Mi penetrava violentemente, mi scopava e io urlavo, pregandolo di far piano, ma intanto godevo selvaggiamente, senza freni, senza inibizioni, mentre le sue mani forti, poderose, muscolose come le sue braccia e il suo ventre, mi stringevano i fianchi fino a farmi male. Stavo nella posizione della pecorina e lui andava avanti e indietro dentro di me, usando i fianchi per fare leva e manovrandomi a suo (e mio) piacimento, afferrandomi – di tanto in tanto – per le spalle, per spingermi il suo membro possente ancora più dentro. Lo imploravo di far piano, di rallentare il ritmo, di fermarsi, ma lui, impaziente e selvaggio, continuava. Fino a quando non sentii che anche lui cominciava a mugolare, che la presa ai fianchi si faceva meno decisa, che i precisi colpi del suo sesso dentro di me rallentavano… A quel punto estraeva la sua virilità da dentro di me, mi afferrava per i capelli, mi girava verso di sé e mi investiva con il fiotto caldo del suo piacere, sporcandomi dappertutto: viso, bocca avida del suo sperma, capezzoli, ventre, basso ventre… Rimanevo poi lì a pulire con la lingua il suo glande ormai mezzo floscio; lui mi teneva compiaciuto per i capelli e sembrava sospingermi a sollevare gli occhi, a guardarlo mentre ancora tenevo quell’enorme membro in bocca, quel membro che non mi disgustava affatto. – Gran puttana – mi diceva fissandomi con un mezzo sorriso sulle labbra. Facevo questo sogno mediamente una volta al mese. Era un sogno che mi sconvolgeva, ogni volta come fosse la prima. Perché godevo sempre, nel sonno, ed ero persino felice, ma mi svegliavo con certi sensi di colpa da non riuscire a guardarmi allo specchio per giornate intere. Quel senso di piacere mi faceva sentire colpevole. Come facevo, mi chiedevo, a godere in quel modo, nonostante la penetrazione, la violenza, la prevaricazione, l’imposizione, la sofferenza? Dubbi atroci mi assalivano e poi mi lasciavano incapace di accettare quel che era successo, anche se in realtà non era mai accaduto, ma era esistito solo nell’irrealtà dell’imponderabile spazio onirico del subconscio. Perché sognavo quel ragazzo bruno, massiccio, vigoroso, dotato, quel ragazzo che non avevo mai visto e di cui, nel sogno, sentivo persino il profumo dell’acqua di colonia, l’odore acre del sesso, il pizzico della barba di tre giorni e del quale avvertivo persino il formicolio provocato dal contatto con i peli delle gambe e con la peluria compresa tra l’ombelico e il basso ventre? Perché succedeva tutto questo e io non sapevo farmene una ragione? – E’ un sogno – mi ripetevo – che colpa ne ho, è solo un sogno. Non sono io che comando i sogni… Nessuno comanda i sogni -. Però io in fondo mi chiedevo se non ci fosse qualcuno che comandava i sogni e che spingesse il subconscio a pensare a una cosa o a un’altra. Era la spia del mio malessere profondo. Perché vivevo così male questa situazione? Quando poi avevo il coraggio di tornare a specchiarmi, specie prima o dopo la doccia (un rito “purificatorio” cui usavo sottopormi, una sorta di depurazione del proibito, dopo quel sogno) mi guardavo senza vestiti e senza accappatoio per interi quarti d’ora: vedevo nell’immagine riflessa dallo specchio i miei capelli biondicci, il viso ovale, le labbra ben disegnate, il collo fine, le spalle strette, i capezzoli ritti in mezzo a quel piccolo ma evidente e sfrontato seno, l’ombelico piazzato al centro di due fianchi un tantino sgraziati, le cosce un po’ grosse ma lunghe, i piedi lunghi e affusolati… Saltavo volontariamente, con lo sguardo, il basso ventre, evitavo di guardare a fondo in mezzo alle mie gambe… Tornavo su, al mio naso piccolo e diritto, alla mia pettinatura con la riga di lato, alle mie mani bianche e lisce… Indugiavo in particolari insignificanti, il neo sotto la mammella sinistra, la cicatrice sul braccio destro, pur di non guardare lì. Ma poi gli occhi tornavano giù, a quel cespuglio di peli appeso una quindicina di centimetri sotto l’ombelico, a quel ciuffetto scuro da cui faceva capolino una capocchia di carne scura, grande poco più della falange di un dito, e sotto alla quale si nascondevano due piccole boccette simili a susine piccole piccole. Mi guardavo il mio piccolo pene e non riuscivo a capire. C’è un errore, in me, pensavo. O dentro di me. Oppure fuori di me. Ma un errore non poteva esserci: se la natura mi aveva fatto o fatta così, doveva esserci un senso. Se l’eccesso di ormoni femminili mi aveva gonfiato le tette e fatto venire fuori un pisello minuscolo – così almeno credevo fosse avvenuto – non potevo, non dovevo, non era giusto che mi ribellassi. Anche perché io mi piacevo così. Mi accettavo senza riserve. Non capivo allora come mai mi sentissi tanto in colpa per quel sogno ricorrente, che mi liberava per una notte dal mio corpo “sbagliato”, contraddittorio, per quell’amplesso solo immaginato, che mi liberava dalle mie mille paure, dai miei sensi di smarrimento, e che mi portava in una dimensione per me sconosciuta, in cui l’unica sensazione che riuscivo a provare era la leggera gioia provocata dalla libertà assoluta di fare quel che sentivo di voler fare. Non mi ero mai posto il problema dell’omosessualità, né avevo mai conosciuto un ragazzo come quello del sogno e proprio non riuscivo a capire come mai incarnassi in quello sconosciuto – sempre lo stesso – l’oggetto dei miei desideri inconfessabili. C’è una fase, nella vita, in cui si è inconsciamente attratti da persone del proprio sesso. Io pensavo di averla superata, quella fase, dopo essermi sentito molto, molto vicino al compagnetto di classe del primo liceo. Pensavo di essermi… salvato con la classica, stupida cottarella per la compagnetta del secondo liceo. Però, a diciotto anni fatti, quelle dannate pulsioni erano tornate a farsi vive. Non mi sentivo gay e forse non lo ero, ma a scuola, stranamente, mi piaceva, mi attirava, un professore, il classico supplente di educazione fisica, un tantino più grande di me, appena diplomato e al primo incarico di insegnamento in una scuola superiore. Il classico tipo alla mano, che pretende di farsi dare del “tu” e magari viene a mangiare la pizza con gli studenti. Non gli avevo lasciato capire nulla o quasi – perlomeno così credevo – e lui aveva sempre fatto finta di niente: era tanto diverso dal ragazzo del sogno, era anche antipatico e sfuggente. Lo era diventato ancora di più dopo che gli avevo raccontato che un mio amico mi aveva confidato la storia del sogno e che aveva bisogno del consiglio di un adulto (sempre che un venticinquenne, come era lui, potesse considerarsi adulto): lui, ovviamente, non aveva affatto bevuto che fosse un altro, a volersi consultare, e – ne ero certo – aveva interpretato la mia iniziativa come una avance bella e buona. Io, in realtà, lo avevo reputato come una persona in grado di darmi un consiglio, ma di fronte al suo atteggiamento di netto rifiuto, cambiai idea su di lui e non parlai più con nessuno di quel sogno. Comunque mi piaceva e non capivo perché mi attraesse lui – sempre con riserbo e moderazione, nel senso che mai avrei trovato il coraggio di dirglielo apertamente – e non la compagnetta del banco accanto al mio, quella che faceva le fusa a tutti, me compreso, purché le facessimo almeno un complimento al giorno, facendola sentire ancora più bella di quanto non si sentisse già. Con il supplente antipatico non era mai successo niente, ma avevo provato la strana sensazione del batticuore, l’unica volta che mi aveva sfiorato il corpo con un minimo di interesse: così mi era sembrato che avesse fatto la volta in cui, nello spiegare un esercizio fisico, mi aveva palpato il seno, rimanendo interdetto per la soda e morbida consistenza di quanto era rimasto racchiuso nelle sue mani, intente a sorreggermi mentre facevo una giravolta. Durò qualche istante appena e lui lo fece apposta, forse per tastare con la mano quanto con l’occhio