Capitolo 6 – La SfidaLotar guidava; al suo fianco era seduto Giacomo, mentre sul divanetto posteriore si erano sistemate Elfrida ed Elisabetta.Questa ultima non cessava di brontolare. “Ma che cretina…” iniziò a dire, proseguendo dopo alcuni secondi di silenzio. “Che stronza.” Forse sperava in una ribattuta da parte di Elfrida, che invece non la guardava neanche in volto. Stava con la testa girata verso il vetro del finestrino, come se la interessasse enormemente il panorama delle strade e della città di notte.Elisabetta le mise una mano sulla coscia. “Buttarsi via così, senza…”Elfrida in ogni caso non rispondeva.”…così, senza nessuna preparazione.” Si tese verso Elfrida per pulirle il viso, gli angoli della bocca con un fazzolettino di carta. Elfrida era rimasta dapprima sorpresa dalla reazione di Elisabetta; poi d’un tratto, in modo simile alla luce di un lampo, di un flash che squarcia le tenebre, aveva cominciato a capire. Mentre il veicolo condotto da Lotar attraversava i quartieri della città per recarsi ad una destinazione sconosciuta, elaborò mentalmente alcuni concetti.Prima di tutto, lei stessa. Cosa stava diventando? La risposta ormai la sapeva. Era semplice, disarmante, eppure le era sfuggita per tanto tempo. Facile: stava diventando ciò che veramente era. Finalmente conosceva se stessa e ci era riuscita solamente grazie a ciò che era capitato: il tradimento in flagrante di Filippo, la confessione di questi di averla tradita altre volte, con quella spiegazione sprezzante, offensiva, che le era bruciata dentro, nel profondo dell’animo, per mesi e mesi: “Troppo poco troia.” Quindi il lavoro, quello strano lavoro di segretaria iperpagato con il ciondolo, l’osservatore, l’occhio. La volontà di reazione nei confronti del tradimento di Filippo, scoperto per giunta dopo che lei aveva rifiutato un approccio sessuale da parte di Perrone (almeno così l’aveva interpretato: salvo poi verificare che in realtà Perrone non era direttamente interessato a lei, addirittura era forse omosessuale) era stata la molla principale, l’inizio di tutto. Anche adesso, nel ripensarci provava una rabbia cieca. Ma come!? Lei aveva rifiutato un buon posto di lavoro sostanzialmente per fedeltà, spinta anche dalla volontà di tornare a casa dal suo uomo che era malato, ed invece Filippo aveva architettato un incontro con un’altra donna, mentendo vigliaccamente, ferendola più volte, come se l’avesse colpita con un pugnale a più punte, dotato di lama multipla. La rabbia ed il rancore, quindi, erano stati il propellente principale, il primo stadio del missile. Ma non sarebbero stati sufficienti, da soli, se altre circostanze non avessero alimentato gli stadi successivi. Quali erano queste altre circostanze? La risposta appariva chiara: in primo luogo, la volontà di appagare l’osservatore. L’osservatore che avrebbe potuto garantire il posto di lavoro, soldi e carriera. L’interesse, insieme alla voglia di emancipazione, erano l’albero cresciuto lussureggiante sul fertile terreno del rancore e della rappresaglia nei confronti di Filippo.L’osservatore era stato l’alibi principale dietro il quale si era nascosta sino a quel momento. Nella sua mente come in un loop senza uscita era rimbalzato un ragionamento del tipo: Filippo dice di aver bisogno di altre donne perché sono più aperte, più puttane? Riesco ad ottenere un posto di lavoro solo facendo la mignotta? Posso garantirmi un lauto reddito assecondando l’osservatore che, come mi è stato detto, mi spia? L’osservatore stesso, per avvertirmi che mi sta guardando, mi ha regalato un ciondolo con un occhio che si apre? Bene, ve la farò vedere io a tutti quanti quanto sono capace di fare la troia. Vi farò ricredere. Mi volete tutti puttana? Sarò puttana, vi farò vedere io.Poco per volta però questo alibi si era fatto più labile ed anche le motivazioni della sua trasformazione apparivano meno convincenti. La spiegazione vera era