“Buongiorno professoressa, posso entrare?”. “Certo, accomodati. Stavo correggendo dei compiti in classe di latino, ma mi farà bene una pausa! Prego, prego”. Ero andato a trovare la mia professoressa di lettere per scambiare quattro chiacchiere e, speravo, qualcosa di più. Lei, G. L., mi aveva sempre arrapato un sacco. Vuoi per il modo di fare, vuoi per la voce, vuoi per come si vestiva e soprattutto per come accavallava le gambe. Ormai cinquantenne, capelli rossicci a caschetto, pelle chiara con due o tre lentiggini, fisicamente piuttosto snella, anche se gli anni le avevano regalato un po’ di pancetta extra. A casa sua c’ero andato col una telecamerina digitale e pensavo di filmarne la sensualità con la scusa della sua passione per cinema e teatro. La balla di cercare una “modella” per qualche prova di “girato” sembrava aver attecchito. Iniziai a filmarla mentre lei imbarazzata rideva: “Che devo fare?” disse. “Niente, stia seduta sul divano in modo naturale, intanto io sperimento qualche inquadratura” le risposi. La stavo ispezionando attraverso l’obbiettivo centimetro per centimetro. Riuscivo a vedere le maglie delle calze, un paio di autoreggenti bianche. La L. teneva un vestito unico di lana marrone che terminava con una gonna all’altezza delle ginocchia. Le scarpe, col tacco medio alto e spesso, da signora bene, erano dello stesso colore del vestito. Non sembrava avere il reggiseno, per quello accessorio, viste le dimensioni delle mammelle: capezzoli o poco più, fermi intorno alle seconda. Restavano poi gli occhiali a donare un tocco sexy maturo che, nel giro di un 5 minuti, me l’aveva già fatto diventare duro. Dovevo trovare un modo per vederla meglio. Mentre chiacchieravamo e me la ripassavo con la camera, l’idea: “Professoressa, che ne dice di un cambio abiti? Mi piacerebbe provare altri “colori” di scena”. Non ci credo ancora, ma accettò. Riuscii a convincerla a portarmi in camera da letto, per sceglierli insieme. Forse avevo risvegliato la sua sensualità femminili, perché quando le dissi che, per prima cosa, avremmo dovuto scegliere l’intimo lei non fece una piega. Aprì il cassetto e mi invitò a dare un’occhiata. Qualcosa nel frattempo lo tirava già fuori lei. C’era di tutto. Tanto, tantissimo pizzo, mutandine da sexy shop col buco all’altezza del clitoride, altre col foro sull’ano, tanga, body. Nere, bianche, rosse, carne, rosa, blu, viola. Trasparenti, di cotone, sottili, spesse. E lo stesso per i reggiseni: con la coppa, senza, ricamati, di rete. Scelsi un paio di slip neri trasparenti, con una rosa sull’inguine e un reggiseno dello stesso colore e tipologia. Per il vestito, optai anche in questo caso per il nero, modello simile a quello che già indossava (maglia di lana, unico, con top attaccato alla gonna, fino alle caviglie). Riguardo alle calze, naturalmente, c’era l’imbarazzo della scelta. Niente collant, ma la quantità di reggicalze e autoreggenti, di ogni tipo, avrebbe fatto invidia ad una merceria. “Quelle a rete col reggicalze andranno benone”. Le scarpe col tacco, nere e laccate. “Ecco, abbiamo finito. Io la aspetto di là mentre lei si cambia, professoressa”. Uscì, non chiudemmo la porta. Aveva fatto apposta, credo. Infatti, mentre si spogliava e rivestiva, ebbi modo di guardarla da poco più in là. La sua carne bianca era invitante. Così come quello scorcio di inguine che ebbi modo di vedere: un pelo rossiccio che mi fece pulsare il pene e per un tratto pensai di scoppiare. Contribuirono di sicuro anche i capezzoli, turgidotti senza che nessuno li avesse ancora strapazzati. Si tirò su le calze, attaccò il gancio e tornò nella sala. Ricominciarono le riprese. “Ecco, si segga, accavalli le gambe. Benissimo – intanto le passavo con la telecamera a pochi centimetri dal corpo – Ora si posizioni sulla scrivani come fa a scuola. Accavalli ancora le gambe, ma più lentamente. Bravissima, le apra piano e intanto mi parli. Sì, ancora più piano. Ora se le gratti un secondo, si tiri indietro i capelli, ottimo. Adesso scenda giù e cammini verso di me. Mi raccomando, non si preoccupi e mi passi sopra mentre continuo a filmarla” In quel modo ero sicuro di inquadrarla le mutandine, che con le scosciate