Attendevamo l’uscita dei ‘quadri’. Eravamo tutti li, gli interni, tutti e undici, oltre i quattro ‘privatisti’. Appena il bidello, Pietro, arrivò col sospirato foglio e lo affisse, restammo con gli occhi fissi ai risultati. Interni: otto promossi, un respinto, due rinviati alla sessione autunnale. Privatisti: due respinti due a settembre. Giulia ed io eravamo vicini, mi afferrò la mano e la strinse. “Bravo, Piero, lo sapevo.” Avevo studiato sodo, sempre, e il desiderio di emergere, mascherato sotto falsa modestia, era stato premiato. La media era di circa 9/10. La più alta da qualche anno a questa parte. Anche Giulia, però, aveva riportato ottimi voti. Gianni, il respinto, se lo aspettava. Alzò le spalle, con noncuranza, e molto sportivamente si unì a noi che, chi più chi meno, eravamo soddisfatti dei risultati. Gianni venne ad abbracciarmi. “Complimenti ‘secchio’. Lo meriti!” Gianni Colino, a settembre in una sola materia, scuoteva la testa. “Porca miseria, ma guarda tu, in italiano e con cinque! Forse è giusto, ma chi li da i soldi a mio padre per la ripetizione!” Colino indossava vestiti ‘rivoltati’. Per questo il taschino della giacca era a destra. Undici interni: nove maschi e due femmine. Oltre Giulia, che chiamavamo ‘Paolina’, c’era Elsa, un po’ slavata. Discreta alunna. L’azienda paterna, al paese, l’attendeva per inserirla in ufficio. Giulia era raggiante. Eravamo molto amici, sedeva nel banco avanti al mio, con Elsa. Ed era stato così per quattro anni. Lei ed io complottammo sottovoce e poi invitammo tutti, interni e privatisti, per la domenica pomeriggio, nella villa di Giulia, allo scopo di festeggiare i vincitori, bene augurare ai ‘riparandi’ e consolare i ‘fregati’. Giulia era una splendida ragazza, con un fisico scultoreo, e alla piscina, alle Terme, quando appariva, nel suo costume ‘olimpionico’, tutti si fermavano a guardarla, in silenzio. Lei lo sapeva, e procedeva maestosamente verso il trampolino. Braccia in alto, flessione, poi il tuffo. Solo allora la vita riprendeva. La chiamavamo ‘Paolina’ da quando, con la prof di storia dell’arte, eravamo andati alla Galleria Borghese. Ci eravamo fermati a guardare la Paolina Borghese del Canova, che tanto era stata decantata dalla prof, e concordavamo che era veramente un gran tocco di f…. ‘Come Giulia’, mormorò qualcuno. E da allora la chiamammo ‘Paolina’. Per me, però, Giulia era molto, ma molto meglio. Anzi, per fare lo spiritoso avevo detto che c’era una notevole differenza tra la modella del Canova e Giulia, perché quella era Paolina Bona…parte, e Giulia era Bona…tutta! C’era sempre stata simpatia, tenerezza, attrazione, tra Giulia e me, ma tutto si era limitata a qualche ‘vicinanza’, una stretta durante il ballo, dove i corpi si strusciavano eccitati e sensuali, qualche bacio, ed anche carezze audaci. Tutto qui. L’epoca e il piccolo capoluogo non consentivano troppo, allora, e il necessario svuotamento maschile avveniva, normalmente, nelle accoglienti ‘case’ che la legge Merlin non aveva ancora soppresse. Non ce lo eravamo mai detto apertamente, ma Giulia ed io fantasticavamo di vivere insieme per tutta la vita. In un certo senso me lo ripeté quella domenica, durante la festa, nella sua villa. “E’ bello vivere qui, Piero, ti piace?” Annuii, sena parlare. La Villa era grande, ospitale, con un vasto parco, proprio al limitare della città, sulla strada per San Martino. La sua famiglia, ricchi industriali, era bene in vista e vantava antenati che si perdevano nel tempo. Nati, cresciuti e affermatisi li. Io, invece, ero in quella cittadina da cinque anni, perché mio padre era stato incaricato di dirigere una ‘direzione provinciale’ di una struttura statale. Mia madre insegnava al classico. Ora, raggiunta quella che si chiamava ‘maturità’ scolastica, per alcuni di noi iniziava la ‘fatica’ universitaria. Io avevo scelto da sempre, complici i miei, la facoltà. Giulia, sempre quella domenica, mi disse che anche lei avrebbe scelto lo stesso ordine di studi, anche in considerazione delle attività economiche della famiglia. L’Università era a Roma, a circa ottanta chilometri. Trasporti abbastanza lenti, sia con le ferrovie dello stato che con la Roma-nord che con il servizio di autobus che percorreva la Cassia. Era impensabile fare i pendolari. Giulia, però, poteva essere ospitata dalla sorella del padre, ed io sarei stato il benvenuto in casa della zia Elda, sorella di mamma, giovane vedova, che viveva con i due piccoli bimbi, sua madre, e Jone, la tuttofare ciociara, un robusto