. – Staranno ballando? – si chiese Susy con disappunto.Erano nella calca. Lello stringeva il braccio alla ragazza, perchè la massa di gente non li distaccasse. – Balliamo, – disse Susy. – Così vediamo se sono là in mezzo. -Entrarono in pista, sballottati da una parte e dall’altra. Gomitate, spintoni. Per fortuna l’orchestra attaccò un cha-cha-cha, e la folla si diradò un poco.Ora Lello con piacere si mise ad eseguire i passi imparati in Francia. Sapeva, con questa danza, di poter brillare. Staccato dalla ragazza, si muoveva sinuoso intorno a lei, un po’ avanti, un po’ indietro, un po’ di fianco, un po’ girando su se stesso, come il fagiano, nella sua danza d’amore, saltellava a ritmo, sicuro di far colpo. Ma Susy, proprio come la fagiana, lo guardava goffa, indifferente, non sapeva seguirlo. Così l’esibizione di Lello andò a vuoto. Poi l’orchestra attaccò un lento, e Susy si avvicinò, lo cinse, un braccio al collo di lui, gli si incollò con tutto il corpo.Tante volte Lello aveva notato come fosse usuale questo modo di ballare nelle ragazze. Lo facevano perchè piaceva loro il compagno di ballo, o, a giudicare dalle facce annoiate che sfoggiavano, tanto per dovere?Lello si sentiva turbato. La ragazzina era avvinghiata a lui, con la testa contro il suo collo. Il sangue di Lello si rimescolava. Respirò a fondo, tirando in dentro la pancia. Ma forse Susy stava ballando con la faccia annoiata di tutte le altre ragazze del suo genere? Lello staccò il viso per guardarla. Susy guardò in su verso di lui. La luce non era eccessiva, eppure egli vide chiaramente che, nel sorridere, Susy arrossì. Poi tornò a serrarsi a lui.Allora Lello non capì più nulla. Si mise a dirle paroline gentili. Quale sorpresa scoprirla così donna. Lui che la ricordava bambina. Perchè lei era una vera donna. Capace di far girare la testa a chiunque. Che se lui fosse stato più giovane… – Perchè sai quanti anni ho io, Susy? – era meglio mettere subito le carte in tavola. – Cosa importa! – disse Susy.Cosa importa! Le parole gli rimbalzarono ingigantite nel cervello. Le disse ancora altre belle parole, che gli venivano spontanee, senza fatica alcuna. Ma ne ebbe rimorso. Sentiva che colpivano facilmente il segno, troppo facilmente. Stava approfittando indegnamente della propria esperienza, della propria superiorità, per abbagliare, per ingannare questa preda facile, inerme.L’orchestra attaccò un rock, ed essi abbandonarono la pista. – I tuoi amici non ci sono? Vuoi che li cerchiamo da qualche altra parte? – – Oh no, restiamo qui. Si sta così bene. -Ancora Lello sentì un certo orgoglio.Andarono al bar. – Cosa vuoi? – – Un’aranciata. – disse lei decisa.Lello stava per ordinare un whisky per sè, ma ci ripensò, e seguì l’esempio di Susy. Non aveva mai bevuto l’aranciata in un night-club. Lo divertiva.Coi bicchieri in mano sedettero per terra sull’orlo della pedana, i piedi nella sabbia. Guardavano le onde, pigre, che si sfasciavano lente abbandonandosi alla riva.Adesso che il ballo era finito, che non la stringeva, e non gli venivano le paroline di prima, si accorse di non sapere cosa dirle. Chiederle della scuola, dei genitori? Come si fa? Era troppo una stonatura. E d’altronde, parlarle della luna, del mare? Erano discorsi che non aveva mai saputo fare. E così restarono in silenzio.Fu lei a toglierlo dall’imbarazzo. – Facciamo un giro in macchina. -Uscirono dal locale, e la portò fino a Rapallo. Lei voleva guidare. Ma lui, immaginarsi! Lui, geloso com’era della sua automobile, che non la lasciava toccare a nessuno.La portò nell’entroterra, verso il Golf. – Lasciami guidare! – lei insisteva. – Di cosa hai paura? Ho guidato una Maserati. Qui non c’è nessuno. -Non c’era nessuno. La strada era buia. Lello fermò la macchina. Cercò di baciare Susy. Lei lo respinse imbronciata. – Ti lascerò guidare, te lo giuro. Ma non stanotte. Di giorno, su una strada diritta, si. – – Me lo giuri proprio? – – Si. -Così riuscì a baciarla. Non fu un bacio di passione se non da parte di lui. Susy, che sembrava così piena di pepe, ora invece era smorta, come durante il ballo. Una ragazza tranquilla. Si lasciava toccare il seno sopra il maglioncino