La piantagione del colonnello Parker era considerata la più grande, la più bella e la più ricca di tutto il sud degli Stati Uniti. Vasta quanto una regione, attraversata da ben due fiumi e ricca di terra fertile e grassa, dava lavoro a centinaia di schiavi neri e a decine di guardiani bianchi e, soprattutto, arricchiva sempre di più il colonnello. Nessuno sapeva nulla del passato di quell’avventuriero nè di come avesse fatto tutti quei soldi, ma non c’era uomo o donna, nel raggio di centinaia di miglia, compresi i politici, che non avrebbe fatto carte false pur di essere invitato alla piantagione. Vedovo di una donna bellissima che si diceva fosse una contessa russa, il colonnello Parker viveva con sua figlia Elizabeth, una splendida ragazza di diciotto anni, nella immensa villa a due piani che, con le sue quaranta stanze, era senz’altro la più grande costruzione privata dello stato. Oltre ad essere bellissima Elizabeth, la signorina Liz, come veniva chiamata da tutti alla piantagione, era una ragazza piena di vita, amante della natura e degli animali, sempre gentile e disponibile con tutti, soprattutto con gli schiavi di suo padre ai quali lei cercava in ogni modo di migliorare le tristi condizioni di vita. E il colonnello, che era noto per essere un tipo implacabile che non dava ascolto a nessuno, era talmente preso da quella sua unica figlia, la sua sola ragione di vita, che cedeva quasi sempre di fronte alle sue richieste. Così, a poco a poco, la piccola Liz era riuscita, creando scandalo e scalpore tra la popolazione bianca di tutto il sud, ad impiantare una infermeria ed un piccola scuola dove gli schiavi potevano farsi curare e mandare i propri figli ad imparare almeno a leggere e a scrivere. E, soprattutto, era riuscita ad eliminare, all’interno della piantagione, le pene corporali che i guardiani bianchi, quasi tutti avventurieri senza scrupoli armati di frusta e di fucile, esercitavano indiscriminatamente ai danni di uomini donne e bambini negri per qualsiasi mancanza, anche la più futile. Inutile dire, quindi, quanto Liz fosse amata e rispettata dalla totalità degli schiavi, tra i quali aveva gli unici veri amici. Appassionata di cavalli, Liz andava spesso a fare delle lunghe cavalcate accompagnata dallo stalliere Joe e da Cruz, una schiava negra sua coetanea che le faceva da cameriera personale e con la quale andava particolarmente d’accordo. Anche Cruz era molto bella e quando le due ragazze, nei torridi pomeriggi estivi si fermavano per un tuffo ristoratore nelle fresche acque del fiume grande, il povero stalliere negro che le accompagnava pativa le pene dell’inferno di fronte agli splendidi corpi nudi delle due ragazze che giocavano allegramente nell’acqua come natura le aveva create. Più di una volta il povero Joe, che era giovane, forte e pieno di vita, si era talmente arrazzato da doversi nascondere dietro qualche grossa quercia e menarsi furiosamente l’uccello fino a trovare un po’ di pace. Nella grande villa Liz disponeva di un proprio appartamento composto di camera da letto, salotto, studio ed una grande sala da bagno dove Cruz si prendeva cura della sua persona. Era lei che la lavava, la massaggiava, la pettinava, la spogliava e la vestiva. Ed era lei che placava i giovani ardori della padroncina. Abituata alla promiscuità della piccola capanna che divideva con genitori, zii, cugini, fratelli e sorelle, Cruz la sapeva lunga in fatto di sesso ed era in grado di soddisfare ogni desiderio di Liz. La quale, dal canto suo, non era affatto egoista, e ricambiava volentieri la cortesia. Cosicché nelle ore più calde del pomeriggio, quando il sole martellava la terra ed era impossibile anche andare a cavallo, le due ragazze trascorrevano tanti piacevoli momenti nell’accogliente penombra della stanza da letto della padroncina confessandosi i loro sogni più intimi e i loro desideri più scabrosi. A Liz piaceva soprattutto