donnone oltre i quaranta, col marito partito volontario per l’Africa Orientale, e mai più tornato, per cui lei aveva da anni lasciato il paese, tanto non aveva figli, e s’era messa a servizio. In effetti era lei che governava la casa. E si faceva rispettare. Preferivamo l’autobus di linea. C’era un servizio ‘rapido’, con solo una fermata intermedia, e arrivava in Piazza dei Cinquecento, alla Stazione Termini. Io lo prefrivo, inoltre, perché ero ospite di Giulia, figlia del proprietario della società dei trasporti, e, quindi, non pagavo. Ci facevamo riservare i posti meno richiesti, quelli dell’ultima fila, ma erano l’ideale per poter stare più vicini, fingendo di rileggere qualcosa, e indulgere in qualche pomiciata. Dimenticavo dire che io ero chiamato Leclerc, come il primo marito di Paolina Bonaparte, perché tutti erano convinti che me l’ero fatta, Giulia. Negavo ma con l’aria di chi volesse nascondere la verità, come gentiluomo. Il fatto era che io me l’ero fatta Giulia, sì, ma nel sogno o pensando a lei mentre al casino…. Viaggi arrapanti. Poi ognuno andava dai parenti e ci rivedevamo a Fontanella Borghese, dove allora era la nostra facoltà. Anche qualche cinema insieme, certo, con bacetti e palpate. Le carezze erano sempre meno discrete, grazie all’apertura laterale della gonna e alla tasca sfondata dei miei pantaloni. Del film non ci fregava niente, del resto dall’ultima fila della galleria non era ottima né la visione né il sonoro. Ma lei si abbandonava a sempre più frenetici orgasmi, ed aveva magistralmente imparato a fasciarmelo col grosso fazzoletto di cotone proprio quando… era indispensabile! Era sempre più difficile controllarci, e sapevamo benissimo che prima o poi l’avremmo fatto. Io, devo ammetterlo, ero sempre più preso da lei. Mi ci svegliavo la notte e restavo ad occhi aperti, nel buio, a fantasticare. Chi aveva notato il mio perenne stato di tensione era Jone. Non facevo troppo caso a quella prosperosa e in un certo senso debordante femminona, anche se spesso rimanevo con gli occhi fissi sulle sue imponenti chiappe che si muovevano nella vestaglia e alle due sobbalzanti angurie che ogni tanto occhieggiavano dalla scollatura, bianche e appetitose, dimostrando l’antipatia della donna per il reggiseno. Ero seduto al tavolo della cucina dove preferivo consumare la prima colazione. Lei aveva allestito tutto e stava sbrigando le faccende di casa. Nel porgermi la tazza le tettone quasi uscirono del tutto, con certi capezzoli che sembravano piccole prugne. “Jone, ma tu non porti il reggipetto?” Volevo metterla in imbarazzo. “Ah, signurì, l’hai sgamato! Si ce voleva, la natura ce l’avrebbe fatto! A che serve?” “Va bene, ma neanche le mutande t’ha fatto la natura…” “E chi t’ha detto che le porto, signurì?” “Non le porti…?” “Poi vedé da te!” Alzò la vestaglia e tra le gagliarde ma ben disegnate coscione apparve il cespuglioso triangolo nero che ricopriva pube e sesso. Si vedevano solo peli! Inattesa la visione, ma, pur non essendo Jone molto attraente, e per me era, come dire, vecchia perché aveva ventitrè anni più di me, come mia madre, mi incuriosì e soprattutto mi eccitò. Rimase di fronte a me, così, per qualche secondo. Ero tentato di allungare la mano, toccare. Riabbassò la vestaglia. Ritenni che il miglior modo per concludere fosse una battuta. “Ce ne hai di lana Jone, eh?” “Sì, ma da quando lui se ne è annato nun la carda nessuno. Poretta me!” Si rimise a sfaccendare. Poi, sorridendo, si voltò. “Signurì, ner caso che te volessi fa ‘na cardatina… perché me sa che tu lo scardasso ce l’hai sempre pronto!” In quel momento non pensavo proprio a scoparmi Jone. Mi alzai e nel passare dietro lei, quasi istintivamente, le detti una bella pacca sul sedere. Era duro come un macigno. Lei seguitò a risciacquare le tazze, senza voltarsi. “Hai sentito che roba?” Zia Elda dormiva nella sua camera. In quella accanto i bambini, di fronte nonna Rosa. L’appartamento era grande. Un ampio ingresso. Di fronte un grosso salone, suddiviso in lato pranzo e lato salotto. A destra dell’ingresso il corridoio per le camere da letto. A sinistra una specie di ‘passetto’ conduceva alla cucina e bagno di servizio da una parte, e dall’altra allo studio del marito, ingegnere aeronautico, e alla camera dove ero ospitato. Potevo fruire anche dello studio. Vicino al bagno, con la finestra sul cortile, la cameretta di Jone. Avevo studiato fino a tardi, poi a letto, ed ero riuscito ad addormentarmi, anche abbastanza pesantemente, nel comodo letto, di