Capitolo 7 – Lo Sguardo InfrantoVenne svegliata nel cuore della notte dall’urlo del telefono, che squarciò il silenzio generale come una spada affilata lacera le carni. Aveva fatto un sogno tremendo, talmente realistico da essere ancora piena dell’orrore che aveva provocato in lei. In una giornata di pioggia, immensamente triste al punto da impoverire l’animo, se ne stava alla finestra a guardare il cielo scuro. C’erano enormi nuvoloni neri che correvano velocissimi: aveva lanciato quindi uno sguardo ansioso all’orologio affisso sulla parete della stanza. Sempre la stessa ora, da ore. Mentre il cielo si muoveva come un mare tempestoso trascinando con sé ogni speranza di… di… non avrebbe saputo dire: avvertiva un malessere, un disagio interno privo di motivazioni e di spiegazioni e proprio per questo incomprensibile, inspiegabile, incurabile. Mentre il cielo trasmetteva questa sensazione di frenetico movimento, all’interno della casa, al contrario, il tempo sembrava essersi fermato. Pioveva lentamente. Al di fuori della finestra, si sarebbe potuto vedere il suo volto deformato dalle gocce d’acqua, scura per lo smog, che scendevano lentamente lungo il vetro formando una serie di minuscoli corsi paralleli che seguivano tragitti irregolari con bruschi cambiamenti di direzione, assumendo l’aspetto di un artiglio feroce e pericoloso.Quando il telefono squilla in quel modo nel pieno della notte, si avverte sempre un senso di angoscia. La stessa angoscia la provò Elfrida, svegliandosi di soprassalto; la notte infatti era scura e piovosa. Quella identità meteorologica con il sogno, le fece accapponare la pelle e si strinse nelle sue stesse braccia, rabbrividendo.Il sogno era proseguito con qualcuno che suonava alla porta. Elfrida era corsa ad aprire. Si era trovata di fronte ad un postino che aveva un pacchetto per lei. Non c’era da pagare nulla. Preso il pacchetto e ringraziato il postino, Elfrida aveva iniziato a scartare l’involucro. Conteneva una scatoletta da gioielliere. Forse un altro ciondolo, aveva pensato. Aveva quindi aperto il pacchetto e dopo averne visto il contenuto era rimasta di sasso, con la bocca aperta, l’espressione all’inizio sbalordita poi spaventata quindi terrorizzata, tremante. Aveva lasciato cadere il tutto e tra le mani le era rimasto solo un bigliettino con un messaggio. Adagiati su morbida ovatta, quasi fossero due gemme, due perle, due gioielli, c’erano due occhi strappati alle orbite. Il messaggio: “I miei occhi adesso sono tuoi”. Poi il telefono l’aveva svegliata.”Signora Frenzini?” chiese una voce dall’accento leggermente meridionale.”Sì, sono io” rispose cercando di nascondere l’ansietà.”Signora Frenzini, sono il maresciallo Cutolo della questura. Mi scusi per il disturbo. C’è stata una disgrazia, signora. Abbiamo urgente necessità di lei. La preghiamo di prepararsi, la verremo a prelevare tra dieci minuti.”Aveva ascoltato quelle parole in silenzio assoluto. “Ma cos’è successo?” chiese, lasciando trapelare lo sconvolgimento e la paura. “La prego…”Il maresciallo non si fece pregare. “Signora, purtroppo è successo un gravissimo incidente a suo marito.”Avvertì come una tenaglia in fondo alla gola. La tenaglia impediva alle urla di uscire e le urla per vendetta si agitavano negli intestini mettendo a soqquadro le budella.”Cosa…””Ce la fa ad essere pronta tra dieci minuti, signora?” Il maresciallo sembrava realmente dispiaciuto. “Penso di sì” rispose.Chiusa la comunicazione, si vestì velocemente con la testa piena di interrogativi. Un grave incidente a Filippo. Cosa poteva essere accaduto? Certo, non doveva trattarsi di una cosa di poco conto, se venivano a prenderla di notte, a casa sua, con soli dieci minuti di preavviso. Cercò un abito composto, austero, ma non ne aveva, perlomeno non del tipo che si era prefisso. Il suo guardaroba era ormai pieno di vestiario elegantissimo ma sexy, troppo sexy. Fece del suo meglio.Non poté fare a meno di