avevo solo intravisto. Face un paio di passaggi e ormai era evidente la montagnola che si era formata all’altezza del mio inguine. Mi fissò spazientita e aggiunse: “Abbiamo finito? Incomincio a trovare la cosa di cattivo gusto”, disse. Facemmo ancora un passaggio. Stavolta lei immobile a gambe aperte con me che passavo in mezzo. Naturalmente, una volta che la telecamera fu in linea d’aria con la passera, mi fermai per un prolungato primo piano: si vedeva i peletti della figa sbucare fuori dalle mutandine. Lei intanto batteva il piede e giracchiava la testa in modo nervoso. “Fatto”, dissi. “Era ora”, ribatté. “Adesso sa cosa ci vorrebbe, professoressa? Lei è un’appassionata di ballo e mi piacerebbe fissare un momento di danza con lei”. Si mise a ridacchiare e accettò. Mettemmo su la musica ad iniziammo a ballare. Il tempo di un paio di minuti, con la telecamera dietro che fissava, e si era sciolta. Passai dietro e mi attaccai al suo corpo con il mio. Credo già sentisse il mio pene duro a tratti contro la sua schiena, ad altri contro il suo sedere. Le sussurrai timidamente all’orecchio: “Per il gran finale ci vorrebbe un bacio, come nei grandi film, è da quando entrò in classe la prima volta che sogno di farlo”. Senza aspettare la risposta, avvicinai le labbra alle sue e ci baciammo. Naturalmente, seppur lei credesse fosse un bacio da film, sfruttai l’occasione per infilare la lingua. Era fatta, si lasciò andare. Dopo quel minuto e mezzo di limonata, iniziai a ravanare con la mano il suo corpo. Tastavo il seno, massaggiavo il culo, palpavo la figa. Le tirai su la gonna e le feci un ditalino. Lei intanto si inumidiva, il vestito era bagnato dei suoi umori. Tirai giù la lampo dei jeans e le indicai il cazzo gonfio. Lo prese in mano tra l’impacciato e l’affamato, si mise a masturbarmi e poi lo ficcò in bocca. Stantuffavo dentro e fuori, lei giocava con la lingua e coi risucchi, mordicchiava la cappella e tirava giù tutto fin nella gola, tanto da tossire pure un po’. Successivamente toccò a me darle godimento orale. Le dita correvano veloci tra le pareti della vulva e la lingua faceva altrettanto. Mordevo le grandi labbra, stuzzicavo il clitoride. Venne una volta: un getto irrefrenabile di umori vaginali, di quelli che ti prendono alla sprovvista, col ritmico pulsare della figa eccitata. Finiti i preliminari, la sbattei sul divano e iniziai a chiavarla con forza. Gambe su, gambe giù, aperte, chiuse, alla pecorina, missionario, lei sopra, sotto, coi piedi (naturalmente tenendo su scarpe e calze) sulle mie spalle, completamente alla mia mercé. La figa era bagnata fradicia, ormai era venuta almeno quattro volte, dallo zampillare di una fontana di umori chiari e trasparenti allo sgorgare lento di un liquido bianco e denso. Rimaneva un oggetto dei miei desideri da provare: il culo. Glielo dissi piano nell’orecchio e lei balzò in piedi. Non l’aveva mai fatto per via anale. Poco male, la convinsi a provare. Andammo in camera da letto e mi misi a leccarle l’orifizio. Poi infilai un dito per testare le sue sensazioni. Faceva un po’ male, ma in fondo le piaceva. Sputai nel buco per lubrificare e poi ci gettai il cazzo dentro. Ansimava da quel misto di dolore e piacere che dà la penetrazione anale. Soprattutto nel suo caso, e cioè la prima volta. LE stavo sverginando l’ano a quarantanove anni suonati. E le piaceva. Gridava: “ANCORA! ANCORA! Sì, ti prego, aaaahhh!!”. Lo tirai fuori che aveva lasciato un tunnel largo e profondo, dal colore rosso vivo delle fiamme. E infatti scommetto che il culo, alla L., bruciasse come mai prima d’ora. La smorfia di dolore sul viso parlava chiaro. Ma non attese istanti perché l’infiammazione, almeno un minimo, si sfogasse. Si lanciò invece ancora sul mio pene, che era davvero sull’orlo di scoppiare. Iniziò a masturbarmi con vigore. Intanto si tirava un ditalino nella figa bagnata e mi leccava il cazzo. Dentro e fuori dalla bocca, avanti e indietro stretto tra le sue mani. Fino alla sborrata finale, che le sporcò i capelli, gli occhiali, la bocca, il petto. E poi l’abbraccio. Ah, che godimento. G. L., sarai sempre la mia porca preferita!
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