quelli alla francese, che noi chiamiamo a una piazza e messo. Stavo sognando qualcosa di piacevole, perché mi sembrava che qualcuno me lo carezzasse delicatamente, meglio di Giulia. E non volevo svegliarmi. Il fatto era, invece, che ero sveglio e una mano… Stesi la mano anche io e ebbi la sensazione di aver incontrato una collina di carne tiepida e liscia. Rimasi cogli occhi chiusi. Mossi la mano. Quella era una tetta. Grossa, calda, vellutata. Aprii gli occhi. Penombra appena rotta dagli spiragli di luce che filtravano dalle persiane. Del mio letto occupata i tre quarti quella massa bianca. “Zitto, Pietru’, zitto… famme fa’!” “Jone?” “E chi ha da esse? Sei gajardo Pietrù, veramente gajardo… lo sapevo che ci avevi uno scardasso… Vié qui, daje, vié qui, nun me fa penà…. Nun ne posso più… so’ un lago… daje… affonna…” E alle parole, calde, un po’ roche e affannate, accompagnava il movimento del corpo che s’era sistemato supino, con le cosce aperte (mi immaginavo la valle nascosta tra esse) e con le mani che mi tiravano dolcemente su le. Afferrò il mio sesso, ormai arzillo e baldanzoso, e lo portò all’apertura di quello che immaginai il vulcano di monte peloso. Malgrado la mole della donna, la vagina, forse per il… disuso…, era voluttuosamente stretta, ma la sua abbondante lubrificazione agevolò la penetrazione. Non ce ne entrava più. Giacevo sul suo grembo morbido, su un letto di folti peli, e tra le cosce che si strinsero su me, delicatamente, mentre inarcava il bacino e cominciava a gemere. Anzi a muggire in sordina, mentre mi baciava voracemente. Era lei a condurre il ballo. Quel grosso corpo aveva movenze feline, sembrava che col suo sesso tracciasse una infinita serie di ‘8’, e sentivo che le pareti della vagina lo stringevano, lo carezzavano, lo mungevano, sempre più freneticamente, fin quando fu sconvolta da un lungo sussulto, la vagina si contrasse voluttuosamente, mi strinse a sé, e attese, impaziente, che scaricassi in lei tutto il mio piacere. E fu anche il suo. Era affannata e sudata, Mi stringeva, carezzava, baciava, e sussurrava in continuazione. “Quanto sei bono, Pietrù… bono… bono …bono… m’hai fatto godé come ‘na maiala… nun sapevo che potevo esse scopata così… sei ‘na forza…” Il suo grembo aveva ripreso a palpitare, lentamente. Lei prese il mio volto tra le mani. Mi guardava. “Aho, ma è sempre tosto… e che, ce l’hai co’ l’osso? Daje moré, fammene fa n’antra…. Ci ho ‘ma fame arretrata….” E riprese la mungitura. Io non avevo vasta esperienza sessuale, ma neppure le professioniste che avevo conosciuto avevano provocato in me tale godimento. Non lo avrei mai immaginato che potesse accadere con Jone, con un donnone del genere. Quanto era accaduto mi dischiuse inimmaginabili prospettive, e mi convinse che potevo restare benissimo da loro, senza rientrare in famiglia. Lo avrei giustificato, a casa, con la possibilità di studiare meglio. Una donna delle proporzioni, ed anche dell’età, di Jone non l’avevo mai considerata sessualmente appetibile. Inoltre, gli incontri prezzolati, in quelle ‘case’, erano una ‘scarica’, una necessità fisiologica, che, tutto sommato, lasciavano alquanto inappagati e con la bocca amara. Jone mi aveva fatto comprendere come doveva e poteva essere un rapporto sessuale: totale, in assoluto abbandono, con la controparte che da te traeva piacere nel dartelo, e perfettamente rilassante. Paragone meschino, lo so, ma è un po’ come quando uno ha fatto un frettoloso spuntino al bar o è pienamente e beatamente sazio dopo una scorpacciata di cose buone. Nel caso specifico casalinghe, fatte in casa. Quindi anche una femmina tipo ‘Moby Dyck’, come scherzosamente avevo battezzato Jone, poteva divenire una vera e propria leccornia. Nuovi orizzonti, dicevo, altro che il ‘casino’! Una femmina del genere te la dava con tutta se stessa, ti faceva sentire importante, ti faceva comprendere cosa sia il maschio per la femmina e, tra l’altro, non c’era il ‘pagamento’ che immiseriva tutto a un mero scambio mercantile. Quindi, la mole della persona non si riflette necessariamente su quella della vagina né sulla agilità del soggetto durante il rapporto. La opulenza delle forme non è d’impaccio ai fini della prestazione. L’età è del tutto ininfluente. Semmai è proprio il contrario, considerando l’esperienza che rende la cosa più voluttuosa. La mattina dopo la gradita irruzione di Moby Dyck, quando mi recai in cucina per la solita colazione, prima di andare all’università, dove avrei incontrato Giulia, Jone stava terminando di