farsi raccontare dall’amica ciò che, nottetempo, avveniva nelle povere capanne degli schiavi dove, come lei ben sapeva, genitori e figli, nonni e nipoti, zii e cugini, vivevano nella promiscuità più assoluta obbligati a dormire tutti ammassati in uno spazio di pochi metri quadrati. Senza contare che gli uomini, abbrutiti da una interminabile giornata di durissimo lavoro, trovavano nel sesso e nell’acquavite che si distillavano clandestinamente, gli unici momenti di temporaneo conforto ad una vita altrimenti impossibile. E le donne, consapevoli di ciò e ben consce del loro stato di sfascio fisico dovuto ad un lavoro altrettanto duro, non protestavano più di tanto se i loro mariti, i loro padri, i loro fratelli o i loro cognati approfittavano delle ragazze più giovani. Sdraiata sul grande letto tra fresche lenzuola di lino, la padroncina si faceva raccontare nei minimi dettagli da Cruz i tanti modi in cui la giovane negra, così come le sue sorelle e le sue cugine più giovani, dovevano soddisfare ora il padre, ora il nonno, o gli zii, i cugini o i fratelli più grandi. A Liz, che se non era completamente vestita non permetteva al padre di entrare nella sua stanza, pareva impossibile che tali cose potessero avvenire tra parenti così stretti e in tale promiscuità, al cospetto degli altri, ma sapeva bene che i racconti dell’amica erano assolutamente veritieri. Non che fosse bacchettona, tutt’altro, il sesso le piaceva e quando poteva lo praticava molto liberamente, ma l’idea di farlo in maniera incestuosa le pareva strano. Non ripugnante, ma strano. Lei, comunque, con suo padre non l’avrebbe mai fatto. Con Cruz, si, però. Quella ragazza le piaceva; era bella, pulita, calda, sensuale e terribilmente esperta. Sapeva farla godere come nessun altro con quelle sue dita affusolate, quelle labbra piene, quella lingua saettante e quel corpo così femminile dal seno grande e sodo, i fianchi pieni e le gambe lunghe e affusolate. Quando facevano l’amore era Cruz la padrona e lei la schiava. Quando, completamente nude, si rotolavano sul grande letto baciandosi e carezzandosi, era Cruz a condurre i giochi. Con dita agili ed esperte sapeva toccarla nei suoi punti più sensibili portandola ai limiti dell’orgasmo per poi fermarsi e riprendere in un gioco che non faceva che aumentare sempre di più il suo desiderio. E quando la baciava e la leccava senza tralasciare un solo centimetro della sua pelle per poi tuffarsi col viso tra le sue cosce spalancate, Cruz era capace di farle avere due o tre orgasmi di seguito. Anche a lei piaceva toccare, baciare e leccare il corpo della negra, la sua pelle liscia e fresca, la sua calda intimità. Certi pomeriggi stavano ore a godere e alla fine Liz si sentiva talmente prostrata da non riuscire neppure a scendere per la cena con suo padre, il quale sapeva benissimo a cosa imputare la stanchezza della figlia ma, da uomo di mondo, fingeva di credere alle bugie che gli venivano propinate. Anche lui, d’altronde, non era da meno. Contravvenendo alla regola non scritta che impediva ai bianchi di avere rapporti sessuali con gli schiavi, il colonnello, forte della sua potenza che lo rendeva inattaccabile da chiunque, aveva sempre avuto delle amanti negre che si sceglieva tra le donne più giovani e più belle. Quando, in media ogni sei mesi, arrivavano dall’Africa i carichi di schiavi pronti per essere venduti, il primo al quale veniva offerta la merce, essendo quello che pagava meglio di tutti, era proprio lui, che aveva, in questo modo, l’occasione di scegliersi gli uomini più forti, le donne più fertili e le ragazze più belle. Quando era più giovane si sceglieva tre o quattro amanti per volta, le piazzava in casa a fare un lavoro qualsiasi e se le teneva sempre a disposizione. Quante notti aveva passato insonni, con tre o quattro ragazze giovanissime e bellissime nel proprio letto a farlo godere fino a sfinirlo! Era il padrone assoluto, il