La strada scorreva tortuosa, srotolandosi dal fianco della collina brulla come un grosso serpente nero disteso al sole. Con il motorino impiegavamo pochissimo a percorrere i pochi chilometri che separavano il campeggio dal posto che avevamo eletto quale sede definitiva delle nostre sedute abbronzanti, dopo aver girovagato l’isolotto greco in lungo ed in largo nei primi giorni della vacanza. Io e Silvia avevamo 18 anni, una maturità fresca di conseguimento, un fascio di soldi frutto di regali dei parenti e risparmi di un anno su pizze, discoteche e creste sulle spese. La tenda del fratello grande, il sacco a pelo nuovo, un motorino noleggiato in Grecia e ci sentivamo le padrone del mondo. La cosa più importante era che avevamo ancora otto giorni di vacanza premio prima del rientro in Italia. “Eccolo li” disse Silvia, indicando il grosso cespuglio al limite della curva che avevamo preso come punto di riferimento per ritrovare la stradina per la piccola cala. Era stato un colpo di fortuna, tre giorni prima, a far si che scoprissimo quel piccolo angolo di paradiso. Dopo una giornata a spasso col motorino Silvia era stanca, ed anch’io non ero in forma perfetta. Avevamo visto un po’ di spiagge sulla corta costa dell’isola e visitato il piccolo paesino di pescatori pieno zeppo di comitive di ragazzi sbavanti che credevano bastasse essere in vacanza per rimorchiare. Avevamo anche scartato l’idea di accettare l’invito di un paio di loro più carini degli altri e ce ne tornavamo alla nostra tenda per la sera. La fortuna fu che la strada era in salita ed il motorino con noi due sopra non poteva raggiungere velocità eccessive, così quando Silvia perse il controllo del mezzo all’uscita della curva ci limitammo ad andare dritte contro il grosso cespuglio, cavandocela con un ruzzolone, un paio di graffi a testa ed una gran paura. “Ma sei impazzita? dormivi?” “Scusa… non so come sia potuto succedere…” “Lo so io, tu pensi di essere una centaura… ti ho detto un milione di volte che devi andare piano!” Ci avvicinammo al cespuglio per recuperare il motorino e tirandolo via scostammo in parte i rami, rivelando un piccolissimo sentiero che scompariva subito dietro la roccia quasi a piombo sul mare. Se c’è una cosa che Silvia sicuramente non conosce è la paura. Prima che potessi dire una sola parola si era già addentrata sul sentiero ed era scomparsa dietro la roccia. “Per favore Silvia, stai attenta…” Pochi minuti dopo tornò su con aria trionfante. “L’ho trovato!” “Cosa?” “Il posto perfetto. Vieni a vedere.” Mi prese per mano e mi condusse ad una specie di scalinata naturale, che scendeva dietro il costone fino ad una piccola ma graziosissima insenatura. C’era un tratto di spiaggia ghiaiosa, una piccola curva sul fondo dell’insenatura poneva al riparo dagli sguardi dal mare chi vi si fosse addentrato con una barca, e intorno non c’era anima viva. L’esposizione era quasi perfetta, permetteva la vista diretta del sole da metà mattinata al tardo pomeriggio. “Che te ne pare?” Silvia sembrava un agente immobiliare che dovesse vendermi la casa dei miei sogni. “Sembra perfetto… ma perché non lo usa nessuno?” “Cosa ti importa? meglio, no?” “Non so…” dissi più per non dargliela vinta subito che per altro. “Deciso, da domani ci stabiliamo qui. Non c’è nessuno, potremmo fare quello che ci va, senza rompiballe tra i piedi!” Avevo oramai capito che era inutile protestare, e comunque anch’io mi ero convinta. Tornammo su e riprendemmo la strada del campeggio, dove la sera ci preparammo ad affrontare quella che Silvia definiva la “seconda fase” della vacanza. E la seconda fase si protraeva ormai da tre giorni, fatti di bagni, sole, libri e pettegolezzi. Il tutto distese mollemente nel nostro piccolo paradiso personale. Anche quel giorno, dopo aver nascosto il motorino dietro il grosso cespuglio ci eravamo preparate