prepararmi la colazione. C’era qualcosa di diverso. “Signurì, te s’ho fatto du’ rossi d’ovo sbattuti co’ lo zucchero e caffè….” La guardai ironicamente. “Ne ho bisogno?” “Bisogno no, pe’ esse sinceri, ma er mejo ce po’ esse sempre. Che dichi?” “Dico, intanto, che devi cercare di parlare meno in dialetto.” “Ce provo, sta sicuro, ce provo. Ma per il resto?” “L’hai detto tu, il meglio ci può essere sempre.” “Hai ragione, una volta accordato lo strumento suona meglio, e se sono due ci vuole accordo, armonia. Allora sì che la sonata ti ristora!” Mi guardava con certi occhi…. Stavo per alzarmi, dopo la colazione, quando entrò zia Elda. Il solito discreto bacio del buongiorno, un sorriso. Stavo guardando, però, zia Elda con occhi diversi dalle altre volte. Aveva almeno dieci anni meni di Jone, soprattutto un corpo che non consentiva paragoni. Giusta altezza, belle forme, proporzionate, capelli neri, lucidi. Mi volgeva le spalle, e indugiai sul suo fondo schiena che si delineava, tondo ed elegante, sotto la seta della vestaglia. Sembrava una giovincella, vista così, la mia zietta, ed aveva proprio un bel sedere. Portò la tazzina del caffé sul tavolo, sedette, mi guardò, sorrise. “Hai una strana espressione oggi, Piero. Come se non mi avessi mai vista.” “Forse perché hai un aspetto perfino più giovane del solito.” Scosse la testa. “Si, giovane….” “Sei giovanissima e bellissima, zia Elda.” Mi alzai e mi chinai per baciarla sulla guancia, come facevo sempre prima di uscire. Indugiai più del solito, e lei mise la sua manina sulla mia nuca e ricambiò il bacio, con le belle labbra rosse. Sull’autobus che mi portava verso la Facoltà, seguitai a pensare a zia Elda. E’ veramente una bella donna, e certamente ‘idonea a incondizionato servizio’. La formula con la quale noi giovani classificavamo le ‘immediatamente scopabili’. Già, la zia Elda che scopava. Fui percorso da un brivido, e qualcosa nei pantaloni mi diceva che era proprio così. Giulia arrivò subito dopo. Lezione tosta: matematica. Lui, il docente, scriveva alla lavagna e spiegava. Io, il discente, guardavo ma non vedevo, e non sentivo nulla. Ero troppo preso da quello che stava divenendo un pensiero fisso: ‘Zia Elda…però!’ Aveva sempre detto che…oramai… la sua vita… non usciva mai…. L’avrei invitata al ‘Mille Luci’, un locale ‘in’, con buona musica, e dove si trovavano perfino liquori stranieri, forse perché frequentato dalle gerarchie del partito. Dopo quella lezione trovai una scusa (devo svolgere un incarico per la zia) e salutai Giulia. Ci saremmo rivisti l’indomani. Presi l’autobus, scesi proprio di fronte al ‘Mille Luci’, entrai, prenotai un tavolo, per le ventuno. Tornai a casa un po’ prima del solito. I piccoli erano a scuola, uno, Enrico, alle elementari; l’altro, Sergio, all’asilo, dalle suore. Nonna Rosa era andata a trovare la sorella, non molto distante, ma si sarebbe fermata lì a pranzo. Jone si preparava per andare a rilevare i bambini. Zia Elda era in poltrona, nel lato salotto, leggeva una rivista di novelle. “Come mai cos’ presto, Piero?” “Niente, le lezioni erano finite. Sono tornato…” “Scusa un momento, torno subito.” Si alzò, andò verso la sua camera. Tornò dopo qualche minuto. Io, intanto m’ero messo a sedere e stavo sfogliando il giornale che lei leggeva. Entrò. La guardai sorpreso, ammirato. Aveva cambiato abito, spazzolato i capelli, e aveva passato un po’ di trucco sul bel volto ovale. Era veramente bella. Vestito color avana: gonna ampia, a godet, e corpetto abbastanza aderente, con scolatura incrociata. Di quelle che si aprono generosamente ad ogni movimento, specie quando ci si china. E zia Elda si chinò subito, per prendere un foglio della rivista che era sul tappeto, donandomi la splendida visione del suo seno, purtroppo nascosto dal reggipetto di pizzo. Ma già quel che si vedeva dava le vertigini. Sedette. “Scusa, Piero, dicevi qualcosa?” Cercai di apparire disinvolto. “Nulla di speciale. Volevo, però, dirti che sarebbe bello andare al ‘Mille Luci’, ad ascoltare la nuova orchestra, diretta dal famoso maestro che furoreggia alla radio.” Mi guardava con un lieve sorriso sulle labbra. “Sarebbe bello, sì.” “Allora, andiamoci!” “Io non vado da nessuna parte da quando…” “Maggior motivo, allora, per andarci… Diciamo…. Questa sera…” Seguitava a fissarmi. “Vacci tu.” “Da solo no. Devi venire anche tu.” “Non posso, Piero… i bambini… e poi…” “I bambini vanno a letto, regolarmente, c’è nonna Rosa, Jone. Dai zia, accontentami.” Le avevo preso le mani, le tenevo tra le