non riusciva a misurare fedelmente: in realtà, infatti, avrebbe dovuto tenermi per i fianchi e non per le tette. Io non reagii né protestai e anche questo contribuì a rendere la situazione bollente. Rimanemmo in quella strana posizione intrinsecamente erotica un tempo interminabile: dieci, venti, forse trenta secondi o addirittura un intero minuto, che ci sembrarono fossero durati come trenta minuti o forse come trenta giorni. Ma non ci pesarono affatto. I miei capezzoli si dimostrarono turbati, crescendo sotto gli ansiosi polpastrelli delle sue dita calde, che si mossero a massaggiare le mie poppe con dolce lentezza, in un movimento appena percettibile e che solo io e solo lui potevamo cogliere, nel suo autentico significato sensuale. Fu una sensazione calda e intensa, per entrambi, accompagnata da uno sguardo di fuoco, reciproco, elettrico; terminato l’esercizio, sentii su di me ancora i suoi occhi, straniti, turbati, che mi e si interrogavano. Lo vidi anche arrossire e arrossii anch’io. Finì così, prima ancora di cominciare: con quel turbamento terribile e l’incapacità di guardarci reciprocamente negli occhi nei giorni che seguirono. Qualche giorno dopo feci il compleanno. Ricevetti molti regali, alla mia festa: c’era anche il suo, fatto assieme ad altri compagni, e questo un po’ mi deluse, dato che avevo sperato che il regalo me lo facesse da solo. Alla festa, tra l’altro, lui non venne: sempre pronto a fare bisboccia con gli allievi, sempre presente a tutte le feste, mancò giusto alla mia. Facemmo tardi, quella notte: ci sbronzammo, ricordo la lingua al gin e tequila di Manola – o di Carla, giuro che non lo capii – allacciata alla mia, così, per gioco. – Ecco il tuo regalo – mi disse una voce femminile, mi dissero un paio di occhi scuri, bellissimi, di cui non capii neppure chi fosse la proprietaria. Tornato a casa, il giorno dopo, ricevetti un altro pacchetto del tutto anonimo. Nella busta che lo accompagnava c’era non la firma ma un messaggio, scritto a mano: ‘APRI QUANDO SEI SOLA’. Non capii il senso di quel regalo anonimo, non capii la mano che l’aveva confezionato né la calligrafia, non capii nemmeno quel parlarmi al femminile. Capii tutto o quasi solo quando – seguendo il consiglio – mi chiusi nella mia stanza e aprii: dentro c’erano un reggiseno e un paio di slip, un coordinato di pizzo bianco, e un paio di calze autoreggenti nere. Rimasi a lungo senza sapere che fare, con quel benedetto regalo, se così si poteva chiamare. Intuii che a mandarmelo poteva essere stato il mio prof amico del cuore, come a sottolineare che, dopo avermi palpato le mammelle, aveva afferrato la mia misura (la seconda); ma non era quello il punto: il regalo era sì un segnale ma anche una grande, enorme, irresistibile tentazione. Cosa avrei dovuto farne? Buttare tutto? Se me l’avessero trovato, cosa avrebbero pensato i miei familiari? E se invece l’avessi provato, quel “coordinato” che trovavo arrapante solo a sfiorarlo con lo sguardo? Ma perché mai, mi chiedevo, avrei dovuto indossarlo? Non sapevo proprio che fare e intanto ogni giorno cercavo un nascondiglio diverso, terrorizzato dall’invadenza della donna delle pulizie. Fino a quando la mia famiglia al completo non partì per il week-end. Io non volli andare, perché ero ormai grande, adulto, dissi, ma in realtà covavo dentro di me un progetto ben preciso. Mi lasciarono solo non senza remore, promettendo che comunque non mi sarebbe mancato nulla, che i vicini mi avrebbero sorvegliato. Ma anche i vicini erano fuori per il week-end. Finalmente solo, pensavo. Finalmente SOLA, aggiungevo cercando di far scorrere il pensiero nella mia testa come una voce appena sussurrata, perché non potesse sentirla la parte di me che rifiutava quella singolare situazione, che non riuscivo ad accettare ma che mi eccitava in maniera da togliermi il respiro. Abitavamo in una villa vicina al mare, piuttosto isolata, e il timore di lasciarmi solo non era ingiustificato. Anch’io avevo qualche paura. Tuttavia volli affrontare quella che definii la “prova del fuoco” da neomaggiorenne, come se a 18 anni il mondo dovesse mettersi ai miei piedi. Non appena rimasi solo, dopo che ebbi controllato che l’auto dei miei si era veramente allontanata, dopo che ebbi contato dieci lunghissimi minuti (il tempo che ci voleva per prendere la strada principale), corsi col cuore in gola nella mia stanza. Mi guardai allo specchio eccitata: i capelli pettinati con una sorta di messa in piega e sorretti da un cerchietto; gli occhi truccati, il rossetto che mi disegnava alla perfezione le labbra, le guance rese rosee dal fondotinta, il seno contenuto e gonfiato ulteriormente dal reggiseno, le mutandine e le calze autoreggenti. Avevo trovato pure un paio di scarpe da donna, della cameriera, credo, l’unica che avesse misure vicine alle mie. Stentavo a riconoscermi, pensavo che difficilmente sarei stata riconosciuta da gente che non mi conoscesse più che bene. Sorridevo alla mia immagine riflessa nello specchio, mi sembrava di essere una sorta di ritratto di Dorian Gray, destinato a svanire in pochi secondi, non appena avessi deciso di tornare alla normalità. E invece decisi di no, decisi che la mia normalità di quei due giorni, in cui non avevo in programma di ricevere nessuno, sarebbe rimasta quella: la “mia” normalità interiore si faceva anche esteriore, visibile. E per il momento solo io avrei potuto goderne. Indossai, sopra quell’abbigliamento intimo, un vestitino piccolo ed essenziale, con due bretelline sottili e, da vera esperta, sganciai le bretelle del reggiseno, per non creare doppioni: il succinto abitino, che non sapevo di chi fosse, forse della figlia della cameriera, mi arrivava fino a metà coscia, ma era abbastanza lungo da coprire l’elastico della calza autoreggente. Cominciai a vivere così, quella strana e irreale mattina di sabato, muovendomi per casa e in giardino – ma quando mettevo il naso fuori di casa stavo bene attenta che non ci fosse nessuno che potesse sbirciare di là dal muro di cinta – vestita da donna. Mi sentivo libera, dolce, leggera. Mi sentivo me stessa. Avrei voluto gridarlo, ma non potevo. La mia vera anima aveva finalmente trovato abiti adatti a lei. Il suono del campanello mi fece sobbalzare. Era pomeriggio, mi ero assopito sul divano – o forse avrei dovuto dire ASSOPITA, visto che ero vestita sempre da femmina – e non aspettavo nessuno. Fui tentato di non aprire, andai al videocitofono e vidi una figura maschile mai vista o meglio, no, dissi, l’avevo visto qualche volta: era il garzone del supermercato, che portava la spesa, evidentemente ordinata dai miei, a mia insaputa. Istintivamente risposi: gli dissi che poteva lasciare i pacchi dietro il cancello e poi di richiuderlo, ma lui obiettò che dovevo pagare. Non sapevo se avessi o meno soldi e intanto sentivo crescere dentro di me una strana, incredibile voglia: mettermi alla prova nei miei nuovi panni. Quel ragazzo non mi conosceva, mi dissi tra me: vediamo se capisce qualcosa. Quand’anche mi avesse scoperta, chi se ne sarebbe fregato, della parola di un garzone invidioso dei ricchi? Fu un pensiero strambo, quello che, senza che io riuscissi a riflettere troppo, mi indusse ad aprire il cancello della mia villa e a farmi trovare dietro la porta di casa, vestita da femmina, truccata da porca. Esitai un attimo, prima di aprire, ma ormai era tardi. – Buongiorno – disse lui, e, distrattamente, come se non mi avesse nemmeno considerata, depositò i sacchetti e le buste dell’acqua accanto all’ingresso. – Fanno 54 euro – disse e solo allora sollevò gli occhi. – Buongiorno – risposi io, falsando, ma neanche tanto, la mia voce già di suo lievemente tendente al falsetto. Mi sentii investita dalla vampata di uno sguardo caldo, intenso, compiaciuto. Era un ragazzo sui 20-25 anni, alto, muscoloso, vestito semplicemente, bruno, gli occhi