senza difficoltà, ma quando lui tentò di andare oltre, si rivoltò infuriata. Voleva scendere dalla macchina, tornare a casa a piedi. Poi aggiunse che no, a piedi non ci sarebbe tornata, perchè a camminare venivano le gambe grosse, però che lui si comportasse bene. Tornò a baciarlo, ma non si lasciò più neppure toccare il seno.I baci della Susy erano sentimentali, sapevano di ottocento, gli ricordavano quelle onde tranquille che si sfasciavano abbandonandosi. E lei si abbandonava, a occhi chiusi, abbracciandolo, ma non era un mare in tempesta, non c’era impulso di passione, era un mare in bonaccia; baciava, sì, ma anche questo rientrava nel gioco, l’uomo anziano, la Ferrari, ed ecco l’avventuretta: completava la serata.E Lello, che si sentiva bruciare come da molti anni non gli succedeva, trovava una spiacevole limitazione alla propria gioia in questa partecipazione apatica della ragazza. Dopo un po’ fu lui stesso a smettere di baciarla. – Sarà meglio tornare a casa. – disse.Tornarono silenziosi: anche ora, staccato fisicamente da lei, si accorse di non sapere cosa dirle.Quando la riportò dai genitori, scherzarono tutti per un po’ sul fatto che Susy era stata a ballare con Lello anzichè con i suoi amici.Susy non ascoltava neppure. Giocava col cagnolino tutto allegro per il ritorno della padroncina, inseguendolo e facendosi inseguire. – Temo però che la Susy si sia un po’ annoiata. – disse Lello per tagliare corto.Dopo che, senza curarsi di nessuno, ebbe giocato per un po’, Susy salutò tutti e, sempre seguita dal cagnolino, andò a letto.Quando vide quei pantaloni rossi uscire dalla porta, quei lisci capelli biondi che scendevano a metà schiena, a Lello tornò il desiderio, e si diede dello sciocco, poteva stare con lei di più, e invece era stato lui stesso a voler abbreviare tutto. Ora chissà quando avrebbe avuto un’altra occasione come quella di stanotte.C’erano lì, oltre a loro, i due Morrone, che invitarono tutti sul loro yacht per una passeggiata l’indomani. Lello si rallegrò pensando che avrebbe rivisto la Susy.Fumava una sigaretta dopo l’altra, la partita a carte non finiva mai; sbadigliava, Francesca era intenta al gioco. Come fare a dirle di tornare a casa?Lui lì non aveva altro da fare. Pensava alla Susy per distrarsi, ma passarono due ore, e in due ore anche i pensieri più piacevoli si esauriscono e perdono mordente. Bevve molto whisky per passare il tempo, alla fine andarono a casa.Quando Francesca fu a letto, Lello andò da lei. Francesca era distesa sopra le lenzuola, leggeva il romanzo del mattino. Aveva indosso una corta camicia da notte trasparente, e Lello sentì rinascere il turbamento vedendo il corpo di sua moglie.Era un corpo così ben conservato, perchè era una longilinea snella, che sapeva curarsi. A trentanove anni portava il bikini meglio di tante ragazzine. Non una smagliatura. Solo il suo seno era ormai un po’ cadente, quel seno che mai si era gonfiato di latte.L’eccitamento causatogli poco prima dalla Susy si fuse alla seminudità rivelatrice di Francesca per riempire Lello di desiderio. Le si stese accanto. Lei girò la testa a guardarlo. Si fissarono per un lungo momento. Francesca capì il suo desiderio.Si accostò al petto di lui e cominciò a strofinarlo con la guancia; poi gli stuzzicò i piccoli capezzoli con i denti, mentre gli afferrava il membro ormai eretto; lo costrinse a voltarsi su un fianco; poi gli girò le spalle accoccolandosi contro di lui e tirandosi un suo braccio sotto di lei. Lello istintivamente la prese per le tette lasciando che il membro premesse contro la morbidezza delle natiche; le baciava il collo e le orecchie e le sussurrava dolcezze. Francesca, con un movimento sinuoso, si sfilò le mutandine, poi scivolò un poco verso l’alto e fece in modo con una mano che il pene scivolasse nel solco fra le sue chiappe; lui lasciò una tetta, e con una mano le accarezzò il ventre, l’ombelico e l’inizio del pelo; poi ancora più giù sentì la fessura di Francesca invitante e la carezzò con tutta la mano; nel farlo urtava la punta del proprio uccello che sbucava fra le cosce di lei. Lello introdusse un dito nella fessura della moglie, poi