alla giornata. La tranquillità del posto ed il fatto che fino ad allora non si fosse vista anima viva ci aveva rese audaci, ed avevamo deciso di indossare dai costumi che avevamo acquistato appena prima della partenza, di nascosto dai nostri genitori. Erano a dir poco audaci, ma costavano poco. Anche perché non erano composti da una gran quantità di stoffa. “Se non li usiamo ora non potremo usarli mai più, non trovi?” mi disse Silvia. “Pensa alle amiche in palestra, che rabbia quando vedranno il segno… loro li con i genitori addosso ed i costumi olimpionici!” ridevamo di sciocchezze simili, ma eravamo in vacanza, no? Ci spogliammo in gran fretta, restando con i nostri minuscoli perizoma “brasiliani” ed i reggiseni che in pratica erano solo delle stringhe di stoffa appena più larghe sui capezzoli. Io non avevo, e non ho tuttora, un grosso seno da coprire, quindi tutto sommato ero quasi decente. Il sedere era fuori, ma non era male da guardare… e comunque Silvia conosceva ogni parte del mio corpo, forse meglio di me, così come io del suo. Eravamo amiche da sempre, dividevamo ogni esperienza e non c’erano segreti tra noi. Avevamo perfino diviso il nostro primo amore, un paio di anni prima. O meglio, io avevo ereditato da Silvia un tipo molto carino, di qualche anno più grande di noi, che si era messo prima con lei (ovviamente) e poi, una volta ottenuto il suo scopo, aveva deciso che anche l’amica non era male (bontà sua). Aveva chiaramente raggiunto la méta anche con me (non senza il mio aiuto…) ed era scomparso nel nulla, tutto sommato neanche tanto rimpianto anche se, stando ai racconti delle prime esperienze delle nostre amiche, a noi non era andata poi tanto male. Anzi… Silvia era decisamente più difficile da contenere all’interno dei nostri azzardati acquisti, e così dopo un’oretta di tentativi passata a ricacciare dentro i limiti della decenza i suoi seni, decise che poteva fare a meno della parte superiore del costume. Le successive ore trascorsero pigre, alternando brevi bagni per tenere umida la pelle a piccoli pisolini sdraiate sopra la ghiaia. Forse fu mentre dormivamo che la barca arrivò. Quando aprii gli occhi era già ferma all’imbocco della rada, ad una certa distanza dalla costa. Trasalii alla sua vista, e lanciai un piccolo urlo, più per la sorpresa che per lo spavento. Silvia si alzò di scatto, destata dal suo torpore. “Ma cosa sta succedendo?” “Li, guarda!” Se fossero atterrati i marziani forse avrei avuto la faccia meno sorpresa, tutto sommato. Pensare che in quel posto, nel “nostro” paradiso, potesse entrare qualcun altro non mi era facile da comprendere. Intanto sulla barca si notavano dei movimenti sulla coperta, e poco dopo due figure si eressero stagliandosi contro il profilo del natante. Da lontano non si scorgeva molto di loro, ma si intuiva chiaramente che si trattava di un uomo ed una donna, entrambi abbastanza giovani. Vagarono intorno con lo sguardo, poi iniziarono a confabulare tra loro. Ad un tratto l’uomo si tuffò e si diresse a grosse bracciate verso la nostra caletta. Il tutto si svolse abbastanza rapidamente, e solo quando egli si avvicinò a riva riuscimmo a distinguere meglio la figura. Il giovane che si issò ansante sulla spiaggia ghiaiosa era sui trent’anni, la carnagione chiara era abbronzata dal sole ed aveva raggiunto un colore che nella luce del pomeriggio sembrava oro. Le masse muscolari erano ben evidenziate, testimonianza di una sicura pratica sportiva. Il viso aveva dei tratti chiaramente nordici, una spruzzata di lentiggini ed una corta frangetta di capelli biondi incorniciavano i due occhi più chiari che avessi mai visto. Sia io che Silvia lo fissavamo, forse a bocca aperta, ammirando quella visione sorgente dal mare simile ad una Venere botticelliana in versione maschile che ad un tratto ruppe il silenzio che si era creato. Il