mie. Mi chinai e le baciai. “Sei proprio un tentatore… Ma come ci andiamo?” “Col taxi, e lo stesso al ritorno.” “Non faremo tardi, però.” “Torneremo quando vuoi tu.” “Verso che ora conti di andarci?” “Ho detto che dovevano riservarci il tavolo per le nove di questa sera.” Mi dette un leggero buffetto sulla guancia, più che altro una carezza. “Hai preparato tutto… ma non ti secca farti vedere con una signora di mezza età?” Questa volta fui io a carezzarle il volto, liscio, vellutato. “Non dire sciocchezze, sarai certo la più bella…” Scosse la testa, mi sfiorò il viso con un bacio, si alzò, andò al grammofono, scelse un disco, lo mise sul piatto, lo fece partire. Una musica lenta, sensuale, coinvolgente. Venne di fronte a me. “Lo conosci?” “No.” “E’ l’ultimo che mi ha portato lui, di ritorno da una missione all’estero.” “Bellissimo.” Annuì, seguitando a guardarmi con dolcezza. “E’ uno slow.” Annuì ancora. “Si, uno slow… ‘sweet temptation’.” “Vuoi ballare?” Seguitò ad assentire col capo, senza parlare. Mi tese le braccia. Mi alzai. Sembrò che attendesse quell’abbraccio che vi si volesse rifugiare. Ci muovevamo appena, al ritmo lento della musica. Sentivo il calore del suo corpo, il suo profumo inebriante. Mi sembrava carezzarla tutta. Percepivo la solidità del suo seno, la morbidezza avvolgente del suo grembo… Lei aveva poggiato la testa sul mio petto. E muoveva solo il bacino… facendomi impazzire. Il campanello della porta di casa trillò a lungo, le voci squillanti dei bimbi chiamavano: mamma…. Mamma… Non fu facile sciogliere quell’abbraccio. Fermò il grammofono, tolse il disco. Si avviò ad aprire la porta. Io andai nella mia camera. Mi sdraiai sul letto. Dopo un po’, senza bussare, entrò Jone, tutta pimpante. Chiuse la porta, si fermò di fronte al letto. “Signurì, tu, me sa, hai bisogno de ‘na incarcata…” “Per favore, Jone… niente dialetto…” “Va be’… tu sei ingrifato, hai bisogno di… scopa’… di scaricarti…” “Jone, attenta, c’è la zia…” “Quella sta a lava e cambià i pupi… Non perde tempo, vié qua… sbottonate…” Senza aspettare risposta alzò la veste. Come a solito. Senza mutande. Dilatò le gambe, le piegò un po’. Apparve, nel folto della foresta, il rosa palpitante del suo sesso. Ero eccitatissimo. Mi alzai, sbottonai la cinta dei pantaloni e li feci cadere a terra, e così le mutandine. Mi avvicinai a lei, col fallo spasmodicamente eretto. Mi aiutò a trovare subito la strada giusta, e si avvinghiò, stringendomi, e cominciando una danza del ventre che mi fece rapidamente raggiungere lo… scarico… di cui avevo veramente bisogno… Ansava, Jone, e si reggeva a malapena in piedi… stavo per cadere pesantemente sul pavimento. Agevolò il mio colpo di reni, la sua vagina mi strinse, forte, mungendomi golosamente… “Ammappete quanto sei carico, figlietto mio… a chi aspettavi? M’hai riempito de miele. Sei sempre strabono, uuuuuuuuuh!” Ancora una strizzata al mio sesso e si allontanò piano. “Va al bagno, pupo bello. Io me ce metto un panno….” Uscì dalla camera. Un quarto d’ora dopo eravamo a tavola. Zia Elda s’era cambiata ancora. Indossava la solita vestaglia di sempre. Il taxi fermò dinanzi all’entrata del ‘Mille Luci’. Zia Elda era veramente affascinante, elegante, curata in ogni minimo particolare, e andando al nostro tavolo fu seguita dagli sguardi ammirati di tutti gli uomini e da molti, invidiosi, della altre donne. Quando avevamo informato nonna Rosa e Jone che saremmo usciti, subito dopo cena, che in quella casa si consuma alle sette e mezzo, ovviamente di sera, Jone mi guardò interrogativamente e nonna Rosa strinse le labbra. Zia Elda inventò che era stata invitata dagli ex colleghi del marito, ed era una specie di riunione. Sarebbe stato scortese rifiutare. Per fortuna c’ero io che la potevo accompagnare. Allorché, pronta per uscire, apparve nello splendore della sua eleganza nonna Rosa scrollò la testa, e Jone restò a guardare. Poi andò alla finestra per vederci salire sul taxi. Non eravamo molto loquaci. C’era qualcosa di nebuloso che, almeno per me, non si dissipava, che non lasciava individuare e scegliere una strada. Forse non era proprio così. La strada io sapevo quale era, e dove conduceva, ma lei, zia Elda? Ero convinto che lei era perplessa quanto me, o più di me? Ero sempre più attratto ed eccitato da quella bella femmina, ma, certo, era soprattutto richiamo fisico, fascino un po’ del proibito, allettamento dell’avventura con una donna matura, elegante. Ecco, per me, tutto sommato, si trattava, eventualmente di una avventura, più