due; cominciò a massaggiarla dentro e fuori interrompendosi ogni tanto; quando si fermava la sentiva mugolare: – Nooo…ancora…ancora. – e la vagina di Francesca sembrava risucchiare le sue dita. Quando lui cercò di sostituire le dita con il pene la posizione risultò scomoda; Francesca allora si girò prona e lo attirò su di se. Lui ora la copriva completamente con il proprio corpo e poteva baciare il suo volto riverso, il collo e le spalle, nella scollatura della camiciola da notte, mentre il suo membro scorreva lentamente nel solco di lei. Francesca allora, si inarcò sulle ginocchia, costringendolo a fare altrettanto; lui si trovò in ginocchio sul letto fra le cosce aperte, dietro di lei. Guardò sotto di sè e vide che lei si offriva spingendo tutto il bacino all’insù; allora lui afferrò con la destra il proprio pene, lo strofinò un poco lungo la fessura umida e poi e ne appoggiò la punta contro l’apertura della vagina. Bastò un piccolo movimento di lei e l’intero arnese fu risucchiato nell’apertura scivolosa. Lello si trovò con il proprio grembo aderente alle morbide chiappe di sua moglie e provò una sensazione di piacere indescrivibile. Rimase immobile finchè potè, poi si curvò lievemente e prese a massaggiarle tette e capezzoli; il pene cominciò a muoversi avanti e indietro e ogni volta lui faceva in modo di arrivare quasi ad estrarlo completamente; poi col peso del suo corpo spingeva in avanti fino a sentire come uno schiaffo contro le chiappe di Francesca. Lei ad ogni affondo mugolava sempre di più, poi Lello sentì che anche lei spingeva all’infuori per incontrarlo meglio; il ritmo divenne inarrestabile e dopo poco Lello venne, gridando: – Eccomi… Francesca…eccomi…siiiii!! – e seguitò a pompare finchè sentì che anche le gambe contratte di lei si rilassavano. Francesca si lasciò andare sul letto e lui le crollò sopra e rimasero come morti. Quando lui sentì che l’uccello sazio scivolava fuori, si lasciò cadere su un fianco, attirò sua moglie contro di se.Lei appoggiò la testa al petto di lui e dopo trenta secondi dormiva saporitamente. Lello sgusciò dal suo abbraccio, si alzò dal letto. Se ne tornò nel proprio. Pensò alla Susy. Una volta, pensieri come questi non l’avrebbero lasciato dormire. Ma erano tempi passati, il suo sangue ormai non bolliva più se non per una ragione definita, presente. Era pur comodo. Se avesse avuto lì la Susy, senza dubbio non l’avrebbe lasciata in pace per tutta la notte. Invece, non avendola, si chiudevano gli occhi e si dormiva. Il mattino dopo, Francesca e Lello scesero al porto di Santa Margherita e si imbarcarono sul “Tintarella”, lo yacht dei Morrone. C’erano a bordo i due Morrone coi figli, tre mocciosi tra i dieci e i quindici anni, e i due Franzotti con la loro figlia Gioia, una ragazzona diciottenne.Mimmo Franzotti era stato compagno di scuola di Lello, ed erano restati grandi amici, così a Lello la compagnia fece piacere, ma non capiva perchè non ci fossero i Dal Pozzo. Pensò dapprima a un ritardo, ma quando il “Tintarella” salpò, non potè trattenersi dal chiedere.Gianna Morrone gli disse che non erano venuti, perchè dovevano andare alla Messa di mezzogiorno e poi, al pomeriggio, dovevano far studiare la Susy, quindi non potevano permettersi di passare l’intera giornata sul mare. Che poi quella era la scusa ufficiale, ma in realtà Gianna sapeva benissimo che Lalla Dal Pozzo soffriva il mare, e riusciva a malapena a sopportare per un paio d’ore il motoscafo di suo marito, con l’acqua tranquilla. Una giornata intera, e in una barca grossa poi, non se ne parlava. Specialmente un giorno come oggi, che il vento era fresco e il mare era rotto.Lello, che contava di rivedere la Susy durante questa gita, rimase molto contrariato, ma si sforzò di nasconderlo.Dopo essere usciti dal porticciolo, fecero un’ottima traversata fino a Sestri. Là buttarono l’ancora, e tutti si tuffarono a nuotare, mentre i due marinai preparavano la colazione.Lello si interessò un poco a Gioia Franzotti, curioso di vedere come erano queste ragazzine che fin’ora non aveva avvicinate. Gli parevano così diverse da quelle dei suoi tempi. Gioia era un altro tipo che non