semplici, puliti. – Mia madre non mi aveva preannunciato la sua visita… Ha il resto? – dissi, porgendogli una banconota da cento euro. Continuavo a sentire i suoi occhi spogliarmi curiosi e affamati, pieni di desiderio e di voluttà. Ah, se avesse saputo, mi dicevo… Nulla da dire: il gioco era stupendo, l’emozione del mai fatto mi spingeva ad un’audacia di cui mai avrei creduto di essere capace. – No, signora… signorina – si corresse, e lo disse con lo sguardo inebetito. Si frugò nelle tasche, tirò fuori alcune banconote da dieci e da venti, le contò: – Ho cinquanta euro… Se lei ne avesse quattro… -. – Magari cinque, per il suo disturbo – dissi con l’aria della snob che vuol far pesare quella miseria di mancia che si appresta ad elargire. Nulla da dire, ero una perfetta stronzetta ben riuscita. -Un attimo che vedo – aggiunsi. Cominciavo in realtà a non essere più tanto sicura di me stessa. Temevo che, se il gioco si fosse protratto, avrebbe capito e il gioco, che io avevo iniziato, rischiava di ritorcersi in qualche modo contro di me. – Si accomodi un attimo, vado di là e torno -. Gli indicai il divano accanto all’ingresso e, con un pizzico di civetteria tutta femminile, aggiunsi: – Si sieda pure… Non faccia caso al disordine, sono sola a casa e non aspettavo nessuno…-. – No, grazie, aspetto in piedi – disse lui e sentii che mentre io uscivo dalla sala, i suoi occhi artigliavano il mio fondoschiena. Rientrai dopo qualche minuto. Non avevo trovato le monete né la banconota da cinque euro e lui si offrì di darmi comunque i 50 di resto: – Poi i 4 euro li porterete lunedì… Lei o sua madre o suo fratello… Io però, mi scusi se glielo dico, la ricordavo molto più piccola, più giovane… E non avevo mai fatto caso alla grande somiglianza con suo fratello – aggiunse. Arrossii violentemente. Si riferiva a mia sorella, che in effetti aveva qualche anno meno di me. Sentii di essermi incartata, di essermi infilata in una sorta di vicolo cieco. – Io sono… – annaspai – una parente… Ospite per il fine settimana -. Il ragazzo mostrò un attimo di curiosità: – Ma non mi aveva parlato di sua madre? Pensavo fosse la figlia della signora… – osservò acuto. Continuai ad andare in ambasce, ero rossa come un peperone. Quello cominciava a porsi domande, ne ero certa, magari – nella migliore delle ipotesi – si chiedeva se fossi una ladra. – Posso chiederle un bicchiere d’acqua, signorina? – disse con tono leggermente alterato rispetto all’inizio della nostra conversazione. Aprii il frigo, mi curvai per prendere la bottiglia dell’acqua e nel movimento mi si scoprì la autoreggente; nel piegamento si notò anche che la scarpetta era una misura più piccola del mio piede. Lui intanto si era seduto sul divano: io non me ne ero accorta e, nel girarmi per porgergli il bicchiere pieno, mi ritrovai a toccare il suo ginocchio con la coscia. Il contatto, l’emozione, lo spavento, mi fecero perdere l’equilibrio: gli versai un po’ d’acqua addosso. – Mi scusi, sono imperdonabile – dissi. – No, no, non si preoccupi – rispose lui e mentre ancora lo diceva, mi aveva presa per i fianchi, iniziando a massaggiarmeli piano con i polpastrelli. Rimasi come paralizzata, incapace di dire e di fare alcunché, immobile come uno stoccafisso. – Stia tranquilla, SI-GNO-RI-NA – e strascicò a bella posta la parola, con un poco di ironia – non è successo niente… Stia tranquilla… -. Cercai di riavermi, di fare qualcosa, ma quelle carezze mi toglievano il fiato… Cominciai a fare caso alle sensazioni, agli odori, al tatto… C’era qualcosa di già visto, di già sentito, in quella situazione: il dopobarba, il profumo, le mani robuste… Feci appello a tutte le mie scarse e residue forze, mi sottrassi alla presa: – Grazie, può andare – dissi con voce tremante, indicando la porta. Il ragazzo ebbe un gesto di delusione, poi sorrise, si mise in piedi: -Va bene – disse – dirò a sua madre che questo vestito le sta bene… ‘SI-GNO-RI-NA’… Chissà se a sua madre e a suo padre piacerà… -. Percepii nel tono, di nuovo strascicato e ironico, con cui aveva pronunciato la parola ‘signorina’, che aveva capito tutto. Gli girai le spalle e mi sentii nuovamente ghermire, afferrare per i fianchi. – Che fa? Stia fermo! – dissi tentando di divincolarmi, ma lui era troppo più forte. – Non ho mai visto un culattone che sta così bene, vestito da femmina – insistette lui, e mentre lo diceva mi stringeva forte, si avvinghiava al mio corpo esile, morbido e sinuoso. Le sue braccia erano energiche, muscolose, rotonde, sode, il contatto tra noi fece sentire alla mia carne disorientata ma piena di desiderio, una virilità incredibilmente già sveglia. – Lasciami… Lasciami! – gridai facendo appello alle mie residue forze, alla parte di me che non voleva cedere, e gli mollai una gomitata, riuscendo a liberarmi. Corsi verso il salotto: – Aiuto! Aiuto! – urlai con poca convinzione e rivolta non sapevo a chi, visto che nessuno poteva sentirmi. Lui mi venne appresso senza nemmeno correre; non ce n’era bisogno: – E se anche ti sentisse qualcuno – osservò – se anche accorresse la polizia e ti trovasse vestita così… Che bella figura! Va bene, me ne vado… Ho qualche notizia, per gli amici del bar, stasera -. Mi fermai di botto. – Aspetta, che intendi dire? -. Temetti lo sputtanamento: non me ne fregava molto dei suoi amici del bar, ma le voci circolavano facilmente: dal bar si sarebbe riempita la zona, la scuola, il quartiere, la città… – Niente, voglio dire solo che me ne vado -. Curiosamente, la situazione si era rovesciata: adesso ero io, che cercavo di trattenerlo. Forse era l’occasione che cercavo per poter tenerlo con me. – Aspetta, fermo – gli dissi – non vorrai mica…-. – Raccontarlo in giro? E perché no? Se lo hai fatto, se ti sei vestito da donna, ci sarà un motivo… Perché dovresti vergognartene? -. – No, aspetta – e mi frapposi tra lui e la porta, sbarrandogli il passo – aspetta, ti prego, ragioniamo… Vuoi soldi? Vuoi i 50 euro? Tienili, sono tuoi – gli dissi porgendogli la banconota. Avevo lo sguardo implorante e tenero, ma lui mi guardò con occhi di brace, per quel tentativo di corruzione degno di miglior causa. – Ti prego – insistetti, mettendogli una mano sul braccio. Il contatto con la sua pelle ebbe l’effetto di una mezza scarica elettrica, un elettrochoc reciproco. Sorrisi ma al tempo stesso mi sentii mancare per l’emozione: ‘Che sto facendo?’, mi chiesi terrorizzata, ‘che sto facendo?’. Lui sorrise compiaciuto, nel vedermi così indifesa, e mi poggiò una carezza su una guancia. Poi, con un dito, mi stuzzicò le labbra cariche di rossetto e io, istintivamente, o forse perché stavo entrando nella parte di “quella del sogno”, dischiusi leggermente la bocca. Lui avvertì il contatto con l’umido della mia lingua e insistette, disegnando con il polpastrello del dito indice, leggermente bagnato dalla mia saliva, i contorni delle mie labbra. – Non ho mai scopato un travestito… – sussurrò accostandosi a me e unendo il suo corpo al mio, in una stretta che mi lasciò senza fiato. Mi baciò lievemente su una guancia, poi mi pizzicò appena il lobo con la punta della lingua. – Io… non l’ho mai fatto… con nessuno – gli soffiai dentro un orecchio, mentre lui mi leccava vorace il collo. Le sue mani mi esploravano dappertutto, il mio culo non aveva più segreti, per lui, dopo che mi aveva alzato il vestitino e mi aveva tirato giù le mutandine di pizzo. Mi teneva entrambe le natiche con le mani e di tanto in tanto infilava uno o due dita dalle parti del buchetto, ci girava attorno, lo apriva, lo richiudeva. Stavamo così, in piedi, incollati alla porta d’ingresso: io tenevo gli occhi chiusi e le braccia distese lungo il corpo, mi sentivo indurire la mia piccola carne e sentivo la sua, ben più grossa e dura, ancorché fasciata dai jeans, crescermi tra le cosce, al contatto con la mia pelle nuda. – Non l’ho mai fatto – ripetei, come ad invocare