guardare il ciondolo, anche per via del sogno: l’occhio era chiuso.Quindi attese non più di qualche minuto, ma l’indicibile nervosismo aveva dilatato i tempi e quando finalmente suonarono alla porta, il tempo trascorso era sembrato interminabile.”Signora Frenzini, sono il maresciallo Cutolo.” L’uomo era basso e tarchiato. Teneva il berretto tra le mani in segno ci compunzione. Era accompagnato da un altro carabiniere, che non proferì parola.”Vorrei sapere cos’è successo, con precisione.””Suo marito, signora…””E’… è grave?” chiese Elfrida.Nessuna risposta da Cutolo e l’altro: si limitarono a guardarla esprimendo dispiacere.”E’ morto” disse allora Elfrida, non con il tono di chi fa una domanda ma con il tono di chi effettua una constatazione.”Purtroppo” commentò Cutolo. “Le mie più sentite condoglianze, signora.””Mio Dio.” Elfrida si sentì mancare; Cutolo e l’altro si premurarono di sorreggerla.”Ma come è successo?”Cutolo non rispose subito esaurientemente: fece trapelare poco per volta la verità mentre erano a bordo dell’automobile di servizio. Una volta giunti all’obitorio, Elfrida aveva appreso tutto ciò che c’era da apprendere.Cacciato, era il termine giusto, da casa, Filippo si era arrangiato procurandosi alloggio in una pensioncina di pessima categoria e dalla gestione non irreprensibile, ma estremamente economica. Evidentemente, pensò Elfrida, nella sua mente quella doveva essere una sistemazione provvisoria; probabilmente era convinto di ritornare con lei, prima o poi. Od almeno, questo doveva essere stato il suo convincimento finché l’atteggiamento a dir poco spregiudicato di Elfrida non aveva fatto crollare quella certezza. Fatto sta, raccontò Cutolo, che poche ore prima era stato visto dal portiere dell’albergo salire in camera sua con un’espressione tutt’altro che allegra. Il portiere, che conosceva un po’ la situazione di Filippo in quanto erano diventati amici e si erano scambiati alcune confidenze, si era preoccupato e dopo un paio d’ore circa era corso a bussare alla porta della sua stanza. Non ottenendo risposta, aveva usato una doppia chiave di sicurezza per aprire: aveva visto il corpo di Filippo sul letto ed una scatola vuota di barbiturici sul comodino. “Ha lasciato un messaggio, nulla?” chiese Elfrida, stupendosi della sua stessa domanda e non riconoscendo il tono della propria voce. Temeva che il marito se ne fosse andato incolpandola della decisione di suicidarsi. Ma Cutolo riferì che non avevano trovato nessun bigliettino. “Nulla” disse, scotendo la testa.Cutolo la accompagnò a riconoscere il cadavere: questo volevano da lei.Quando il medico sollevò il lenzuolo bianco per scoprire il volto, Elfrida chiuse gli occhi. Ma trovò poi il coraggio di guardare.Filippo era bianco più del lenzuolo ed era spento.”E’ lui” disse a Cutolo.Il maresciallo stava in ansia come chi ha qualcosa da chiedere a qualcuno, senza trovare le parole giuste nè il momento giusto per farlo.”Signora…” iniziò a dire, compunto, con il cappello in mano, all’altezza del petto. “Come le dicevo, suo marito non ha lasciato alcun messaggio. Però, ovviamente, come può ben capire, una piccola indagine dobbiamo pur farla. Sa com’è, si fa qualche domandina in giro…””Sul mio conto?” lo interruppe subito lei. Il tono era seccato.”Anche.”Visto che Elfrida stava in silenzio senza nulla aggiungere, Cutolo riprese le fila del suo discorso.”Come le ho detto, signora, suo marito si era confidato con il portiere dell’albergo, sì insomma quella pensioncina. Era piuttosto depresso.””Altrimenti non si sarebbe ucciso, non trova?” domandò aspramente Elfrida. Stava lì, portata nel cuore della notte in un obitorio, accanto al corpo del marito morto da poco, ed era costretta a subire chissà quali illazioni, a sentire chissà quali discorsi.”Non potremmo uscire, uscire da qui?” chiese con la voce spezzata.”Certo signora” acconsentì Cutolo. Si scansò per farla passare.Elfrida era naturalmente molto scossa. Il