suono della sua voce sembrò riportarci alla vita. Silvia si coprì i seni con le mani, io cercavo disperatamente di assumere un contegno, rendendomi ancora più ridicola in quel costume da prostituta di serie B. La lingua parlata dal tipo non era comprensibile, e lui dovette rendersene conto immediatamente, per cui passò ad un inglese abbastanza stentato. In quanto a noi, le nostre conoscenze con la lingua dei figli di Albione si limitava alle nozioni fondamentali sulle quali la scuola ci aveva edotto. Riuscivamo a chiamare con il proprio nome circa una ventina di oggetti, a ricevere un bicchiere d’acqua, a salutare e poco altro. Con un po’ di difficoltà capimmo comunque che l’intenzione del fauno era quella di poter utilizzare la caletta insieme alla ragazza, senza darci troppo fastidio. Credemmo di comprendere anche che se non fossimo state d’accordo si sarebbe ritirato in buon ordine. Forse fu per non sembrare scortesi, più probabilente perché era davvero un bel ragazzo e ci spiaceva non averlo almeno sotto gli occhi, comunque gli dicemmo di si. Anzi, fui io a dirglielo cogliendo di sorpresa Silvia, che non era pronta ad una simile mia iniziativa. Comunque il ragazzo estrasse dal cilindro un sorriso che doveva riservarsi per le occasioni migliori, emise quello che si rilevò ad una successiva analisi un “thank you” e si voltò verso la barca, facendo un gesto ampio alla ragazza che era rimasta a bordo della barca. A sua volta lei si tuffò con uno stile da morire di invidia e con poche bracciate era già entrata nell’insenatura. Mi sorpresi a chiedermi quanto ci avrei messo io, dopo tre anni di piscina. La risposta non mi soddifò affatto. La bionda emerse all’incirca nello stesso punto dove era approdato il compagno e si diresse verso di noi a passi decisi. Pur con tutta l’esperienza che avevamo nello smontare tutte le bellezze che ci indicavano i nostri compagni dovemmo arrenderci all’evidenza. La tipa era davvero bella, un viso forse troppo da bambola ma due labbra carnose, un nasino all’insù e grossi occhi azzurri. Il corpo era una specie di manuale di come dovessero essere fatte le parti di una donna. Indossava solo una mutandina composta da due minuscoli triangolini di stoffa blu oceano, tenuti insieme da una stringa celeste legata alta sui fianchi. I seni, sodi e torniti, erano scoperti ed il loro colore uniforme al resto del corpo testimoniava l’abitudine della proprietaria di andarsene in giro in topless. Piccoli capezzoli dall’areola leggermente più scura della pelle guarnivano come ciliegine quei due dolci sui quali i ragazzi della nostra comitiva avrebbero potuto discorrere con aria beata e sognante per intere settimane. “Hi…” Il tentativo di Silvia di salutare produsse un effluvio di parole dalla ragazza, purtroppo nella sua lingua natia. Altri cinque minuti di sforzi immani ci fecero giungere ad un compromesso. Loro avrebbero utilizzato la parte della spiaggetta dietro la roccia, quella coperta dal mare, e noi saremmo rimaste li. “Hans” e “Ulla”, i nomi che gli affibbiammo dal momento che i loro erano irripetibili per noi, si allontanarono mano nella mano verso la zona a loro destinata. “Accidenti” esclamai “ora si nasconde li dietro…” “Certo che è proprio bono, eh?” “Porca vacca… ma a me uno così quando mi capita?” dissi a voce alta, forse pensando a Renato, il ragazzo che mi filava negli ultimi mesi, neanche lontanamente paragonabile al vichingo. Iniziammo a ridere tra noi, pensando agli approcci estivi che stavano tentando i nostri amici sulle spiagge italiche, nei modi da perfetti bulli che gli erano congeniali. “E poi si lamentano se non gliela diamo…” fu il commento di Silvia. Tornammo a prendere il sole. Il pomeriggio avanzava oramai, e quando mi girai sulla schiena per abbronzarmi davanti decisi di non rimettere il reggiseno del costume. Tutto sommato