un po’ di attenzione o una rinuncia da parte sua; se l’avesse fatto, in quel momento di intenso trasporto, mi avrebbe provocato una enorme delusione, ma avevo paura tanto di fare sesso che di non farlo. D’un tratto, mentre avevo sempre gli occhi chiusi, sentii qualcosa di morbido e di umido posarsi sulla mia bocca: fu un attimo e senza nemmeno sapere cosa stessi facendo, sentii di dover aprire le labbra e di doverle distendere, adattandole come ventose umide e appiccicandole alla bocca di quello sconosciuto, fasciando la mia lingua con la sua, lasciando che essa penetrasse dentro di me. Era il primo bacio della mia nuova vita, la mia vita da donna. Si staccò da me, con lo sguardo gentile, dolce, le guance paonazze, il respiro ansimante, il viso bagnato della mia saliva. – Adesso, se vuoi, me ne vado… Non voglio che ti sembri una violenza -. Non credevo alle mie orecchie: ma che stava dicendo? Ero appoggiata all’ingresso di casa, mi rimisi diritta, mi accomodai il vestitino, tirai su le mutandine. Aprii la porta. – Come vuoi – dissi con aria malinconica. Poggiò una mano sulla mia e d’improvviso, con l’altra, tirò giù la parte del vestito che non aveva ancora toccato: abbassò le bretelline e scoprì il reggiseno di pizzo bianco. Rimanemmo in silenzio, mentre lui, con le dita, mi tirò fuori una mammellina dalla coppa del reggiseno. Poi fece lo stesso con l’altra e io rimasi col seno nudo di fronte a lui, i capezzoli ritti come soldatini sull’attenti. Li palpeggiò con le dita, li pizzicò, provocandomi una scossa che mi percorse la schiena per tutta la sua lunghezza. Richiusi la porta alle mie spalle. Ci ritrovammo sul lettone matrimoniale, nudi nudi, a parte le autoreggenti per me e un tatuaggio sull’omero per lui: mi riempì di baci il seno, me lo leccò dolcemente, mi mordicchiò i capezzoli, mi prese in bocca un’intera tetta, se la mangiò a morsi, lasciandomela tutta rossa e insalivata. Mi morse anche la pancia liscia, i fianchi che per la prima volta mi sembrarono aggraziati, mi baciò l’intera superficie del sedere, introdusse la lingua tra le natiche, ma si limitò a lambirmi il buchino. Mi fece mettere carponi, il busto appoggiato a un cuscino, si insinuò sotto di me e mi ritrovai con il pisellino tra le sue labbra. Contemporaneamente, mi infilava un dito nel buchetto, dopo esserselo inumidito nella mia bocca: faceva questa spola, dalla mia lingua al mio sfinterino, trasmettendomi quel sapore forte del mio posteriore e tuttavia non disgustandomi… Come nel sogno… Ero come impazzita, stavo facendo sesso con un ragazzo di cui ignoravo persino il nome e mentre io stessa ignoravo il mio nome… Non sapevo più come chiamarmi: dovevo usare il mio vero nome, che ormai mi sembrava del tutto estraneo, o dovevo femminilizzarlo? Oppure dovevo scegliere un altro nome tutto da donna? Non sapevo come ribattezzarmi nel mio nuovo ruolo e intanto sentivo di voler amare con tutta me stessa quel mio semisconosciuto amante, sentivo di desiderarlo con il mio corpo da viziosa del sesso trans. Lui, per fortuna, non mi chiese nulla. Che imbarazzo sarebbe stato rispondere alla domanda: – Come ti chiami? – con un “non lo so…”. Scivolò sotto di me, fino a ritrovarsi con il viso attaccato al mio. Sebbene un po’ rozzo – non avevo pregiudizi, ma si trattava pur sempre di un garzone del supermarket – era molto dolce e comprensivo e non mi forzava affatto. Stando sotto di me e baciandomi di nuovo con grande passione e partecipazione, mi prese per i fianchi e sembrò volermi spingere, ma con grande delicatezza, verso il basso. Comunicavamo tra di noi attraverso sensazioni che ci trasmettevamo con uno sguardo, un tocco, un bacio: capii subito che era ora di muovermi e iniziai a baciarlo sul petto, sui capezzoli circondati da peli, sulla pancia liscia, sull’ombelico sotto il quale stava una peluria folta che si congiungeva al pube, dal quale si stagliava un membro enorme e sodo, dritto e già scappucciato quasi per intero. Lo presi in bocca nella sua parte superiore, assaporando l’odore e il sapore del sesso maschile: non avevo mai fatto un pompino e lui mi sembrò fortemente intenzionato a insegnarmelo. Mi guidò nel movimento sinuoso, carezzandomi leggermente i capelli e spingendomi piano, ora su, ora giù, poi facendomi affondare il colpo fino a prenderlo tutto in bocca… Mi portò la mano a impugnarglielo, a menarglielo lievemente, su e giù, senza però esagerare, in modo da far durare il più possibile il piacere… Sollevai il capo per guardarlo. Era disteso con l’aria felice, realizzata. Adesso non mi teneva più la testa, lasciava che facessi quel che volevo. Mugolava contento. Mi attirò a sé, mi fece mettere in modo da poter toccare il mio piccolo sesso, mentre io tenevo tra le labbra, assaporandolo con la lingua, il suo. Sentii, sotto le sue carezze, una dolce sensazione, un desiderio intimo che potevo soddisfare subito: volevo godere assieme a lui. Affondai i colpi, fui decisa e forte nel prenderlo in bocca e nel giocare con la lingua con il suo glande: al tempo stesso, lo masturbai più intensamente… Sentii la sua mano che mi carezzava più forte, man mano che io facevo lo stesso con lui… Gli bastavano due o tre dita, per stringere il mio piccolo uccello e menarlo: avvertii che il piacere si impadroniva di me e glielo succhiai ancora più forte. Il fiotto caldo mi inondò la bocca, a sorpresa: il sapore era di latte di mandorla, il primo pensiero fu mollare tutto, ma a quel punto una sua mano mi tenne schiacciata sul suo sesso, mi costrinse a tenerglielo in bocca mentre godeva. Venne in una quantità industriale di sperma, che dovetti ingoiare fino all’ultima goccia. Nello stesso tempo, venni anch’io nelle sue mani. Mi tirai fuori il suo uccello dalla bocca e mi ritrovai accoccolata tra le sue cosce, i suoi testicoli vicini al mio viso, il membro che si andava sgonfiando, le sue mani che mi carezzavano i capelli. Era una sensazione di intima dolcezza, tanto diversa dal possesso violento del sogno, nel quale però godevo pure tantissimo. Fu con questa sensazione in corpo, che, esausta, caddi addormentata. Mi risvegliai dopo non so quanto tempo ed ero sola soletta, in slip e reggiseno, avvolta in un morbido piumino: mi guardai intorno, pensai di cercarlo, di chiamarlo, ma non sapevo nemmeno come si chiamasse… Mi alzai, infilai una vestaglietta e lo cercai per casa. Non c’era. Sparito. Fui assalita da una sensazione di grande paura: e se avesse approfittato della situazione per rubare, per arraffare indisturbato gioielli e denaro? In fondo gli avevo consegnato me stessa e le mie cose, avrebbe potuto farne quel che voleva e per me sarebbe stato pure difficile denunciarlo: cosa avrei detto, che il ragazzo con cui avevo appena fatto sesso mi aveva svaligiato la casa? Girai da una stanza all’altra e trovai tutto in ordine: i gioielli erano a posto, la cassaforte intatta, i soldi nel solito cassetto. Non mancava nulla. E la spesa era lì, poggiata per terra, in cucina, assieme al bicchiere da cui aveva bevuto lui, traccia e conferma del suo passaggio. Non avevo sognato, mi dissi: era tutto vero, stavolta. Avevo fatto sesso sul serio, dissi prendendo quel bicchiere tra le dita e osservando il bordo, per scrutare il segno delle sue labbra. Non era più un sogno. Feci la doccia purificatrice che stavolta, più che depurarmi, mi fece l’effetto di un toccasana rilassante. Rimasi sotto l’acqua calda a lungo, a ripensare a quel che era avvenuto e stavolta fui assalita dal dubbio che non fosse successo nulla di reale, che il sogno fosse continuato. Macché, pensai prendendo l’acqua in bocca e poi sputandola via: cos’era, infatti, quell’inequivocabile sapore di seme maschile, che nemmeno l’acqua calda riusciva a togliermi del tutto? Mi infilai in un accappatoio femminile, il primo che trovai, e andai in cucina per mangiare qualcosa. Nel passare dal salotto vidi che c’era