un’altra, Elfrida non aveva più nessun motivo di nasconderla a se stessa ed agli altri. Decise quindi che da quel momento in poi sarebbe stata sincera con tutti, in primo luogo con se stessa, fino in fondo.La verità era che le piaceva, le piaceva immensamente essere così. La sua natura era emersa prepotentemente ed ora doveva imparare a convivere con la vera Elfrida. Le piaceva essere sottomessa perché, evidentemente, il suo ego era sostanzialmente e profondamente masochista. Amava subire umiliazioni che si ripercuotevano sul corpo e sull’animo garantendole piacere, il piacere della sofferenza morale prima che fisica. Ora che tutto era sufficientemente chiaro, era lampante anche un altro aspetto: il suo egoismo. Era lei, Elfrida, a voler essere così; era lei ad avere bisogno di un padrone, o di una padrona, come nel caso di Elisabetta, per poter provare quelle emozioni fortissime di cui sapeva di non poter fare più a meno.Adesso che Elisabetta sembrava aver perso un po’ del suo smalto, adesso che intuiva l’incapacità di Elisabetta di poterla seguire nelle sue esperienze sempre più estreme di perdizione, adesso che nel tono della voce sembrava emergere un po’ di affetto e comunque qualcosa di diverso dal patto diabolico che lega il padrone allo schiavo, era il momento di far capire a tutti chi era che comandava veramente: avrebbe fatto chiaramente capire che se non erano capaci di stare al suo gioco, di rispettarne le regole e le leggi, di farle provare emozioni sempre più coinvolgenti, l’avrebbero persa. Se ne sarebbe andata là dove altri sarebbero stati all’altezza delle sue aspettative. Elfrida aveva capito che con la sottomissione poteva piegare gli altri al proprio volere; che attraverso la sottomissione, la più umiliante delle sottomissioni, stava acquisendo un potere enorme, il potere di poter disporre degli altri per i propri fini.Per questo motivo, ostentatamente, non prestava ascolto ai messaggi che Elisabetta stava lanciando. Messaggi che sembravano preludere ad un rapporto di tipo diverso tra le due donne: meno formale, più amichevole. Di un rapporto così Elfrida non sapeva che farsene: non era lesbica, anche se era capace di prestarsi a rapporti di tipo saffico, e non era innamorata di Elisabetta. Anzi, volendo indagare fino in fondo, Elisabetta poteva rappresentare un ostacolo, un inutile intermediario tra lei ed il vero interlocutore, quell’interlocutore silenzioso ma sempre presente, discreto ma invadente allo stesso tempo: l’osservatore.Guardò il ciondolo: l’occhio era aperto. “Sei in diretta” disse Elisabetta. “E siamo in ritardo, a causa del tuo scriteriato fuoriprogramma.”Era evidente l’incazzatura. Il giocattolo si era messo a funzionare anche senza pile; il computer non rispettava l’algoritmo prestabilito. Il risultato finale diventava imprevedibile.”Colpa mia, signora” ammise Elfrida.”Non basta dire: colpa mia. Bisogna non comportarsi in un certo modo.” Mise una mano sotto il mento di Elfrida per girarne il volto e poterlo osservare. “Guarda qua… sembri proprio uscita da un’orgia.””Eh eh!” rise Giacomo. “E’ proprio ciò che ha fatto, a ben guardare.””D’accordo, ma non era stata organizzata per lei ed in ogni caso ha assunto iniziative proprie, disobbedendo agli ordini.””Ma ci ha fatto godere da pazzi” concluse Giacomo. “Non avevo mai assistito a niente di simile e non vedo l’ora di poter…””Forse dovremo rimandare” lo interruppe Elisabetta. “Guarda com’è conciata: i vestiti strappati, senza mutande, il trucco sfatto. Ha bisogno di un bagno caldo e di riposo. Lotar, torniamo indietro, portiamola a casa.”Tra la sorpresa generale, si udì la voce di Elfrida: “Signora, la prego. So di aver sbagliato. Ho bisogno di essere punita.”A Giacomo sfuggì un gesto di ammirazione.”Siamo arrivati” disse Lotar. Accostò al marciapiede e spense il motore. Erano appena usciti dalla città e si trovavano di fronte ad una villetta immersa nel verde di