ero l’unica donna nei paraggi ad indossarlo, e mi semtivo stranamente fuori luogo. Continuammo per un altra oretta a prendere il sole ed a bagnarci con brevi immersioni in quell’acqua meravigliosa. La presenza dei due vicini non era praticamente avvertibile. Silvia iniziò a nuotare, seguendo un percorso stabilito naturalmente nei giorni precedenti. Si andava da un punto definito della spiaggetta ad una piccola roccia sporgente, circa dove l’insenatura curvava dietro la roccia, la si toccava e si tornava indietro. Nelle brevi gare dei giorni precedenti avevo stabilito una specie di record, anche se nelle nuotate in coppia Silvia arrivava regolarmente davanti a me. Iniziò a muoversi in acqua lentamente, senza accelerare la frequenza delle bracciate. Si spostava silenziosamente, e non riuscivo a capire cosa stesse facendo. Lo capii ad un tratto, quando invece di toccare la piccola sporgenza rallentò ancora di più e la superò, immergendosi ancora un po’ nell’acqua. Si avvicinò alla roccia e si scorse appena al di la. Rimase circa un paio di minuti a guardare, poi tornò indietro. Quando arrivò di fronte a me aveva le guance congestionate. “Ce l’ha… mio dio, non ne ho mai visto uno così!” “Cosa stai dicendo?” “Sono nudi, tutti e due… stanno prendendo il sole nudi…” “E…?” “E nulla. Prendono solo il sole… ma lui ha un’erezione da paura… mai visto un affare del genere…” “Non che tu ne abbia visti molti, in fondo…” dissi io per cercare di allentare la tensione che si era creata. “Si, ha parlato Lady Godiva…” mi schernì lei. In effetti le nostre esperienze sessuali complete non erano numerosissime, si potevano contare sulle dita di una mano. E forse ne sarebbe avanzata qualcuna. “Comunque è davvero… davvero…” Silvia cercava una parola. Poi la trovò. “Bello. E’ davvero bello.” “Cosa può esserci di così bello, scusa… in fondo è solo un… beh, insomma, mi hai capito, no?” Silvia non mi rispose, e si distese a pancia in giù sul suo asciugamano. Passarono cinque minuti durante i quali le farfalle avevano preso a volare nel mio stomaco. Avevo, ed ho, un normale appetito sessuale, nulla di esagerato, ed in quel momento iniziai a dare la colpa delle farfalle al fatto che non avevo avuto più in rapporto da molto tempo. Avevo toccato un ragazzo per l’ultima volta circa un mese e mezzo prima, un lungo petting durante una festa. E mi ero masturbata un paio di volte da allora. Poi nulla più. Le farfalle volavano, e scendevano con uno strano formicolio verso il mio monte di Venere. Quasi all’improvviso, come se temessi di ripensarci, mi alzai ed entrai in acqua. La voce di Silvia mi ghiacciò. Pensavo dormisse. “Se stanno scopando chiamami, non fare la stronza…” Mi voltai e la guardai, indecisa se mandarcela o meno. Mi sembrò di notare un movimento sotto la stoffa del suo perizoma, tra le gambe. Iniziai ad avvicinarmi alla roccia, facendo talmente piano che mi sembrava di essere ferma. Nella mia pancia le farfalle erano impazzite, tra le mie gambe l’umidità non era più imputabile solo all’acqua. Quando arrivai alla roccia mi fermai un attimo. Raccolsi tutto il coraggio che avevo e sporsi la testa al di la del piccolo sperone. E capii. Erano a non più di sette o otto metri, sdraiati fianco a fianco. Li vedevo di tre quarti, dal pelo dell’acqua. Il mucchietto di stoffa che doveva essere la mutanda della ragazza era appallottolato di fianco a loro, unitamente al costume multicolore che indossava il ragazzo. Erano ambedue sdraiati sulla schiena, e si tenevano per mano, gli occhi probabilmente chiusi. Il respiro alzava ed abbassava i loro petti seguendo uno schema casuale. Seguii per un po’ i seni della donna che si alzavano ed abbassavano, scorsi lo sguardo lungo la pancia inesistente ed incontrai la leggera peluria bionda del pube. Notai la perfetta rasatura della parte bassa, le grandi labbra visibili