qualcuno seduto in poltrona. Per un pelo non mi venne un colpo. Era lui. Urlai con furore tutta la mia paura: – Ma che cazzo…? Hai deciso di farmi venire un infarto? -. Lui stava lì, seduto comodo e sorrideva tranquillo. – Dove ti eri nascosto? Ti ho cercato dappertutto – lo rimproverai, senza riuscire ad essere aspra. Nulla da dire: mi era subito piaciuto e continuava a piacermi. – Hai una casa molto grande – osservò lui – e una soffitta comodissima -. In effetti era l’unico posto che non avevo controllato. – Come mai te ne sei andato in soffitta? – gli chiesi. Lui ci pensò un attimo, prima di rispondere. Poi guardò fuori dalla grande vetrata che dava sul giardino. Si vedevano i rami del salice e uno scorcio di cielo. La giornata era ormai al termine, l’orizzonte si faceva bruno. – Perché è l’unico posto da cui si vede il mare senza ostacoli – disse, dimostrando un animo sensibile. Fui presa da una sensazione di indicibile tenerezza. Mi accostai a lui e feci per baciarlo su una guancia. Lui fu lesto e mi attirò a sé, baciandomi in bocca, con passione, con trasporto. Chiusi gli occhi e mi sentii trascinare verso l’alto da quella lingua dolce che riusciva ad avere, così diversa da quella delle ragazzine che avevo baciato. Adesso, mi dicevo, la ragazzina sono io… Mi staccai a fatica da lui. – Sei stato in casa mia tutto questo tempo, hai … -. Mi interruppi, perché stavo per dire: ‘Hai fatto sesso con me’, ma la cosa mi imbarazzava e poi era sottintesa. – Insomma, sei stato qui con me e non so nemmeno come ti chiami… -. – La cosa è superflua, non ti pare? Nemmeno io so come ti chiami tu. Le nostre anime si conoscono, questo è sufficiente -. – Ma cosa sei, un garzone o un filosofo? – osservai con ammirazione. – E tu cosa sei: un ragazzino vizioso, una puttanella in erba, o una personcina carina in cerca di se stessa? -. La domanda mi colpì: in fondo ero tutte e tre le cose che diceva lui. – Fai tu, a te la scelta -. Mi guardò con i suoi occhi profondi: – Hai già trovato te stessa: sei una puttanella viziosa e carina… -. Mi baciò di nuovo, stavolta senza lingua. Sorridemmo. – Adesso puoi andare, dai – lo sollecitai. – E me lo dici così – sorrise – mezza nuda, con l’accappatoio di tua sorella addosso? -. Prese delicatamente i lembi del cordone di spugna, mi attirò ancora a sé. Ebbi un attimo di perplessità e feci resistenza. Sentivo di non dover tirarla più per le lunghe, ma quella presa ebbe su di me l’effetto di un raggio paralizzante, del morso di una vipera che, se ci si muove, diventa letale. – Dai, basta, va’ via – dissi con la bocca, mentre le mie mani erano incapaci di impedire alle sue di slacciare il cordone e di farmi guardare da lui completamente nudo-nuda. Mi prese per i fianchi, mi fece avvicinare, mi baciò un capezzolo, ma trovai la forza di ritrarmi e di riuscire a richiudere l’accappatoio. Lui si mise in piedi. – Abbiamo lasciato un discorso a metà – disse con aria seria – e a me non piace lasciare le cose così… -. Il discorso a metà dovevo averlo di dietro io, visto che le sue mani andarono dritte a palparmi il sedere. Tra la via di fuga e me c’era un divano: lui seppe approfittare della situazione e mi strinse nell’angolo. Rimasi incastrata con la spalliera del divano, nella scomoda posizione di chi dà le spalle a uno che vuole proprio mettertelo in quel posto. – No, ti prego – dissi con aria supplichevole – non voglio, per favore, ho paura… -. Ma c’era poco da fare, lui era messo lì a scavare sotto il mio accappatoio e nel giro di pochissimo sentii che si era denudato e che la sua carne si accostava alla mia. Il contatto mi provocò una contraddittoria sensazione di paura, di terrore, di piacere. – No, non voglio – insistetti senza convinzione – mi fai male… -. Le sue mani avevano preso a massaggiarmi le mammelle, si era fatto strada sbaragliando l’accappatoio; in un battibaleno mi ero ritrovata nuda in pieno salotto, tra tappeti, mobili antichi e suppellettili, incastrata da uno stupido divano, mentre lui stava con i pantaloni calati fino alle caviglie e mi stava incollato dietro, crescendomi fra i glutei, ma senza spingere. Si tolse i jeans e rimase seminudo, da non so dove – doveva avere frugato per bene, prima, gli armadietti – tirò fuori un barattolo di vaselina di cui io stessa ignoravo l’esistenza, a casa mia. Mi fece stendere su un fianco, sul divano, mi offrì la sua virilità in bocca e cominciò a cospargermi di vaselina il buco… Di fuori, di dentro… Tutto questo nel sogno non era mai avvenuto: lo sconosciuto mi aveva sempre penetrato senza riguardo alcuno, senza creme ed emollienti. D’un tratto, mi afferrò per i capelli, mi allontanò dal suo sesso: mi sospinse all’indietro e finii supina; mi fece piegare le cosce all’indietro, prendendomi per i calcagni e divaricandomeli il più possibile. – Non farmi male, ti prego – dissi con sguardo implorante ma evidentemente poco convincente: tenendomi con le gambe spalancate si tuffò infatti letteralmente dentro di me. L’effetto della penetrazione fu talmente duro e cruento che ebbi una sensazione di dolore fortissimo, sentii il mio sfintere lacerarsi, sentii bruciore come se mi uscisse sangue. Gridai con gli occhi serrati ed evidentemente più gridavo, più gli piaceva, perché lui spingeva come un matto, chiudendomi la bocca con la sua e costringendomi a urlare allacciata alla sua lingua, mentre lui faceva su e giù, costringendomi a tentare di sculettare per non farmi letteralmente sfondare. Man mano che mi stava dentro, cominciai a trovare la cosa piacevole, anche se il dolore era sempre fortissimo: mi stavo eccitando anch’io, il mio piccolo sesso si induriva. – Brutto porco – gli dicevo, vedendolo salire e scendere sopra di me. E più gli dicevo le parolacce e più lui mi faceva male. Mi toccava il pistolino e ci giocherellava. Anche lui mi insultava, mi dava della puttana, della mignotta, mi insultava spingendo a fondo e cercando di inarcarsi per baciarmi i capezzoli. – Ti piace, vero? Dillo che ti piace! Dillo… -. Lo dissi: – Mi piace! Mi piace! – e cominciai a gridare non so se di dolore o di piacere o di tutt’e due cose. – Mi piace scoparti, puttanella schifosa -. – Mi piace, farmi scopare – gli risposi con un’espressione del volto che doveva essere stravolta, ma in fondo ero sincera. Uscì da dentro di me, mi tirò su, mi fece mettere a quattro zampe e tornò a penetrarmi. Di nuovo quella terribile sensazione di dolore profondo. Cominciò a fare avanti e indietro tenendomi per i fianchi… Come nel sogno… D’improvviso aumentò il ritmo, sentivo che me lo spingeva fin dentro le budella… Ad un tratto lo tirò fuori, me lo poggiò sulla schiena: sentii un fiotto caldo, poche gocce che mi sporcavano fin quasi sugli omeri. Sentii i suoi gemiti di piacere. Sentii… Sentii il suo telefonino. Gli suonò proprio in quel momento e lui lo fece squillare, ma mi lasciò in quella strana posizione, quella della pecora, con la schiena insudiciata del suo piacere, per rispondere. Si allontanò nudo, col membro semieretto, tenendosi la punta con una mano, lasciandomi disfatta e zozza sul divano. Quando tornò, aveva l’aria contenta: – Mettiti qualcosa di seducente – disse sorridendo – usciamo con gli amici del bar -. Gli amici del bar erano i classici sottoproletari del cavolo che però hanno la Z3 o la Alpine Renault, macchine cioè che se ne vedono pochissime in giro, superelaborate, inutilmente superaccessoriate. Finalmente avevo scoperto che il mio amante si chiamava Manolo e che io quella sera mi sarei chiamata Jenny: i suoi amici, Fulvio, proprietario della macchina, e Matteo, per tutta la sera non avrebbero dovuto scoprire che io in realtà non ero una vera donna. Questo era il gioco in cui Manolo decise di coinvolgermi, mettendomi in difficoltà sin dal primo momento, dato che in quella minuscola auto sportiva dovetti sedermi dietro assieme a Matteo, in uno spazio di