o meno lunga, ma in ogni caso fine a sé stessa. Ma per zia Elda? Indubbiamente poteva essere anche per lei un piacevole soddisfacimento dei sensi, certamente esuberanti alla sua età, e messi a dura prova dalla troppo lunga astinenza vedovile. Ma non è che cercava qualcosa di diverso, di duraturo? In tal caso la ragione le diceva che con me non era prevedibile un avvenire insieme. La mia meditazione fu interrotta dall’arrivo di quanto avevamo ordinato: champagne. Il cameriere riempì le coppe, ne porsi una a zia Elda, presi l’altra, le alzammo, portammo le labbra al bicchiere. Eravamo seri, in volto. Tremendamente seri. “Vuoi ballare, zia?” Strinse le labbra, prima di rispondere. “Forse non è il caso…” “Perché?” “Perché quando ho tentato di ballare sweet temptation, a casa, non sono riuscita a muovere un passo… mi sono come paralizzata…” “Ti sentivi male?” Gli occhi le si riempirono di pianto. “No… no… era la prima volta, dopo tanto tempo, che… Insomma, credevo di ballare con mio nipote e…” “Sono tuo nipote.” Scosse la testa. “No, Piero, ero tra le braccia di un uomo, dopo tanto tempo, e lui… tu… me lo facevi chiaramente sentire…” “Zia…” “… e mi piaceva, Piero, mi piaceva… te ne sei accorto, sii sincero…” “Piaceva anche a me… ballare con te…” “Piero, quella scampanellata mi ha portato alla realtà. Ero eccitata… come te!” Non sapevo cosa rispondere. Le tesi la mano, la poggiai sulla sua. “Balliamo, zia…” Fece un lungo sospiro. Si alzò. Non c’erano molte coppie in pista, e noi eravamo la più giovane. Un accordo del piano, la voce al microfono. ‘Di Galdieri-Frustaci, Tu, solamente tu’. Un lento dolce, melodioso, e il cantante, con voce calda, alla Rabagliati, ripeteva le parole della canzone. Guardavo fissamente zia Elda. Danzavamo lentamente, non troppo stretti. Cercai di essere spontaneo, naturale. “E’ meravigliosa questa canzone, ti piace?” “L’hai ordinata tu?” “No, ma l’avrei fatto volentieri.” Eravamo trascinati da quel ritmo, e, quasi senza accorgercene, i nostri corpi si avvicinarono, cercarono il contatto. Meraviglioso. Deglutivo a fatica. Zia Elda era silenziosa, ogni tanto mi guardava. Il pezzo finì, attendemmo per il successivo. La voce annunciò: ‘di Mascheroni e Biri, Addormentarmi così’ Zia Elda scosse leggermente la testa. Ma la danza riprendeva. La presi tra le braccia. Il cantante sussurrava: ‘addormentarmi così, tra le tue braccia…” E la bella testa della mia dolce dama si poggio sul mio petto. E così rimase, fino alla fine. “Ho sete, Piero, andiamo a tavolo, per favore.” Proprio mentre stavamo sedendo, annunciarono il ballo successivo, l’ultimo di quel gruppo di tre: ‘Galdieri-D’Anzi, tu non mi lascerai’. Rimanemmo seduti. Fu zia Elda a tendermi la mano, a stringere la mia, mentre si diffondevano le parole del poeta napoletano e le note del musicista milanese: ‘tu non mi lascerai, perché ti voglio bene…’! Zia Elda mi guardava, seria, con un velo di tristezza negli occhi. Non ballammo più quella sera, e non parlammo molto. La strinsi a me, nel taxi, tornando a casa. Nell’ingresso ci salutammo. Un bacio, quasi da innamorati. Ognuno andò nella propria camera. Sentii la chiave girare nella serratura. Non passò molto e il mio letto fu…invaso. Jone! Aveva fatto cadere la camicia per terra, era nuda, supina, con il suo bianco corpo prosperoso. “Siedi su me, mettilo tra le zinne.” Non potevo farmi pregare. Lo avrei messo dovunque. Sedetti sul suo stomaco e lei lo posizionò nella calda e morbida valle che s’apriva tra le sue tette, e cominciò a manovrarle, abile, mentre mi fissava, con gli occhi spalancati, le labbra socchiuse, le labbra frementi. “Non venì, Piero, non venì… ecco, scendi… giù… giù… così… ci penso io….” Ero scivolato su lei, sul suo opulento corpo. Aveva preso la punta del mio sesso e la stava conducendo nell’umido palpitante della sua vagina, sempre incredibilmente e deliziosamente stretta, che andava stirandosi all’ingresso del mio impaziente fallo. Anche questa volta incrociò le gambe sulla mia schiena. Mi sentivo avvolto dalla sua calda e fremente carne che mi tratteneva, mi stringeva, come a volermi ingoiare in lei. E questa volta la musica era diversa, ed immaginavo che fosse lei, Jone, a cantarla. Bixio-Rusconi-Nisa, Vieni, c’è una strada nel bosco… E venni, anzi venimmo, in perfetta armonia e sintonia. Meravigliosamente. Dopo un’altra poderosa pompata, di quelle che ti fanno pensare che ci vorrà almeno una settimana per poterci riprovare, dove Jone superò sé stessa per abilità, agilità, e consumata