signore delle loro vite e l’unico arbitro del loro futuro. Poteva farne quello che voleva, possederle, picchiarle, carezzarle o frustarle. Nel corso degli anni aveva avuto decine di amanti negre, una più bella dell’altra, e se le era godute tutte. Quando si stufava le rimandava al villaggio degli schiavi ma riservava loro un trattamento di favore esentandole dai lavori peggiori. Di qualcuna si era persino quasi invaghito, ma gli durava poco. Fino all’arrivo di Morena. L’aveva comprata da un mercante olandese, pagandola uno sproposito. Alta, slanciata, col fisico perfetto e un viso bellissimo, aveva il portamento altero di una principessa. Capì subito che se ne sarebbe innamorato e così avvenne. Suscitando scandalo e scalpore la trattò per anni come una moglie abbandonando ogni altra amante. La voleva ogni notte nel proprio letto, le chiedeva consigli sulla gestione della piantagione e pareri sulla conduzione degli altri schiavi. Lei lo ubriacava di sesso, lo sfiniva donandogli il suo corpo e ne approfittava, giorno dopo giorno, per cercare di migliorare, alleata con Liz, le condizioni di vita dei suoi compagni di sventura. Fu uccisa da un guardiano bianco che, ubriaco fradicio, cercò di violentarla. L’uomo fu impiccato dallo stesso colonnello che, da allora, divenne sempre più cupo. Ma torniamo alla nostra Liz. L’abbiamo lasciata che stava giocando con la sua amica Cruz, e lì la riprendiamo. Sdraiate sul lettone in posizione di sessantanove, la faccia dell’una tra le cosce spalancate dell’altra, le due giovani si stanno facendo una bella leccata di figa. Saliva e succo di figa si mescolano mentre le loro lingue si lappano vogliose le tenere carni. Godono, le due troiette, ma nessuna delle due si sente appagata. Hanno entrambe voglia di un maschio; i racconti di Cruz le hanno infoiate e hanno bisogno di cazzo, di cazzo duro, di cazzo grosso, di cazzo che le faccia sentire davvero femmine. – In questa piantagione ci sono centinaia di uomini forti e sani e io non riesco a trovare uno straccio di maschio, sbottò Liz. – Siete piena di amici che farebbero carte false per voi, padroncina, possibile che non ve ne piaccia nessuno, le disse Cruz. – Quei bellimbusti, puah! Sono tutto fumo e niente arrosto. Parlano, parlano ma mirano solo ai soldi di mio padre e non sono capaci di combinare niente. – Ci sono i guardiani bianchi, la incalzò l’amica. – Quelli sono peggio delle bestie, mi fanno schifo. Non mi farei toccare da uno di loro neppure con la canna da pesca. – Allora, concluse Cruz, non restano che i negri, la mia gente. Qualche bel ragazzo c’è. – Eccome se ce n’è, ma purtroppo non è possibile. Condannerei a morte sicura chiunque osasse avvicinarmisi. Se mio padre venisse a sapere che un suo schiavo ha osato anche solo alzare gli occhi su di me lo strangolerebbe con le sue stesse mani. – E’ vero, fece Cruz, però……(pausa)……, chi ha detto che il colonnello debba venire a saperlo? – Tu sei pazza se pensi di farla franca con mio padre. Qui è pieno di spie, cosa credi. – Lo so benissimo che è pieno di spie, ma se la facciamo da furbe nessuno verrà mai a saperlo. – Cosa intendi dire? – Intendo dire che se proprio vi va di avere un maschio negro, nella mia famiglia ce n’è a iosa e state pur tranquilla che nessuno parlerà. – Vuoi dire che potrei disporre dei tuoi parenti? – Certo, sono tutte persone fidate e, ve lo dico per esperienza personale, se volete levarti qualche sfizio, sono proprio i tipi giusti. (a quel punto Cruz ridacchiò significativamente). – Come potremmo fare?- domandò Liz con interesse. – Lasciate fare a me, padroncina, vi combino tutto io. Domani notte vi andrebbe bene? – Ok, vada per domani notte. Bada, però, che non voglio assolutamente che nessuno corra dei rischi per causa mia. – State tranquilla signorina Liz, fidatevi di me. – Bene, mi fiderò. Adesso, però, leccami ancora un po’ la figa; mi hai fatto venire voglia.