un piccolo parco. Si voltò a guardare Elisabetta. “Che facciamo?” chiese.Elisabetta lanciò uno sguardo in direzione di Elfrida. Suo malgrado, “Scendiamo” disse.Entrarono nella casa ma senza passare per l’ingresso principale. “C’è gente” spiegò Elisabetta. “Ci stanno aspettando, ma tu sei impresentabile.””Le faremo fare una veloce doccia” disse Giacomo, aprendo con una chiave una porta che si apriva sul retro dell’abitazione. Elfrida ne dedusse che la casa doveva essere di Giacomo.Entrarono in una stanza arredata in modo rustico. Mentre Elisabetta parlottava con Lotar, Giacomo sussurrò piano ad Elfrida: “Io la stimo molto, signora. Lei ha in mano la combinazione segreta che apre il mio cuore. Io…”Si fermò vedendo Elisabetta avvicinarsi. “Cosa parlottate, voi due…” li interruppe. Lanciò uno sguardo di traverso ad Elfrida. “Spogliati, subito. Giacomo, dov’è la doccia?” Di nuovo rivolta ad Elfrida: “Fai veloce.””Sì, signora” obbedì Elfrida. Si tolse i pochi vestiti che aveva indosso e rimase completamente nuda, le braccia abbandonate lungo i fianchi, in piedi al centro della stanza. “Forza” incitò Lotar, carezzandole una natica. “Andiamo bella, datti una ripulita che poi darai spettacolo.””Sì, signore.”Giacomo indicò dove era la doccia. Elfrida ebbe l’impressione che la stanza in cui si trovavano fosse di secondaria importanza all’interno della villa: se non si fosse trattato di una terminologia desueta, la avrebbe definita come “stanza per la servitù”. Avrebbe anche potuto essere una stanza per gli ospiti: c’era un letto ed anche il bagno.”Lotar, Giacomo” chiamò Elisabetta. “Andate ad intrattenere le persone. Scusiamoci per il ritardo.”Prima di andarsene, Giacomo sfiorò con una mano la peluria sul monte di venere di Elfrida. “Bellissima” sussurrò.Una volta rimaste sole, Elisabetta spinse letteralmente Elfrida sotto la doccia. Aveva preparato un accappatoio ed alcuni asciugamani.”Ascolta” le disse, mentre apriva l’acqua calda sentendola con una mano per vagliare la temperatura. “Tanto adesso non ci sente nessuno. Tra noi potremmo anche smetterla con questo giochino del Sì signora. Che ne dici? Dammi del tu.”Elfrida non rispose subito. Apprezzò il getto caldo ma non bollente dell’acqua sul suo corpo: quanto bastava poco per sentirsi di nuovo pulita! Avrebbe potuto cogliere al volo la mano tesa che le stava porgendo Elisabetta per capirne di più sulla situazione in cui si era cacciata, su ciò che la attendeva. Ma non desiderava privarsi dell’ebbrezza del rischio, dell’umiliazione. Inoltre era il momento propizio per far capire che era lei, l’umile Elfrida, a dettare in realtà le regole del gioco, a segnare il passo della danza, a dirigere l’orchestra, anche se non conosceva la partitura fino in fondo. La sua era una sorta di recita a soggetto, è vero, ma il canovaccio lo stava scrivendo lei, poco importa se le situazioni erano preparate da altri e se le battute non erano scritte, almeno le sue. Per cui dopo qualche secondo di incertezza, guardò Elisabetta negli occhi, con un’espressione dura, e rispose: “Preferisco di no, signora.”Elisabetta ebbe un moto di stizza e buttò l’accappatoio per terra. “Allora arrangiati” proferì. “Ma non cercare mai più il mio aiuto.” Visto che Elfrida non rispondeva, così proseguì: “Chi ti credi di essere, una superdonna? Sei solo una troia, ne ho viste e conosciute tante come te.” Altra pausa; nel frattempo, col capo chino, Elfrida era uscita dalla doccia e dopo aver raccolto l’accappatoio lo aveva indossato. “Non pensare di essere speciale. Per me non sei niente. Per me è un dovere occuparmi di te. Lo sai, vero?””Sì, signora.”Elisabetta si lasciò sfuggire un grosso sospiro. Non era contenta di come si stavano mettendo le cose: non riusciva a spiegarsi fino in fondo come lei, la padrona, potesse sentirsi inferiore alla schiava e succube. Prese una decisione improvvisa.”Vieni qui, vicino a me” intimò.Elfrida obbedì.Elisabetta