voluttà, e per poco non mi schiacciava sotto il suo rispettabile peso essendosi ‘abbattuta’ su me non riuscendo a controllare il suo sconvolgente e incontrollabile orgasmo che temetti l’avesse fatta fuori, e mentre il suo grembo seguitava ad aspirarmi voluttuosamente, riflettei sul fatto che io mi eccitavo con zia Elda e poi riuscivo a scaricarmi in Jone, ma lei? Era fuori dubbio che non era insensibile, e che certamente l’eccitazione andava progressivamente accumulandosi in lei. Come riusciva a contenere tale pressione? La mattina dopo poltrii nel letto. Jone mi portò caffellatte, biscotti, e sarebbe stata pronta a rifare tutto e subito. Doveva accompagnare a scuola i bambini. Nonna Rosa era andata a Messa, a Santa Maria degli Angeli. Mi alzai pigramente, andai in cucina per vedere se c’era ancora un po’ di caffè. Zia Elda era lì. Si vedeva bene che aveva indossato una veste da camera sulla camicia da notte. Non si era ancora truccata, era pallida, e aveva una luce inquieta negli occhi. Bellissima, più affascinante che mai. Ricambiò pigramente il bacio del mattino. La caffettiera era sul tavolo, ed anche una tazzina pulita. Sedetti. “Come va, zietta?” Alzò gli occhi su me. “Sono confusa e smarrita. Non riesco a venirne fuori. Non ho chiuso un occhio.” “Stai male?” “Non lo so… mi sembra che la testa debba scoppiarmi, da un momento all’altro… e non solo la testa.” Allungai la mano per metterla sulla sua. La ritirò di colpo. “No, ti prego, non toccarmi.” “Scusa, non volevo….” “Scusa tu, Piero, non so cosa mi capita…” Scosse il capo. “…e invece lo so benissimo… lo so… ” “Posso aiutarti, zia?” Scrollò le spalle. “E’ colpa mia, ho fatto qualcosa di sbagliato?” Mi guardò tristemente. “No, caro. E’ colpa mia, e forse neanche colpa mia, perché non è una colpa se si ha sete, si ha fame, si ha sonno… scusa, Piero, non puoi capire….” Mi alzai, forse un po’ melodrammaticamente, le andai accanto, con dolce violenza le presi le mani. “E se, invece, capissi tutto?” Leggevo un’implorazione nei suoi occhi in cui si alternava una richiesta di aiuto e un invito a scomparire. “E allora, Piero, allora?” “Vuoi che me ne vada?” Fu quasi un urlo. “No, per favore…no… non mi lasciare…..” Mi guardò atterrita. “…anche tu… tu no… no…” Scoppiò a piangere. Mi chinai, l’accarezzai, bevvi le lacrime che le rigavano il volto. L’abbracciai, io in piedi, lei seduta, col suo capo sul mio addome. Lei piangeva, e io, invece, ero turbato dal calore del suo respiro sulla mia patta. E ‘lui’ lievitava. Non so se era per aggrapparsi a me, o altro, certo che la sua mano ‘lo’ sfiorò, quasi ‘lo’ strinse. E restammo così, fin quando il suo singulto andò calmandosi, lentamente, e io seguitavo a carezzarle i capelli. Alzò il volto verso me. Bellissimo, incantevole, seducente, con gli occhi lucidi e le piccole rosse labbra tremanti. Col fazzolettino si asciugava il naso. Abbozzò un sorriso. “Scusami Piero, scusami… e grazie… scusami…” Questa volta ero spontaneo. Mi chinai su lei e la baciai, sulla bocca, lungamente. Anche le sue labbra mi baciarono, così, senza schiudersi, però, e la sua mano mi carezzò la nuca. Fece un lungo respiro. “Vado a vestirmi… grazie…!” Si alzò, andò nella sua camera. La seguii con lo sguardo, e mi chiedevo: ‘e adesso?’ Tornai anche io in camera, e mi misi a studiare. Più esattamente, sedetti dinanzi a un libro aperto. Zia Elda comparve solo all’ora di pranzo, quando eravamo tutti a tavola. Elegante, provocante, col volto sereno, disteso, espressione che denotava sicurezza e risolutezza. Sorrise a tutti, si chinò a baciare i bambini. C’era silenzio, però, perfino Jone non parlava. Mi sembrava la calma che, a volte, improvvisa, avvolge tutto, ma è foriera di turbine, furia degli elementi. Fu zia Elda a rompere quel tranquillità surreale. “Allora, Jone, tu domani pomeriggio vai a trovare i tuoi?” Jone annuì col capo, senza parlare. “E tu, mamma, hai proprio deciso di far trascorrere ai piccoli due giorni di mare, profittando che lunedì è festa? Certo, Santa Marinella è accogliente. Ma mi raccomando, cura che non prendano freddo.” Nonna Rosa era seria e pensierosa. “Veramente, Elda, sarebbe meglio se anche Jone venisse con noi… ma se deve andare dai suoi…” Jone si fermò sull’uscio. “Io posso pure andarci un’altra volta… tanto… e se lei vuole, signora Rosa…” “Magari, Jone, magari.” Zia Elda guardò tutti, in giro. “Bene, allora domani andrete tutti alla villa di Santa Marinella. Ho già detto al giovane dell’autonoleggio di venire qui alle tre e mezza del pomeriggio.” Eravamo