sogno pauroso che aveva fatto si era materializzato in un incubo reale. Le vennero in mente gli occhi nella scatoletta: cosa potevano significare, ammesso che i sogni avessero realmente un significato, ammesso che sul serio fossero il risultato di un’elaborazione mentale inconscia? E quella scritta, quel bigliettino: “i miei occhi adesso sono tuoi”. Le venne in mente l’osservatore; per cui, con gesto meccanico, spontaneamente estrasse il ciondolo da sotto il vestito per osservare l’occhio. Con suo stupore, vide che era aperto. Cazzo, l’osservatore la stava guardando anche in quel momento.Un’ira furibonda la assalì. Si sentiva in colpa per la morte di Filippo, almeno in parte, anche se non riteneva giusto covare quel sentimento che subiva con fastidio. L’osservatore l’aveva irretita facendo emergere il suo lato esibizionistico e masochistico, contraccambiandola con beni materiali e con un ricco stipendio. Anche l’osservatore aveva le sue colpe e lo stesso Filippo era responsabile di quanto era accaduto! Merda! Non l’aveva rimproverata di essere troppo poco disinibita?”Troppo poca troia” erano state le parole esatte, più o meno.Ed ora, anche in quel momento era tenuta sotto osservazione. In quel preciso istante, fatto di buio, dolore e disperazione, qualcuno stava di nuovo spiandola, ma non per godere delle sue trasgressioni, solo per ficcare il naso in un segmento doloroso della sua esistenza. Ma cosa cazzo volevano tutti, Elisabetta, Giacomo, Lotar, ma soprattutto l’osservatore potente ma sconosciuto: cosa cazzo volevano tutti quanti da lei?L’ira salì di consistenza e, sotto lo sguardo incredulo ma incuriosito del Maresciallo Cutolo e dell’altro carabiniere, Elfrida esclamò: “Ma che…” Con un violento strappo ruppe la catenina del ciondolo attorno al collo e scagliò l’oggetto contro il muro, con tutta la forza di cui era capace. “Cosa volete” urlò rossa in viso, “un episodio di necrofilia?”Uscì poi veloce dalla stanza mortuaria.Cutolo guardò il suo collega, quindi si chinò e raccolse i frammenti del ciondolo, che si era infranto a seguito dell’impatto contro il muro.L’oggetto era irriconoscibile. “Forse un gioiello” commentò. Mise in tasca i pezzi più grossi, quindi raggiunse Elfrida all’aperto. La trovò accanto all’auto, pallida ma, si sarebbe potuto dire, scura in volto. Solo che non era certo il momento di fare battute di spirito.”Si sente bene?” chiese il maresciallo, premuroso.”Che notte di merda” rispose Elfrida, senza guardarlo in faccia.Cutolo la osservò mentre, pallida come la luna, con i capelli scompigliati da un leggero vento, presentava il volto di profilo. Dentro di sè la giudicò bellissima.”La accompagniamo a casa, signora” disse premuroso. “Poi dovremo raccogliere una sua dichiarazione. È il nostro dovere, ci scuserà.””D’accordo” acconsentì. Nel dirlo posò una mano, con il palmo aperto, sul risvolto della divisa del carabiniere. Cutolo avvertì un brivido in presenza di quell’innocuo contatto, come se Elfrida fosse stata capace di trasmettergli una scarica elettrica.Salirono in auto. Il collega di Cutolo era rimasto a piedi. “Sa com’è, signora” spiegò il maresciallo: “anche per noi questi momenti sono difficili. Dover comunicare così, in questo modo, notizie così drammatiche… a quest’ora… Il collega abita qua vicino. L’ho mandato a casa prima.””Ha fatto bene” commentò Elfrida. Di nuovo posò la propria mano sul corpo dell’uomo in divisa, precisamente sulla coscia, vicino all’inguine. “La capisco, maresciallo.”Cutolo avvertì per la seconda volta una specie di scarica elettrica, più violenta della prima. Quella donna lo eccitava, sia per il suo modo di comportarsi, sia per le storie che aveva raccolto sul suo conto: storie che raccontavano di una Elfrida protagonista di giochi erotici molto spinti. Rimpianse di svolgere un ruolo che gli impediva libertà di azione.”E’ arrivata.” Parcheggiò a lato del marciapiede. “Questa notte è già rimasta troppo