tra le cosce semiaperte. Poi, infine, lo sguardo si spostò sul corpo del ragazzo. Direttamente li. E, come dicevo, capii. Sembrava fosse dotato di una sua vita autonoma, costretto a seguire in corpo del ragazzo solo perché attaccato a lui. Era… maestoso, avrei detto. Ma anche bello, in fondo, rendeva bene l’idea. Lungo, ma non eccessivo, si ergeva teso dal basso ventre di lui senza poggiare sulla pancia. Se lo avesse fatto, probabilmente avrebbe superato ampiamente con la punta l’ombelico. Era turgido, non gonfio, di spessore costante dalla base alla punta. Solo verso la fine si restringeva, appena sotto il glande, che terminava rosso ed altezzoso lo scettro. La superficie era solcata dai rigonfiamenti delle vene, piccole e grandi, che ne animavano la linea. Bello. Si, forse era proprio la parola adatta. Provai ad immaginare la sensazione del toccarlo, il suo scorrere sotto le mie dita. Ne percepii il calore, la vellutatezza della pelle che scorreva sul turgore del membro. Lo immaginai alle prese con il suo naturale nido, il glande che scorreva contro le grandi labbra bagnate, toccava la clitoride e ridiscendeva fino all’ano, poi di nuovo, lentamente. Fino al momento nel quale, guidato da un atavico istinto, avrebbe riempito interamente il mio corpo, senza sforzo, completamente, fino a raggiungermi l’utero. Le farfalle non esistevano più. Al loro posto si erano sostituite enormi rondini, che svolazzavano felici come a primavera nel mio ventre. Se fossi stata sulla spiaggia le gambe mi avrebbero ceduto, ma in acqua non si poneva il problema. Le mie riflessioni furono interrotte dalla donna, che disse qualcosa in finnico al ragazzo. Lui sorrise. Lei parlò di nuovo, lui girò il volto verso di lei e la guardò, poi tornò a distendersi. Quindi, dopo un po’, annuì con la testa, accompagnando il movimento da un mugolio. Lei si girò sul fianco e si alzò, poi si diresse verso l’acqua, e quindi incoscientemente verso me. Io mi feci piccola piccola, restai immobile, avevo paura anche di respirare. In quegli attimi cercai una scusa adatta a giustificare la mia presenza li, e mi rendevo conto di non trovarne nessuna. Lei nuotò fino a pochi metri da me, poi con una stupenda capriola in acqua si voltò e tornò a riva. Uscì e si avvicinò al ragazzo. Si pose su di lui, in piedi a gambe larghe, e prese a far scolare l’acqua fredda sul corpo del giovane, utilizzando i lunghi capelli biondi come una spugna. Al contatto con l’acqua il giovane arcuò il corpo, ed il fallo svettò ancora di più. Io repressi un mugolio. La ragazza scavalcò il corpo del compagno e si sistemò in ginocchio dietro di lui, che venne quindi a trovarsi tra lei e me. Abbassò lentamente la testa verso il ventre, ed io mi sorpresi ad aprire la bocca come se avessi dovuto accogliere in essa l’uomo. Ma lei non lo fece. Posò la punta dei capelli sul ventre del ragazzo ed iniziò a scorrerli sul corpo, secondo un metodo evidentemente collaudato. La testa si muoveva da un lato all’altro del giovane, che dal canto suo si scuoteva a causa un po’ del solletico, un po’ della fredda sensazione datagli dall’acqua. Il fallo divenne se possibile ancora più grande. All’improvviso lei smise di giocare col compagno e gli chiese qualcosa, ricevendo come risposta un mugolio sommesso. Le mani presero ad accarezzare il petto del giovane, scorrendo su di lui come se lo stesse modellando dalla creta. Con le dita segnava i limiti della muscolatura del petto, accarezzava la gola, sfiorava i capezzoli. Poi passò agli addominali, e li ridisegnò ad uno ad uno. Io ero in coma. Non capivo più nulla, non mi era mai capitato nulla di simile. Mi appoggiai col petto alla roccia, cercando il sostegno che il corpo non riusciva più a darmi. Lei prese in mano l’uomo, ed io mi morsi le labbra. Iniziò a scorrere con una mano l’asta, ed io smisi di esistere, annullandomi