sedette su una sedia ed allargò le gambe. “Inginocchiati qui avanti” ordinò. “Leccami tra le cosce. Infila la lingua sotto l’elastico delle mutande. Non aiutarti con le mani.”Finalmente Elfrida ebbe un’altra scarica di adrenalina e provò nuovamente l’immenso piacere di essere comandata a soddisfare voglie perverse. Si inginocchiò ed accostò il volto tra le gambe divaricate di Elisabetta, che pregustando momenti intensi di piacere aveva già il respiro frammentato per l’emozione. Quando sentì l’odore della fica di Elisabetta, cominciò a leccare la stoffa degli slip ed avvertì fortissimo il desiderio di toccarsi: ma non lo fece. Amava anche quel tipo di privazione, in quanto aumentava la sofferenza morale e prolungava la durata del godimento.”Sei proprio una porca” commentò Elisabetta. Sentire quella lingua fuori della sottile stoffa dell’indumento intimo provocava un brivido caldo da far chiudere gli occhi. Ma desiderava vedere. Passò una mano tra i capelli di Elfrida: “Così, brava…” ansimò. “Ora sforzati di scostare l’elastico con la bocca. Infila la lingua dentro.”Elisabetta ardeva dal desiderio di sentire la lingua a stretto contatto con la sua pelle più sensibile, senza il diaframma costituito dalla stoffa. Sentì la lingua di Elfrida sbavare sulla pelle della coscia proprio vicino all’inguine. L’eccitazione salì prepotente di grado e divenne incontenibile: scostò quindi l’elastico delle mutandine con una mano e con l’altra fece pressione sulla nuca di Elfrida tirandola a sè. Strinse quella testa tra le cosce movendo frenetica le dita dei piedi e voltando la testa all’indietro, in preda ad un orgasmo giunto troppo presto per essere soddisfacente.”Sei una maledetta…” disse quando il respiro si fece più normale. Allentò la presa sulla nuca di Elfrida ma, afferrandola per i capelli, la forzò a guardarla in faccia. “Vieni su” ordinò.Elfrida si alzò. Quindi venne baciata violentemente sulla bocca da Elisabetta.”Ora vorrai venire anche tu, eh, piccolina?” domandò, carezzandola tra le gambe ed indugiando con le dita sulla clitoride.Elfrida ansimò. In verità, avrebbe voluto godere. Ma c’era il resto della serata. Inoltre, non voleva cedere psicologicamente di fronte ad Elisabetta: per cui studiò una risposta adatta alla circostanza. Ma prima che potesse parlare, di nuovo Elisabetta le disse: “Dammi del tu, poi ti faccio venire.””Preferisco di no, signora.” Nel parlare, si scansò un po’ ed allontanò la mano dell’altra donna.”E’ un ordine” se ne uscì allora Elisabetta. “Dammi del tu.”Elfrida le lanciò un’occhiata durissima. Per un attimo si spogliò della parte di schiava, e lo fece con fastidio.”Senta, signora” disse sillabando le parole. “Lei faccia bene la padrona. Io so ubbidire bene.”Le due donne si osservarono alcuni istanti con crescente irritazione, i pugni stretti. Ma intervenne Giacomo che piombò all’improvviso nella stanza dicendo: “Ci siamo?””Bendiamola” fece Elisabetta. “Poi è pronta.”Giacomo porse una benda nera che Elisabetta sistemò attorno gli occhi di Elfrida. “Ti bendiamo perchè…” iniziò a spiegare.”Non voglio sapere perchè” la interruppe Elfrida.Elisabetta finse di non incazzarsi per la risposta. “Senti?” si rivolse a Giacomo.”Straordinaria” commentò questi. Il buio scese avanti agli occhi di Elfrida, non appena la benda fu sistemata. Si sentiva completamente in balia degli eventi: totalmente nuda, mentre veniva spinta in una direzione sconosciuta. Sentiva un certo vociare farsi sempre più vicino. Avvertì una porta che le si apriva di fronte; Elisabetta con una debole spinta la invitò ad oltrepassare la soglia. Capì di essere entrata in un’altra stanza: avvertiva la presenza di numerose persone che puntavano i propri occhi sulla sua persona.Era inferiore: nuda, tutti la potevano osservare comodamente e senza alcuna necessità di nascondere i propri sguardi, in quanto lei, Elfrida, l’oggetto di tanto interesse, era cieca, bendata, impossibilitata