turbata. Se crede, le farò qualche domanda domani.””Grazie.” Elfrida scese dall’auto. “A domani.” Una volta nel suo appartamento, corse al telefono. Sapeva di non dover chiamare a quell’ora, ma le stanze vuote facevano paura e sentiva il cuore gelido come racchiuso in un cubo di ghiaccio.Il telefono squillò insistentemente all’altro capo del filo; finalmente la voce assonnata e leggermente preoccupata di Perrone si fece udire.”Dottor Perrone!””Elfrida!” Il tono era di meraviglia.”Dottore…” Elfrida esplose in mille singhiozzi, che partirono in tutte le direzioni come le schegge di una granata mentre esplode. “Filippo, mio marito… è morto!””Cosa?””Sì è ucciso, dottore… io non so cosa fare, io non so cosa fare!””Elfrida, povera cara… aspetta.””Dottore, mi aiuti! Mi sento disperata, non so cosa fare!””Elfrida, stai tranquilla.” Perrone respirò a fondo, come chi prende una decisione importante. “Aspetta lì, ti vengo a prendere.””Dottore…” proseguì Elfrida. “Ho rotto l’occhio.””Cosa?” “L’ho tirato contro il muro, e…”Perrone rimase un attimo zitto. Quindi disse: “E’ normale, sei sconvolta. Aspettami lì. Sei a casa tua?””Sì.” Pian piano i singhiozzi si stavano acchetando ed i singulti stavano cessando di scuoterla.”Arrivo” concluse Perrone. Perrone l’aveva ospitata a casa sua: abitava in un villino isolato costruito con sobria eleganza. Per lei era stata attrezzata una camera da letto riservata in effetti agli ospiti. Aveva conosciuto così il partner del dirigente, un certo Marco, un tipo alto e magro. La cosa l’aveva lasciata indifferente. Si era messa in malattia per un po’ di giorni, d’accordo con Perrone, e ciò le era servito per recuperare se non il buonumore, almeno una certa vitalità. Aveva anche evitato, in questo modo, l’interrogatorio del maresciallo Cutolo. Perrone le aveva raccontato che erano stati a cercarla sul posto di lavoro; ma il dirigente aveva spiegato che Elfrida era troppo stressata per rispondere alle domande degli inquirenti, pregando loro di ritardare un po’ le operazioni.Quel giorno Perrone era al lavoro, mentre lei era rimasta a dormire sino a mattina inoltrata. Elfrida si guardò allo specchio: i lineamenti del volto erano tornati sufficientemente distesi e rilassati. Indossava solamente una maglietta bianca traforata sul seno ed un paio di slip bianchi. In giro per la casa avrebbe dovuto esserci Marco: era un artista, dipingeva quadri di incerto valore, anche se ad Elfrida piacevano molto. Era indubbio comunque che non sarebbe mai riuscito a vivere solo grazie alla propria arte, se non ci fosse stato Perrone a mantenerlo.Di solito lavorava in un salone dotato di ampie vetrate. Elfrida, maliziosamente, si disse che il pittore non avrebbe dovuto scandalizzarsi se si fosse presentata vestita (si fa per dire) in quel modo: era o non era, dopotutto, un gay? Una parte nascosta della sua psiche sognava di convertirlo all’eterosessualità alla vista del suo corpo sodo, ben fatto, nonchè grazie ad un comportamento provocante. Aprì la finestra per avere più luce e tornò avanti allo specchio: i capezzoli si intuivano sotto la maglietta. L’ombelico rimaneva appena scoperto. Gli slip lasciavano intravedere il pube.Forse per reazione alla tristezza accumulata negli ultimi giorni, si sentì invadere da un fiotto di allegria. La vita era bella. Lei non aveva nessuna colpa di quanto accaduto e, cosa forse più importante di tutte, aveva diritto a vivere così come le piaceva fare.”Marco” chiamò a voce alta.”Sì???”La risposta proveniva dal chiuso di un’altra stanza. Elfrida percorse un lungo corridoio ed aprì una porta. Marco stava seduto per terra, le gambe incrociate, con una tela avanti a sé. Il pavimento era ricoperto di cartoni sporchi di vernice e la stanza era piena di luce che entrava da finestre molto grandi.Elfrida gli andò vicino. Volutamente si avvicinò con il proprio pube alla testa del pittore. Nella tela era raffigurata una donna, nuda, mollemente seduta su una poltrona. Una gamba era leggermente sollevata rispetto all’altra, in modo da mostrare parzialmente il sesso. Accanto alla donna c’era un uomo in armatura medievale.”Bello” commentò.”Ti piace?” si stupì Marco. “Credevo non fosse possibile.””Cosa?””Che ti piacesse un mio quadro, ma soprattutto che ti piacesse questo.””Mi piace molto, invece” asserì Elfrida.”Voglio rappresentare un contrasto, mi capisci?”Elfrida gli si accovacciò di fronte, le gambe leggermente aperte.Lo incoraggiò a proseguire: “Sì?