in quel gesto. L’altra mano accarezzava il petto, strizzava i capezzoli del ragazzo, seguiva la linea delle labbra. Ma la prima continuava inesorabile il movimento, su e giù, su e giù… lenta, perpetua, inarrestabile. Iniziai a respirare seguendo il ritmo che la ragazza impresse alla sua opera. Lui si muoveva appena sotto il tocco abile della donna, lei non aveva altro pensiero che il piacere da donare a lui. Cambiò la mano operante senza che me ne accorgessi. Ora la destra impugnava l’uomo, la sinistra gli accarezzava le gambe. Si aprirono, e la mano si spostò sullo scroto. Lo soppesò, lo strinse, lo accarezzò, poi scese. Un gesto rapido, un colpo deciso, ed uno scatto del corpo del giovane. Poi nulla, l’immobilità per un paio di secondi. A me sembrò un’eternità. Poi la scena riprese vita, come se non si fosse mai interrotta. Su e giù, su e giù. L’altra mano scorreva da un lato all’altro, sembrava roteasse il polso con movimenti lenti ma decisi. Su e giù, il ritmo accellerò, ed il mio respiro con lui. Su e giù, ora senza sosta, ed io non riuscivo a respirare. All’improvviso accadde. Lui venne, eiaculando un lungo, potente getto di sperma che raggiunse la ragazza sulla spalla. Continuò per altri secondi, durante i quali l’azione si affievolì fino a fermarsi del tutto. Era rimasta solo la figura dell’uomo a muoversi, assecondando il respiro che tornava normale. Tutto si era svolto in un silenzio irreale. Mi scossi quando lei si alzò e si avvicinò all’acqua per lavarsi. Arretrai dalla mia posizione e tornai indietro, sulla nostra riva, scombussolata ed eccitata come non ero mai stata. Silvia dormiva, ed io potetti così evitare domande che però sapevo sarebbero arrivate non appena si fosse svegliata. Notai una grossa macchia più scura sulla sua mutandina, tra le cosce. Non trascorse neanche un minuto che i due amanti riapparvero, decisi evidentemente ad andare via. Passarono di fronte a noi con l’intento di salutarci, ma videro Silvia dormire e si avvicinarono piano. Erano nudi, tenevano i costumi in mano. Evitai accuratamente di guardare l’uomo tra le gambe e cercai di sorridere loro, che risposero con un altro sorriso. Poi la donna mi guardò e si fece seria. Si avvicinò e mi chiese qualcosa indicandomi i seni. Guardai anch’io e vidi che avevo delle grosse abrasioni, non profonde, nei punti dove mi ero appoggiata alla roccia. La ragazza si avvicinò e senza chiedermi nulla prese ad esaminare le ferite, poi mi fece capire che andavano medicate. Io mi guardavo intorno spaurita, non capivo più nulla, tutto ciò era troppo. Chiamai Silvia, che si destò abbastanza velocemente. Lei parlava inglese un po’ meglio di me, e cercammo di capire. Quello che capimmo fu che la tipa era un medico, e che poteva medicare lei le mie escoriazioni a bordo della barca. Provai a rifiutare ma non ci fu verso. Mi fece indossare una t-shirt ed a nuoto raggiungemmo la barca, un piccolo cabinato. Salii a bordo con lei e ci dirigemmo in una cabina sottocoperta. Lei mi fece sedere sulla cuccetta, poi estrasse una scatola per medicazioni. Era nuda, mi sembrava di vedere su di lei i segni dello sperma dell’uomo, come e fossero macchie di inchiostro che da un momento all’altro dovessero riapparire sulla sua pelle. Si voltò verso di me e mi trovai i seni davanti al viso. Fu in quel momento che feci una cosa che non mi spiegherò mai, ed ho provato molte volte a farlo. Allungai una mano e sfiorai la pelle, seguendo il percorso che ricordavo fosse stato coperto pochi minuti prima dal seme dell’uomo. Lei restò ferma, mi lasciò fare. Poi iniziò. Prese un paio di forbici e tagliò la mia maglia davanti, aprendola come una giacca. Io la lasciai fare. Spostò i lembi a scoprirmi i seni, e fece scorrere la maglia giù dalle spalle. Io la lasciai fare. La maglia si attorcigliò intorno alle mie braccia, dietro la