Susy. Meno bella, ma molto meno bambina. Pareva assai disinvolta e sicura di se, sapeva sostenere la conversazione, intrattenere sia gli adulti sia i bimbi dei Morrone, sempre ridente, sempre su di giri.Tornava a Lello la malinconia di non avere una figlia. Immaginava la felicità, la fierezza di poterla portare in giro. Sensazioni ormai purtroppo relegate nell’impossibile.Mangiarono in coperta, un’ottima zuppa di pesce, poi si stesero qua e là, chi al sole, chi all’ombra, chi addirittura dentro, in cabina, a dormicchiare e a chiaccherare. – Tu torni a Milano stanotte? – chiese Mimmo a Lello. – Si. Verso le nove: così da essere a Milano a mezzanotte o all’una al massimo. E tu? – – Farò anch’io così. E’ l’ora migliore, mentre la gente mangia. Per quanto, purtroppo, ci sono tanti che fanno il nostro ragionamento, e le strade sono congestionate lo stesso. – – Ma sempre meno che un’ora prima o un’ora dopo. – – Si, e in ogni caso si riesce a finire la statale entro mezzanotte, prima che gli autotreni ripiglino a ingombrarla. -Erano stesi al sole, sul ponte. – Quanti anni ha tua figlia? – – Diciotto. – – Conosci la figlia dei Dal Pozzo? – – No. – – Ah, non sono amiche? – – Non credo. Non chiedermi troppo di Gioia. Se pensi che sappia qualcosa della sua vita, sei un illuso. – – Non sai neanche, quali amiche ha? – – Non so niente. E’ una generazione particolare, sono ragazze che fanno di testa loro, e anche se cerchi di arginarle è un lavoro da Sisìfo, hanno troppi mezzi a disposizione per fare tutto quello che a loro pare. Vedo solo Gioia entrare e uscire di casa. Quello che fa, chi frequenta, è inutile anche chiederlo. Non risponde. Per fortuna è una generazione tranquilla, senza grilli per il capo, abbastanza conformista, priva di ideali rivoluzionari. Sono nell’anima dei bravi piccoli borghesi, e basta, anche se qualche manifestazione esteriore sembra contraddirlo. No, non sono scapestrati, tanto meno anarchici. Seguono l’andazzo del mondo, e il mondo ha un andazzo conformista. Ben diverso dalla nostra generazione. – – Sembri conoscerli bene, allora. – – Mi diverto a studiare questi ragazzi, e, credimi, se lascio Gioia così libera, non è perchè io schivi le mie responsabilità di padre, o perchè sia incapace di impormi, ma perchè ho capito che una ragazza come lei, dal fondo buono, equilibrato, al giorno d’oggi deve essere lasciata libera, deve vedere che noi le crediamo, deve costruirsi da sola le sue armi di difesa, perchè è in grado di farlo, perchè altrimenti si sentirebbe infelice, fuori dalla sua epoca, estraniata dai suoi coetanei. – – E così, invece? – – Guardala, – disse Mimmo orgoglioso. – Io sono così fiero di lei, e un po’, in conseguenza, di me stesso. -Gioia era lì che rideva allegra. – Vedi, noi genitori non dobbiamo mirare ad altro, e quando ci siamo arrivati non possiamo desiderare di più. La ragazza è interamente felice. – Fu un settembre tiepido, piacevole, senza piogge. Francesca restò tutto il mese a Santa Margherita, e Lello ogni venerdì si recò a trovarla. Però non gli capitò più di vedere la Susy o i Dal Pozzo. Nè ne chiese alla moglie, per evitare di insospettirla. Ogni venerdì tuttavia, partendo da Milano, sperava di incontrare ancora la ragazzina. Evitava di interrogare se stesso sulle ragioni di questa speranza. Anzi, le negava. Lui si recava sul Tigullio per stare un po’ con Francesca, la Susy non c’entrava niente.Combatteva tutta la settimana contro il pensiero della Susy. Dal lunedì al venerdì. Non aveva voglia di vedere amici o altre donne. Lavorava duro, la sera stava in casa a leggere. Poi, il venerdì pomeriggio, lui combatteva un po’ contro la tentazione, infine, con una scusa o con l’altra, montava sulla Ferrari e prendeva la strada di Genova. Non voleva confessarsi che era per la Susy, ma quando non la vedeva, restava scontento, pieno di disappunto.Si riproponeva ogni volta di telefonare, tornando a Milano, a Renato Dal Pozzo. Ma tornato a Milano, rinunciava. Cosa avrebbe potuto dirgli? Non poteva certo chiedergli di sua figlia. E d’altronde, cosa gli importava della Susy? Ci pensava adesso, che era solo, ma l’avrebbe dimenticata quanto prima.