pochi centimetri quadrati. Matteo era vestito come un sottoproletario in festa, ma era sostanzialmente una persona perbene: solo che in quel minuscolo spazio o stavamo appiccicati o c’era poco da fare. All’inizio sia lui che l’altro amico avevano provato a fare i cavalieri, ma Manolo aveva sentenziato che io ero la più minuta di tutti e tre e che poi lui dietro non ci si sarebbe messo mai. Il gioco, diversamente, non sarebbe riuscito. La discoteca era lontana una ventina di chilometri e il viaggio incollata a Matteo fu assai travagliato. Dovevamo proprio stare avvinghiati, lui con il braccio destro aperto, io rannicchiata e appoggiata sul suo fianco: ma forse avrei dovuto dire che ero un tutt’uno con il suo fianco. Il mio braccio sinistro, nudo e conturbante, stava per necessità appoggiato sulla coscia destra di lui. La sua testa stava pericolosamente vicina alla mia, al punto che, se ci fossimo girati contemporaneamente l’uno verso l’altra, avremmo rischiato uno scontro di nasi. Persino parlare era difficile, in quelle condizioni. Nonostante tutto, mi fece le domande di rito (“Anni? Fidanzata? Scuola o lavori?”) e la conversazione mi faceva entrare sempre di più nel mio ruolo di signorina. I due davanti, intanto, si disinteressavano completamente di noi e ascoltavano la musica, badando alla strada. Matteo era un bravo ragazzo, ma non era fesso e poiché il mio cavaliere, Manolo, mi aveva ceduta così a buon mercato, in una posizione in cui qualunque ragazzo, perbene o non perbene, ci avrebbe provato, pensò due cose, una verissima, e cioè che il mio accompagnatore di me se ne stava fregando; la seconda parzialmente vera, e cioè che io ci stavo. Iniziò prima a poggiarmi una mano su un braccio, attese qualche minuto e, visto che non c’era resistenza, la lasciò andare in un esile abbozzo di carezza. Nell’abbraccio forzato in cui stavamo, io un po’ non ci feci caso, un po’ trovai ridicolo dirgli di non carezzarmi. – Hai una bella pelle – mi disse in un orecchio. Io lo ringraziai e lui interpretò questo mio gesto come il permesso per carezzare anche l’altro braccio. – Hai un bel vestitino – aggiunse. Cominciavo a sentirmi nella favola di Cappuccetto rosso. – Quando fai l’amore – fu l’inattesa domanda successiva – ti piace stare sopra o sotto? -. – E a te? – risposi con un’altra domanda, pensando di metterlo in difficoltà. – Di lato, come siamo messi noi adesso – disse ridendo e facendomi ridere. Nulla da dire, era simpatico. Reclinai la testa sulla sua spalla, rilassandomi un istante. Mi accorsi che questo mio gesto lasciava credere chissà che. Ma in realtà non sapevo che fare: dire a Fulvio di fermare e farmi scendere, protestare a voce alta, invitare Matteo a non insistere? Se il gioco era quello di farmi credere femmina a tutti gli effetti, il primo degli amici di Manolo aveva abboccato in pieno: ma c’era un particolare; che io non sapevo come fermare quel cavolo di gioco. Fu in questa strana, intima posizione, per due che si conoscevano da nemmeno dieci minuti, che Matteo mi prese la mano sinistra. Interpretai il gesto come una manifestazione di dolcezza e forse lo era. Me la carezzò, me la baciò tenero, romantico. Mi diede un morsetto sull’indice, lascivo. Sorrisi turbata, imbarazzata. Romantico, certo… Dopo qualche istante però dovetti ricredermi, perché me l’aveva portata sul suo pisello. Mi girai per guardarlo con aria che voleva essere di rimprovero, ma intanto non riuscivo a staccarmi dalla sua presa. – Non ne hai mai toccato uno? – chiese con aria da perfetto impertinente. Avrei voluto incenerirlo, ma non riuscivo a far nulla e così seguii il movimento che la sua mano impartiva alla mia, masturbandolo piano. – Sei una porca – mi sussurrò in un orecchio. Poi mi tolse la mano da lassù, ma lo fece solo per abbassare la lampo. Nell’oscurità intuii dall’intenso odore di sesso che lo aveva tirato fuori. Non fu molto gentile, nel farmi piegare la testa. Dovetti improvvisarmi contorsionista, per prenderglielo in bocca. Non potevo manovrare di mano e lui me lo fece trovare già bell’e sgusciato, col glande nudo nudo. Dovevo masturbarlo solo con la bocca: con la lingua calda lo massaggiavo, con le labbra lo stuzzicavo, con il palato lo prendevo tutto dentro, fino alla gola. Il porco mi teneva schiacciata lì sotto, quasi senza respirare, dettandomi il movimento dello stantuffo. I due davanti facevano finta di niente e anzi aumentarono il volume della musica, in modo da coprire i mugolii di quel bravo ragazzo di Matteo. Tirai fuori la bocca proprio un attimo prima che venisse: ero ancora inesperta e la musica non mi faceva sentire il suo respiro che si faceva affannoso, i suoi mugolii di piacere che si facevano più frequenti. Io, credendo di fargli cosa gradita, volevo baciargli l’asta, ma lui mi riafferrò la testa senza tanti complimenti e mi costrinse a succhiargli lo sperma. Rimasi quasi soffocata, ma alla fine di quella nuova esperienza di sesso vidi le insegne della discoteca. La nottata cominciò grigia: l’unico che in teoria avrebbe dovuto provarci sarebbe dovuto essere Fulvio ma era timido e, visto che mi ero comportata proprio da mignotta con il suo amico, pensò forse che avrei dovuto prendere l’iniziativa io. Cosa che non mi sognavo di fare. Mi invitò a ballare un lento, ma era una specie di orso, mi pestava i piedi e poi io non ero evidentemente abituata a ballare come una femmina. Lo vedevo molto indeciso, mi infastidiva il suo atteggiamento. Bevevo, e forte, forse solo per non parlargli. Stavamo seduti l’una di fronte all’altro, senza riuscire a comunicare. D’un tratto mi si avvicinò Manolo. – Il gioco deve andare avanti – mi disse deciso – non puoi lasciarlo a metà sul più bello. Lì dietro – e con lo sguardo indicò degli ambienti alle mie spalle – ci sono dei separè. Lui ti aspetterà lì -. Forse avevo esaurito la mia libido, forse ero solo esausta, forse non avevo voglia. Cercai di abbozzare un rifiuto, ma Manolo non ammetteva repliche. Andai alla toilette e istintivamente stavo per entrare in quella degli uomini. Mi fermò uno sguardo caldo, una voce vellutata: – Dove vai, carina? -. Mi girai terrorizzata. Era un bel ragazzo, bruno, alto. – Che testa! Dev’essere il Bacardi – mi giustificai arrossendo, ma nell’oscurità non si vedevano le mie guance paonazze. Sparii dietro la porta della toilette delle donne. Dentro c’erano due ragazze più svestite di me (e quella sera non era facile) che si rifacevano il trucco davanti a enormi specchi. Entrai in un bagno e mi richiusi la porta alle spalle. Ero abituata a fare pipì seduta, anche a casa lo facevo per comodità, ma in un cesso pubblico non ci ero mai riuscita e l’avevo sempre fatta in piedi. Tirai su la tavolozza, la feci, mi sentii libera e leggera. Saltai in aria nel sentire la porta che si spalancava alle mie spalle: avevo dimenticato il lucchetto. – Ehi, che roba! – sentii una voce alle mie spalle. Mi girai: era la più svestita delle due ragazze svestite. Mi guardava con gli occhi di chi ha capito tutto. Richiusi sgarbatamente la porta. Quando uscii quella non c’era più. Diedi un’occhiata allo specchio, tirai fuori dalla borsetta phard e rossetto, mi tirai a lucido. Tornai in pista che ero uno schianto. Manolo era lì che pareva aspettarmi. Mi sorrise: – Sei proprio una gran figa – disse e poi, indicando verso la zona dei salottini, aggiunse: – Privè numero sei! -. La zona dei box era tutto un mugolare coperto a malapena dal rimbombo della assordante musica da disco. Ombre come me si aggiravano da un separè all’altro, alla ricerca di emozioni da voyeur, di un partner change o di chissà cos’altro. I vetri erano traslucidi, dentro si vedevano altre ombre che si avvinghiavano, si contorcevano. Credetti di aver trovato il mio, spinsi la porta e invece c’erano un ragazzo con le cosce spalancate e una ragazza tuffata sul suo pube, che riusciva a coprire con il