…” “Un contrasto tra la donna completamente nuda e l’uomo in armatura, più che vestito: corazzato.” Marco sollevò per la prima volta lo sguardo dal quadro. “Ehi” disse, “ma tu sei… sei discinta!”Elfrida scoppiò a ridere. “Mi sono appena svegliata.”Gli occhi di Marco la osservarono con piglio critico.”Senti un po’” disse: “saresti disposta a posare per me?”Elfrida finse di pensarci. “Certo” acconsentì infine.Marco lanciò via la tela cui stava lavorando e ne prese un’altra pulita dietro di sé. “Allora spogliati” disse.Elfrida strinse le spalle ed afferrò il bordo inferiore della maglietta. “Ma come, così su due piedi?””Le modelle si spogliano, sai” ammonì Marco. “Non c’è niente di strano.””Sì, lo so.” Elfrida con gesto repentino sfilò l’indumento rimanendo a seno nudo. Le dispiaceva che il pittore fosse omosessuale: si sarebbe eccitata di più nello spogliarsi di fronte ad un uomo in grado di apprezzarne la nudità. Decise di provocarlo. Mise entrambe le mani sotto i seni e li carezzò, tirando leggermente i capezzoli tra le dita. “Cosa te ne pare?”Marco stava mischiando alcuni colori con un pennello sottile. “Le mutande” rispose con tono distratto.”Cosa?””Devi toglierti anche le mutande” ribadì lui. “Devi essere o no la mia musa ispiratrice?””Pensavo ti ispirassero solo gli uomini.””Che sciocchina” commentò Marco. Uscì dalla stanza e rientrò poco dopo con una coperta ed un paio di cuscini, che gettò a terra.”Mettiti lì sopra” suggerì. “Ma levati quelle cazzo di mutande!””Pensi che sia un problema, per me?” chiese Elfrida. Mise le dita intorno all’elastico degli slip, e spinse l’indumento in basso. “Non mi conosci, caro il mio gay.”Marco non raccolse la provocazione. “Ora sdraiati con le gambe verso di me, ed appoggiati sulla schiena. Ecco, mettiti un cuscino dietro, così starai più comoda.””Così?” domandò Elfrida. La situazione la stava eccitando.Marco la osservò. “Sai come si intitolerà, il quadro?””Come?””Posso usare il tuo nome?””Se vuoi.””Elfrida dal ginecologo.”Lei scoppiò in una fragorosa risata: “Ma come ti viene in mente…””Devo pur giustificare la posa oscena.””Quale posa oscena?””Quella che avrai nel quadro” spiegò Marco. “A gambe larghe, con la fica aperta, rivolta verso l’osservatore.”Quella parola, l’osservatore, la fece sobbalzare. Se ci fosse stato l’occhio aperto a dirle che la stava guardando, forse si sarebbe eccitata di più, ed avrebbe trovato una giustificazione a ciò che stava facendo: soddisfare l’osservatore. Invece lei aveva scagliato il ciondolo contro il muro dell’obitorio, infrangendolo, e lo sguardo si era infranto.”Marco” mormorò: “farò come tu dici.” Sino a quel momento era stata nuda ma relativamente composta, a gambe strette. “Allargherò le gambe di fronte a te.””Anche la fica” disse il pittore. “Dovrai avere anche la fica aperta, in modo da apparire ambiguamente perversa.” Allungò una mano e le carezzò una caviglia.Le caviglie di Elfrida erano sottili ed affusolate.”Che mano calda” commentò. “Non mi dire che ti stai eccitando.”Elfrida in realtà aveva notato un rigonfiamento nei pantaloni di Marco, che non sapeva come interpretare.Il pittore salì lungo il polpaccio, poi percorse con la mano una coscia.”Hai delle gambe stupende” si complimentò.”Parli dal punto di vista puramente estetico, immagino” disse Elfrida. “Sei o non sei un…””Un gay?” la interruppe lui. “Perché vogliamo sempre etichettarci e limitarci?””Vai a letto con