schiena. Avevo le spalle all’indietro, il petto esposto, il fiato corto. Le rondini volavano senza tregua. Prese dell’ovatta dalla scatola, la bagnò con un liquido verde e la strofinò leggera sui seni. Lentamente, cosparse tutte le scorticature di disinfettante. Quando ebbe finito, riprese in mano le forbici. Il lavorio dell’ovatta bagnata sui miei capezzoli aveva prodotto effetti devastanti, ero bagnata come e fossi stata immersa nell’acqua. Appoggiò le lame sulla pancia, poi le aprì e lentamente le infilò tra la pelle e lo slip. Ricordo che pensai di fermarla, poi mi dissi che non avrei mai più usato quel costume comunque. Un colpo secco, la sensazione dell’aria sulle mie grandi labbra. Con le mani mi allargò le gambe. Ne infilò una tra le mie cosce, una tra le sue. “Ci hai visti, vero?” chiese in inglese. Annuii. Non ero capace di parlare, avevo scordato come si facesse. Infilò dentro di me un dito, semplicemente. Poi iniziò a toccarmi, come facevo io. Anzi, meglio. Molto meglio. Sembrava conoscermi meglio di me. Ero libera di muovermi, di alzarmi ed andare via. Ma non lo feci. Appoggiò le sue labbra sui miei seni, strinse dolcemente un capezzolo tra i denti, lo stuzzicò con la lingua. E continuava a toccarmi, ed a toccarsi. Venni. Un torrente, un fiume di sensazioni mi travolsero. Ero sconvolta, felice. Tremavo, mi agitavo. Ho il ricordo della mia voce che urlava un lungo, roco “sii…” Lei venne dopo pochissimo, smise di accarezzarmi e si accasciò con la testa sul mio petto, posò la faccia sulla mia pancia, si dimenava appena, un lungo e roco “ahhh…” che gli usciva dalle labbra. Impiegai un po’ a capire cosa era successo. Un altro po’ a tornare in possesso delle mie facoltà mentali, e realizzai che avevo appena avuto un orgasmo. E che a procurarmelo era stata una donna. Una donna. O mio Dio… Mi scossi, in preda al panico. Lei si accorse di cosa mi stava succedendo e mi rivolse un sorriso incredibile. Si alzò, mi aiutò a togliere quello che era rimasto della mia maglia, poi andò ad un cassetto e ne tirò fuori un’altra, nera, con una scritta a caratteri gialli sul petto. C’era scritto Eros. Me la infilò lei stessa, era abbastanza lunga ed ampia da coprirmi interamente. Tornai fuori con lei, in uno stato di scombussolamento totale. Scesi in acqua dalla scaletta a poppa e nuotai fino a riva. Li mi accorsi che l’uomo era rimasto a tenere compagnia a Silvia, durante la mia assenza. Quando mi videro arrivare lui si alzò, salutò la mia amica con un sorriso e si volse verso di me. “It’s all right?” “yes…” Notai che aveva reindossato il costume. Si tuffò in acqua e poco dopo era sulla barca, sulla coperta di fianco alla donna. Salutarono con un ampio gesto della mano, poi la barca si allontanò, lasciandoci di nuovo sole. Ci guardammo negli occhi, per un lunghissimo istante, poi Silvia parlò. “Non dirmi nulla, non ora. Se vorrai, avremo tempo in seguito”. Sono passati sette anni da allora, e non ho più avuto occasione di avere rapporti con un’altra donna. Silvia sa, glielo raccontai la sera stessa, in tenda. Nei sette giorni successivi sperai che l’Eros si affacciasse nuovamente all’imbocco del nostro paradiso. Non lo fece. Cercammo le sue tracce nei piccoli porticcioli dell’isola, invano. Non ne seppi più nulla. La vacanza finì, ed insieme ad essa terminò anche la follia che ci pervase. Tornammo alle nostre vite, che mi sembrarono però più monotone del solito. Oggi, nel cassetto centrale del mio armadio, sotto una pila di indumenti intimi, c’è una t-shirt nera. Ogni tanto, quando sono sola in casa, la indosso sulla pelle nuda e mi abbandono al ricordo. Fino ad oggi sono riuscita a fermarmi un attimo prima di perdere il controllo. La sfilo e la ripiego con cura, in modo che riponendola al suo posto sia visibile solo quella scritta.
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