suo casco di capelli rossi. Richiusi imbarazzata. ‘Ma non si possono chiudere dentro?’, mi dissi. Trovai il numero sei. Bussai, ma rimasi senza risposta e allora aprii. Dentro c’era Fulvio, già senza pantaloni, tanto per rendere l’atmosfera ricca di suggestione… ‘Che stronzo’, pensai. Cercai di assicurare la porta con un lucchetto dall’interno, ma non ci fu verso: ecco perché ero riuscita ad entrare nel privè sbagliato. Era una sorta di regola del gioco aggiuntiva, il fatto che la tua privacy fosse in realtà solo teorica, che tutti coloro che lo volessero, potessero guardarti mentre facevi sesso. – No, io così non ci sto! – dissi a Fulvio, ma lui era schizzato in piedi e mi aveva presa per i polsi. – Tu adesso fai quello che dico io… – disse duro, spingendomi sul divanetto. Crollai come una pera matura: non mi aspettavo tanta decisione. Mi fu addosso in un battibaleno. Cercò di baciarmi, ma io non volevo. Vidi che si stava innervosendo. – Senti, signorina puttanella – disse tenendomi sotto di sé – se è vero quello che mi dice Manolo e se ho visto bene nel retrovisore, sei una porca di facili costumi. Giusto con me vuoi fare la schizzinosa? -. – Non puoi prendermi con violenza e pretendere che faccia la brava! – protestai. – Hai ragione – disse scivolando in ginocchio sulla moquette – scusami… E’ che sono un insicuro, che ho paura di non piacere alle donne… -. Lo guardai un istante. In effetti non aveva tutti i torti, ad essere insicuro: era bruttino assai, ma la sua incertezza lo rendeva dolce. Gli sorrisi tenera: – Stai tranquillo – gli dissi con aria materna – cosa mi vuoi fare? -. La risposta mi fece sobbalzare: – Leccarti lì sotto… -. Cercai di tirarmi su, di riavermi, ma lui, catturato dalla mia dolcezza, mi aveva già sfilato le scarpe col tacco che mi avevano fatto vedere i sorci verdi per tutta la notte e aveva preso a baciarmi i calcagni… Era una cosa che mi piaceva tantissimo, me l’aveva fatto Manolo nel pomeriggio e mi ero sentita in paradiso. – No, ti prego, non puoi leccarmi… – dissi cercando di essere convincente. – Perché? Lo so fare benissimo… Ti piacerà da impazzire… La mia cuginetta Iris ci gode da morire… -. La situazione precipitava: conquistata da quel suo massaggiarmi i calcagni con denti e lingua, felice perché si stava prendendo in bocca i miei alluci velati dalle calze autoreggenti, ero del tutto indifesa. Cercò di sfilarmi le mutandine, ma mi aggrappai alle mie forze residue e glielo impedii: – No, ti prego – mugolai. Potevo inventargli di essere indisposta, ma non ebbi prontezza di spirito. Lui si tuffò laggiù, cercando di tirarmi via gli slip con i denti. Sentii i suoi baci poggiarsi sulla mia carne che inevitabilmente si era rassodata, fatta dura… Ancora non capiva. Baciava e non capiva. Leccava e non indovinava cosa. Tentavo di allontanarlo ma aveva muscoli del collo d’acciaio e insisteva. Fino a quando non riuscì a sollevarmi da sotto e a togliermi le mutandine di pizzo che già si erano arrese un paio di volte, quel giorno, il mio primo giorno da femmina. Rimase gelato, mentre io rimanevo immobile. Non riuscì a sollevare il capo, a guardarmi, ma intanto non mi toccava: stava a due-tre centimetri dalla sorpresa, senza sapere che dire, che fare. – Te l’avevo detto, di non affondare i colpi – dissi ansimante. Lui allora sollevò gli occhi, li affondò nei miei. – Chi cavolo sei? – chiese con occhi tra il feroce e l’interdetto. – Quello che vedi – risposi mentre mi sarei voluta nascondere sottoterra o dentro il divano. Rimanemmo in quella strana posizione non so per quanto tempo: io distesa con la schiena sul divano, le cosce spalancate, il piede destro poggiato sulla spalliera, l’altro in mano a lui; lui che stava accovacciato tra le mie cosce, senza sapere se tornare indietro, sollevarsi o planare sul mio pube. Temetti per qualche istante che volesse staccarmelo a morsi: intanto come inevitabilmente si era destato, altrettanto ineluttabilmente stava crollando. – Scusa – sussurrai – dai, torniamo di là -. Fu in quel momento che accadde l’imprevedibile, la cosa che cambiò tutto. La porta si spalancò, una figura maschile si stagliò sulla soglia. Fu il panico. Non seppi che fare e feci la prima cosa che mi venne in testa: afferrai la testa di Fulvio e la schiacciai sul mio sesso. Lui oppose un attimo di resistenza, ma solo un attimo: poi sentii il mio glande scappucciato entrare in un guscio caldo e dolce, la sua bocca. Sperai che così l’intruso, imbarazzato, andasse via. Invece quello non era affatto imbarazzato. E non era nemmeno solo: tirò dentro il privè una figura femminile e richiuse la porta. Fulvio intanto si dava da fare con grande abilità. Sospettai di lui, delle sue reali tendenze, ma mi importava poco o nulla: in realtà, forse, il poveraccio cercava solo di tenere la testa nascosta, di non farsi vedere in faccia. La coppia di sconosciuti intanto si era avvicinata al divanetto, lei si era seduta accanto a me. La luce soffusa rendeva difficile capire le loro fattezze. Sentii la mano della donna che mi carezzava i capelli. Girai lo sguardo verso di lei e sobbalzai: era quella della toilette di poco prima. Lei mostrò di non avermi riconosciuto. Poi guardai lui: era il belloccio che avevo pure incrociato vicino alla toilette degli uomini… Mi avevano seguita o cosa? O cavolo, pensai, mentre intanto Fulvio era riuscito a portarmi in alto, molto in alto. La ragazza mi passò un dito sulle labbra, io glielo lambii con una striscia di lingua, lei me lo infilò dentro. Il ragazzo si chinò su Fulvio, gli posò una mano sul fianco: – Vuoi il cambio? – gli propose. Quello non se lo fece dire due volte: si tirò su, si tolse di mezzo e lo fece accomodare. Lo sconosciuto si chinò e mi prese in bocca l’uccello come se si aspettasse di trovarlo: anzi diede proprio la sensazione di cercare proprio quello. Mugolò intensamente, poi cominciò a toccarmelo con le mani, a menarlo dolcemente. Mi tirò su il vestitino, più in alto di quanto non fosse già. Aveva capito tutto con il suo sguardo in penombra, poco prima, davanti alla toilette. Fulvio intanto stava recuperando un po’ di sensazioni virili: si era messo in piedi e l’aveva dato in bocca alla ragazza nuova arrivata; lei aveva preso a giochicchiare con le mie tettine, non facendosi distrarre neppure da quella nuova occupazione. Presa da questo fascio di sensazioni, sentii che il ragazzo di sotto mi aveva infilato un dito nel buchino, che se lo inumidiva e che stava facendo un lavoretto niente male… Il ragazzo del sogno, pensai… D’un tratto sentii che quello mi aveva lasciato il sesso e mi stava spalancando le gambe: lo sentii appoggiarsi su di me, già duro e iniziare a penetrarmi. Fulvio simultaneamente aveva fatto stendere la signora sulla parte libera del divanetto e stava cominciando a sua volta a penetrarla. I due montoni si mossero all’unisono, sfondandoci simultaneamente. LO sconosciuto mi guardava compiaciuto, beato, mentre la sua donna riceveva il sesso di Fulvio e al tempo stesso cercava la mia bocca, senza trovarla, per i vigorosi colpi che le dava il suo improvvisato partner. A un certo punto però si ribellò: – Fammela baciare! -. Fulvio si fermò, si bloccò anche l’altro: la sconosciuta mi acchiappò la lingua con la sua, facendo una torsione del busto e del collo. – Scopateci! – ordinò a mezza bocca. I due uomini ripresero a muoversi sopra e dentro di noi. La ragazza ottenne di poter mettersi alla pecorina, in modo da poter baciare le mie tette e farmi baciare le sue: erano grosse, gonfie, sode, con un paio di capezzoloni che avevo sempre sognato di avere io e di poter schiaffare in bocca indifferentemente a uomini e donne. Rimasi con il suo seno in bocca a lungo, fino a quando non mi sentii annaffiare dal piacere caldo di Fulvio e del suo nuovo amico. Al tempo stesso godetti anch’io, sporcando la mia nuova amica. Tornammo nel salottino