Perrone.””Già.” Lo disse con tono asciutto e secco. “Ma ora allarga le gambe, più che puoi. Devi sentirti puttana.”Elfrida pensò che quelle parole non erano certo nuove, per lei.”Ok” disse. Lentamente allargò le gambe, proprio di fronte allo sguardo attento di Marco.”Ancora di più. Ti devi spaccare in due.””Mio Dio” rise lei. Ma la voce tremava.L’occhio sul ciondolo non c’era più, eppure era capace di provare le stesse emozioni. La scuola era finita, ma qualcosa (molto) delle lezioni avute era rimasto. Aveva appreso tanto, ed era enormemente cambiata. Si stupiva della propria sicurezza e della determinazione con cui cercava forti emozioni.Allargò il più possibile le gambe, ritraendo i piedi verso di sé. “Così va bene?” domandò. “Abbastanza” rispose Marco. Abbandonò la comoda visuale che gli consentiva di vedere la fica ed il culo di Elfrida, per porsi di fianco alla donna. “Ora devo imprimermi nella mente le tue curve” spiegò. Aveva un pennello in mano, con il quale cominciò a solleticarle i seni ed i capezzoli. I peli dello strumento erano umidi ed il tocco lasciava una sottile striscia di colore indefinibile.”Mi stai sporcando tutta” disse Elfrida.”Mai sentito parlare di body painting?” chiese Marco.Indugiò sui capezzoli eretti. Elfrida chiuse gli occhi: la sensazione era piacevolissima. Brividi saettanti si susseguivano senza posa lungo la spina dorsale.”In realtà” aggiunse Marco, “sto solamente asciugando il pennello.””Stronzo” rise Elfrida. “Aspetta a dirlo” fece lui. Con il pennello intraprese la strada che conduceva verso il ventre. Girò attorno all’ombelico più volte.”Mi fai solletico!”Marco non rispose. Si allungò per terra e si infilò tra le gambe larghe di Elfrida. Avanti a lui, ed al suo pennello, c’erano solo le carni aperte.Giocherellò con il manico del pennello mettendolo a contatto con l’orifizio anale della improvvisata modella.”Secondo me, il cazzo in culo l’hai preso parecchie volte” disse. “Questo manico sottile non lo sentirai neanche.”Spinse leggermente ed il pennello penetrò nel buchino. “Però è lungo” aggiunse il pittore, spingendo ancora. “Tieni le gambe ben aperte, mi raccomando.””Ahi!” proferì Elfrida.”Ti ho piccato, eh?”Marco osservò il pennello che usciva dal culo di Elfrida per la parte pelosa. “Ti farei dipingere così, mettendoti a sedere su una tela e facendoti muovere il culo.”Estrasse lentamente il pennello.”Ora imbianchiamo la vagina” annunciò.”Cosa?” Elfrida era incredula.Marco mise due dita attorno la clitoride e iniziò a masturbarla con un movimento circolare.”Allora sai come maneggiare una femmina” gli disse Elfrida.”E’ solo per poterci mettere il pennello dentro.”Prese dai suoi strumenti un pennello più grosso, e lo introdusse non per il manico, ma per l’altra parte. Elfrida sentì i peli compatti ma delicati del pennello, mosso da Marco, esplorarle l’interno della fica e si lasciò sfuggire una serie di pesanti respiri. Inarcò i fianchi senza alcun pudore, mostrando il proprio gradimento.Quando il pittore cessò le proprie manovre, Elfrida aprì gli occhi un po’ seccata. Ma come, si fermavano sul più bello?Si rassicurò: Marco si era spogliato e si stava avvicinando completamente nudo. Aveva un fisico piuttosto magro e per questo motivo il suo cazzo appariva enorme.”Marco…” iniziò a dire Elfrida.”Basta con i pennelli, e la pittura. Da troppo tempo vado solo con gli uomini.”Lei accolse il suo membro tra le labbra. Era ormai piuttosto abile con la bocca e Marco se ne accorse subito.”Dài!” esclamò. “Sei fenomenale. Ma quanti cazzi hai succhiato?”Elfrida stava impazzendo per quell’uomo. La sua dichiarata omosessualità lo rendeva attraente, ed eccitante. Aprì le labbra e con la mano carezzò su e giù il pene. Lo fissò ad occhi aperti proprio mentre lui raggiungeva l’orgasmo schizzandole lo sperma in volto e facendo colare le ultime gocce sulla lingua color fragola.”Sei davvero una gran puttana” disse Marco, abbandonandosi esausto per terra.