a rendersi conto delle cose fino in fondo.Giacomo le prese i polsi e li portò dietro la schiena: non c’era alcuna necessità di fare forza, Elfrida assecondava volontariamente ogni movimento.Un paio di manette immobilizzò le mani dietro la schiena, legate l’una all’altra all’altezza dei glutei, poco sopra.Poi si udì la voce di Elisabetta.”Signori!” disse. Sembrò l’inizio di un lungo discorso. “Siete persone accuratamente selezionate. Vi prego di comportarvi in modo adeguato. Abbiamo qua con noi la docile Elfrida. Potete toccarla, se volete.”Elfrida sentì il proprio corpo percorso da varie mani. L’eccitazione tornò a farsi prepotente ed ancora una volta si fece vivo il desiderio di potersi sdoppiare, di poter essere contemporaneamente se stessa, nuda prigioniera e sottomessa, senza difesa, a completa disposizione di gente sconosciuta, ma anche di essere in mezzo agli altri, di vedersi quindi palpata, toccata, violata nei suoi segreti più intimi; desiderò di vedere i volti di quel pubblico sconosciuto, volti che immaginò sudati, ambigui, ammiccanti, complici gli uni degli altri, il tutto a sue spese, a sua insaputa. Avrebbe voluto essere consapevole di ciò che gli altri provavano nei suoi confronti, certi della propria segretezza, della propria immunità.”Elfrida” disse Elisabetta, “ti presento il dottore.”Le manette vennero slacciate ed Elfrida capì subito come doveva comportarsi.Allungò la mano, come le avevano imposto di fare. Cercò alla cieca i pantaloni di chi le stava di fronte, aprì la pattuella e dopo averla aperta vi infilò la mano dentro, impugnando quel cazzo sconosciuto.”Buonasera signore” disse.”Il professore” presentò Elisabetta.Di nuovo un’altra stretta di cazzo. “Signore, il piacere è mio” disse Elfrida; fu palpabile l’effetto di queste parole su tutta l’assemblea.In tutto le vennero presentate una ventina di persone; una di loro, ne era certa, doveva essere l’osservatore. Impossibile comunque riconoscerlo. Forse quando le avevano presentato “il magnate”? oppure “l’industriale”? Impossibile capirlo dal tono di voce di Elisabetta, che si era mantenuta neutrale non tradendo alcuna emozione. Venne sistemata da Giacomo (almeno credette che si trattasse di lui, con l’aiuto però di altri, probabilmente Lotar) su di un lettino. Le fecero alzare le braccia per poi legarle nuovamente, sopra il capo, ad una struttura fissa con le solite manette. Quindi alcune mani la afferrarono per le caviglie e la costrinsero ad allargare le gambe. Anche le caviglie vennero legate con un altro paio di manette, in modo da non poter essere spostate dalla posizione prestabilita.Sì, era legata e costretta ad una posizione tipo visita ginecologica, con la fica e l’ano in evidenza, le braccia legate in alto. Sapeva di avere la fica bagnata ed un po’ aperta, e se ne vergognava. Ma era proprio quella vergogna ad eccitarla maggiormente. Sentiva gli umori colare ed umettare anche il buco del culo. Avvertiva nitidamente numerosi sguardi su di sè. “Signori” disse di nuovo Elisabetta. Il tono sembrava quello di una presentatrice tv. “Ad Elfrida era stato ordinato di depilarsi la fica. Avrebbe dovuto essere più nuda che mai. Ha disobbedito.””Cagna!” esclamò una voce, in preda (lo si capiva) ad una frenesia morbosa ed irresistibile.Di nuovo Elisabetta. “Questa sera la puniremo. Ma è così troia, così perversa, che non aspira ad altro.”Si udì un vociare diffuso. Giacomo si avvicinò al pube di Elfrida e con un paio di forbici cominciò a tagliare i peli della fica. “Bene Elfrida” disse Elisabetta. “La tua serata è appena all’inizio. Ora volta la testa a sinistra, ed apri la bocca.”Elfrida obbedì: si girò a sinistra, ed aprì la bocca più che poteva.”Tira fuori la lingua” ordinò Elisabetta.Di nuovo Elfrida eseguì. Subito sentì qualcosa introdursi nella sua bocca. Non capì immediatamente: non era un cazzo, come aveva facilmente immaginato. Erano dita, probabilmente