distrutti. Manolo e Matteo erano lì, mezzi brilli, annoiati: ci avevano quasi dimenticati. Mi sfasciai su un divanetto, salutando con un sorriso dolce i nostri improvvisati partner. Pensai che non sapevo neppure come si chiamassero e cominciai a credere che i nomi erano un optional, in quel tipo di rapporti. Mi sentii sporca, sporchissima, per quel modo di pensare, ma non mi turbai più di tanto e presi sonno, nonostante il frastuono della musica. Fu mentre ero adagiata, su un divanetto, semiaddormentata, che mi sentii prendere per un polso: pensai a Manolo, o a Matteo, o a Fulvio, e avevo pronta una rispostaccia. Ma non era nessuno dei tre. Aprii bene gli occhi. Era il supplente di educazione fisica. – Che ci fai, qua? Che ci fai, vestito così? -. Sentii che sarei voluta sparire sotto terra, di fronte a quel feroce rimprovero. Ma come diavolo mi aveva riconosciuta, conciata in quel modo? Come mi aveva individuata, in mezzo a tanta gente, in quel locale stracolmo? – C’è… c’era una festa… in maschera con qualche amico – balbettai – e poi siamo venuti qua -. – Non ti credo. Ti sei travestito perché sei completamente omosessuale -. – No, no, non è vero, glielo giuro, professore -. – Ma perché mi dai del lei? Dai, tirati su, ti accompagno a casa -. Nel vedere la scena, Manolo mi si avvicinò, per chiedere se avessi bisogno di qualcosa, ma io gli dissi che andavo via con quel mio amico e lui, da perfetto cavaliere che non aveva più nulla da chiedere, né per sé né per altri, non ebbe nulla da obiettare. In macchina non scambiammo nemmeno una parola. Il supplente mi chiese solo dove abitassi. Io rimasi tutto il tempo a guardare la strada, senza osare rivolgere gli occhi verso di lui. – Se ti piacciono i maschi – esordì lui, dopo un lungo silenzio – non c’è nulla di strano. Ma vestirsi da donna e uscire con dei ragazzi significa indurre gli altri a fare strani pensieri… Avere tendenze gay non significa dover fare la troia a tutti i costi. Sei un ragazzo intelligente: come puoi non capirlo? -. – Se mi parli così – gli risposi con voce rotta dal pianto – se mi dici che sono un ragazzo intelligente, mentre mi vedi vestita così, mi fai sentire un essere inutile, un reietto… Io sono quello che sento di essere: così sono me stessa… Non sono un travestito! Io mi travesto quando mi vesto da uomo! – . Arrivammo a casa. Lui fermò l’auto: – Impara ad accettarti così come sei. Dai, scendi -. – Solo un attimo – chiesi – posso farti una domanda? -. Accettò a malincuore. – Quando ti raccontai del mio sogno… avevi capito? -. Annuì e aggiunsi subito la seconda domanda: – E quando in palestra mi hai… toccato il seno… Hai provato la stessa scossa che ho sentito io… qui sotto? – dissi indicando il cuore e istintivamente gli presi una mano e me la portai sul seno sinistro. Il supplente sembrò spazientirsi: – Cosa cambia? – protestò trattenendo la mano solo un istante, il tempo di farmi provare la sensazione di un lieve palpeggiamento e poi ritraendola. – Mi hai toccata solo perché ti avevo parlato del mio sogno? In altre parole: ci hai provato anche tu? -. – Stai a sentire, ragazzino o ragazzina… Io tengo a te come a un qualsiasi altro mio studente o studentessa… -. – Indosso il tuo regalo – gli sussurrai, interrompendo con dolcezza la sua iraconda replica e mi carezzai il seno, facendo poi scivolare la mano sul sedere e sulle calze. – Sei tu, che non ti accetti così come sei – gli dissi aprendo lo sportello – sei tu che non ammetti di essere diverso da come pretendi di essere e di insegnare ad essere… -. – Cosa vuoi dire? -. Si arrabbiò, prendendomi per un braccio. Restammo in silenzio, a guardarci a lungo, per un tempo non determinabile, in cui tutto ci parve sospeso sotto di noi. – Mi piaci, professore… Quando l’altra volta mi hai toccata, quando adesso mi hai palpata… mi sono sentita leggera, libera… Mi sono sentita anche libera dal ragazzo del sogno, quello che mi violenta e mi fa godere, quel ragazzo che in fondo ho cercato oggi, che ho fatto sesso con quattro perfetti sconosciuti… Cerco forse di capire chi sia il ragazzo del mio sogno, che cerco… Forse però cerco te o forse no… Forse cerco solo me stessa -. Nel dire queste cose, mi ero avvicinata progressivamente a lui, a distanza inferiore a quella di sicurezza. – Sei solo uno stupido – mi rimproverò lui – un piccolo, stupido, finocchio… -. Ma mentre lo diceva, la sua mano era ripartita, stavolta volontariamente, senza costrizione alcuna, per il mio seno e adesso lo massaggiava dolce, calda, come quella volta in palestra. Il capezzolo, anche questa volta, rispose prontamente alla chiamata e si mise all’impiedi. – Ti amo, professore – gli dissi baciandolo sulla bocca. Mi ciucciò l’alluce, mi leccò tra le dita dei piedi, mi mordicchiò i talloni e i calcagni. Il supplente di educazione fisica era un amante sopraffino, capace di grandi raffinatezze e di forme di sottile perversione. Nudo faceva la sua figura e non disdegnava di prendermelo in bocca. Mi morse l’ombelico, mi mangiò le tette, mi azzannò le spalle, mi torturò i lobi, mi spalancò le cosce e mi leccò profondamente, proprio lì dove, poche ore prima, ero stata sfondata due volte. Fu un dolce lenimento naturale, fu un ristoro in vista di una nuova penetrazione. Baciava divinamente, il professore. – Non devi avere paura del sesso – mi sussurrava mentre lo facevamo e mentre, messa alla pecorina, lo ricevevo dentro di me. Lui mi palpeggiava le mammelle, proprio come certi pastori fanno con le pecorelle piene di latte, mi rassicurava mentre riusciva a non farmi tanto male, grazie a un provvidenziale e salvifico profilattico, in tempi di Aids. – Non devi pensare che tutti gli uomini siano come quello del tuo sogno – insisteva, sempre facendo avanti e indietro dentro di me. Si staccò, cambiò posizione. Si mise sotto di me e mi fece salire su di lui, le tette rivolte verso la sua bocca vorace. – Le tue sono poppe piene di nettare degli dei – disse mentre le succhiava avido – ti guardavo in tuta da ginnastica e mi dicevo che no, non poteva essere vero, non potevano essere così sode… stare così alte, su, da sole -. Mi fece di nuovo cambiare posizione: il signor professore aveva una bella resistenza, nulla da dire; adesso lui stava sempre sotto, ma io gli davo le spalle. Così – aggiunse, mentre mi massaggiava il seno con entrambe le mani, facendomi fare su e giù, proprio come quella volta in palestra – ho deciso di tastartele. Volevo vedere che effetto ti faceva e che effetto faceva a me… Un effetto devastante… -. Riusciva a fare sesso parlando di altro, come il telecronista che, in un momento di stanca della partita, si mette a dire quant’è bravo questo o quel giocatore, quanti gol ha fatto negli ultimi dodici campionati, quanti di testa, di piede e di coscia. -… Devastante – ripetè -. Da quel momento in poi ho cominciato a desiderarti come un matto… Ma non potevo darlo a vedere… Io ho 25 anni, tu appena 19… Eppure ti trovo meglio di una ragazza… Più completa, più donna, più femminile persino di una ragazza vera -. Il professore tirò fuori il membro da dentro di me, sfilò via il profilattico, lo avvicinò al mio viso, iniziò ad inondarlo di talmente tanto seme che mi sentii sopraffatta, asfissiata… Fu in quel momento che mi svegliai. Mi ritrovai tutto sudato, o tutta sudata, non sapevo dirlo bene: ero nel mio letto, non avevo le tette né un professore di educazione fisica porco, né un garzone del supermercato filosofo e profittatore, né due sottoproletari in vena di facili avventure a buon mercato, né due signori snob che cercavano emozioni forti con un trans. Era tutto finito, avevo sognato e mia madre mi stava portando la colazione a letto. Ma assieme alla colazione aveva un pacchetto anonimo, sul quale era incollata una busta. APRI QUANDO SEI SOLA, c’era scritto. Cazzo, di nuovo! Ma quando finirà, questo lungo, interminabile sogno?