due. Provò un senso di disgusto in quanto ciò che quelle dita le stavano mettendo in bocca provocava un fastidio pungente. Ebbe un conato di vomito e cominciò a tossire. Sì, i peli che erano stati tagliati dal suo pube le erano stati posti sulla lingua e lì si erano appiccicati, erano scesi fino alla gola, si erano ficcati tra i denti, e più cercava di sputarli più li sentiva in bocca.”Ora hai la bocca che sembra proprio una fica” udì Elisabetta dire. Delle mani le massaggiarono i seni.Nel frattempo Giacomo, ora che i peli erano sufficientemente corti, era passato ad una vera e propria rasatura. Elfrida sentì un senso di fresco sul monte di venere: capì che le avevano insaponato il pube. Giacomo con un rasoio iniziò abilmente a lavorare.Grande era il piacere provocato dalla lama a stretto contatto con la pelle. L’attrito era forte, deciso ed inesorabile. Stava davvero diventando nuda come mai era stata. Di nuovo, con il crescere dell’eccitazione, provò il desiderio di sdoppiarsi e di vedersi: il fatto di essere sensorialmente menomata, con la pesante benda sugli occhi, favorì la sua immaginazione e per alcuni istanti il desiderio sembrò realtà. Si vide legata con le braccia sopra la testa e le gambe oscenamente divaricate. Giacomo aveva quasi terminato di radere il pube e la sua fica era indifesa, aperta, esposta agli sguardi di spettatori morbosi e desiderosi di emozioni forti. Elfrida, la grande troia! Docile e sottomessa, purché la si faccia godere! Sì, una cagna in calore, una vera cagna. Ed il suo buco del culo, era così in vista e così in fuori che quel cerchio rosa non poteva essere altro che una sottilissima striscia della muscolatura del retto… La sua fica era vogliosa e non solo umida, ma fradicia di umori che scendevano lungo le labbra e si insinuavano tra le natiche, creando così un territorio scivoloso e caldo pronto per ogni penetrazione, aperto ad ogni violazione. Quando nel dare gli ultimi colpetti di rasoio Giacomo sfiorò con la mano la clitoride, l’orgasmo la colse indifesa. Si inarcò ed i suoi sospiri riempirono la stanza, apparendo maestosi, enormi, giganteschi, infiniti, egoisti, unilaterali. La sua mente fu piena dell’immagine di se stessa che godeva in quel modo, bendata e legata, e ciò aumentò il già intenso godimento.Una bocca si posò furiosamente sulla sua ed una mano le stimolò freneticamente la clitoride con il pollice. Un dito indice si insinuò nella sua fica ed un altro dito nel culo. Un secondo furibondo orgasmo la scosse e le sue membra, movendosi in modo scomposto, rischiarono di far cadere tutta la struttura cui era legata: le catene tintinnarono.A suo parere, sia la bocca sia la mano erano state quelle di Elisabetta. Che le stava sussurrando in un orecchio: “Brava. Ora facciamo divertire un po’ gli altri, stronza.” Nel tono di voce c’era risentimento.”Signori!” esclamò a voce alta Elisabetta. Quando usava quel tono faceva venire la pelle d’oca. “Avete avuto una piccola dimostrazione di Elfrida. Sottolineo piccola. Ora sarà lei a dirvi cosa desidera.”Questa mossa Elfrida non se l’aspettava: era evidentemente una provocazione. Elisabetta voleva metterla in croce costringendola ad assumere di fronte a tutti il controllo della situazione; di fronte ad una platea eccitata, bramosa di esperienze forti, Elisabetta la stava forzando a recitare il ruolo di prima attrice. Quale lei era, dopotutto. Era una sfida, che lei avrebbe vinto.”Prima ho sentito una voce darmi della cagna” disse.Elisabetta trasalì con il respiro. Cazzo, era una partita a scacchi ma lei non aveva chiara la posta in gioco.Elfrida, al contrario, sembrava avere in mente un obiettivo molto preciso.Ma, soprattutto, quella maledetta Elfrida sapeva eccitarla in modo cataclismatico, catastrofale.Con la voce rotta dall’emozione, non sapendo se rivolgersi alla docile Elfrida od al pubblico, domandò: “Quindi?”
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