alla fine. Zia Elda si alzò. “Grazie, Jone, un pranzo squisito. Scusatemi, ma ho un po’ di mal di testa, vado a stendermi sul letto.” Neppure la sera si vide per la cena. Jone le portò del latte con le fette biscottate. Al mattino seguente, la incontrai a colazione. Mentre Jone andava a prendere l’ormai solito caffellatte e il resto, mi fissò, la zia, e mi sussurrò che forse, la sera, potevamo tornare al ‘Mille Luci’. “Anzi” –mi disse- “vieni ad aiutarmi a scegliere l’abito.” Andammo nella sua camera, lasciò aperta la porta. Una camera grandissima, col balcone che dava sulla strada. Proprio verso il balcone, due lettini per i bambini, poi un comodino, l’ampio letto matrimoniale, un altro comodino, un discreto spazio, con una poltroncina, e quindi la parete col lungo armadio, la cui anta centrale, tripla rispetto alle altre, era ricoperta da uno splendente specchio molato, nel quale si rifletteva tutta la camera, specie il letto. Di fronte al letto il comò, anche esso con grosso specchio, poi, verso il balcone, la toletta, con specchi messi in modo che ci si potesse vedere da ogni lato. Molta luce, oltre quella che veniva dal balcone. Nel centro, sulla toletta e sui comodini. Il letto si riproduceva nel grande specchio dell’armadio, come un proscenio. Luci e specchi. Sembrava uno studio fotografico. Zia Elda aprì un anta. “Scusa, Piero, ho sbagliato, è quella delle camicie da notte.” Ma non la richiuse subito, e potei vedere i veli che ornavano e certo non celavano le sue ammalianti forme durante la notte. Spettacolo eccitante. Pensai di essere spiritoso. “Potresti indossare una di quelle.” Non so classificare il suo sguardo, ma voleva certo dirmi qualcosa. “Non so da quando non le uso. Ora ho delle lunghe camicie di cotone o di flanella.” “E quelle?” “Ricordi del passato.” “Mi piacerebbe… vedertene una addosso… quella rosa, per esempio…” “E il ‘Mille Luci’?” Capivo di essere sempre più insulso, ma non riuscivo a trovare un argomento. “Tu hai molta più luce, che ‘Mille Luci’.” Prese la camicia che le avevo indicato. “Questa?” Annuii. La poggiò sul letto. Come se avesse dimenticato il motivo per cui mi aveva invitato a guardare nel suo armadio, mi tese la mano e mi disse che potevamo andare. Nell’ingresso mi fece un dolce sorriso. “Cosa fai, Piero, vai a studiare o in facoltà?” Pensai che fosse meglio uscire. “Faccio un salto in facoltà.” “Ah! Allora ci vediamo a pranzo. Ti prego di essere puntuale, che nel pomeriggio ‘loro’ partono per Santa Marinella.” Si avvicinò e mi sfiorò il volto con un bacio. Tornò in camera sua. Finii di preparami e uscii. Non andai all’Università. Mi diressi ai vicini giardinetti, e andai a sedere su una panchina isolata. Non ci capivo nulla. ‘Vieni, aiutami a scegliere un abito per questa sera…’ Poi, prende la camicia che le ho indicato e la mette sul letto… ce ne andiamo via dalla sua camera… accenna di sfuggita un saluto… Quasi quasi mi viene voglia di telefonare che rimango in facoltà, mangio un panino. Rientro, invece, prima del solito, e sono il primo a giungere in sala da pranzo. Lei, zia Elda, indossa l’elegante vestito con scollatura sciallata. Non riesco a capirla, è mutevolissima. Ora è serena, tranquilla, sorride a tutti, raccomanda ai bimbi di essere buoni, ubbidire alla nonna e alla tata… Al termine del pasto chiedo se posso essere utile. Mi si risponde che è tutto pronto, si attende l’auto. Puntualissima. Baci, abbracci, zia Elda ed io andiamo al balcone per vederli salire in auto. Ultimo saluto con la mano, partono. Lungo sospiro della zia. Rientriamo. “Credo che andrò in camera, Piero.” “E, per il Mille Luci?” “Ti chiamo io, ne parliamo.” Seguito a non capire. Me ne vado a stendermi sul letto. Dopo circa mezz’ora sento la sua voce. “Piero… Piero… puoi venire un momento, per favore?” Salto giù. Cosa sarà successo? Dal tono della voce, calmo, tranquillo non sembra che ci siano problemi. La porta della sua camera è appena accostata, dallo spiraglio esce luce, molta luce. Devono essere accese tutte le lampadine. Busso. “Entra!” Spingo il battente, entro… Dinanzi allo specchio, zia Elda è in camicia da notte. Quella rosa. Capelli sciolti, volto radioso. La camicia evidenzia, non copre. Una visione incantevole. Seno alto, coi capezzoli che, turgidi, sollevano la stoffa. Natiche tonde, meravigliose. E qualcosa di scuro dove le gambe s’uniscono, un triangolo che mi eccita visibilmente. Mi guarda, con un sorriso che non le avevo mai veduto. Le labbra sono lucide, gli occhi sfolgorano. La sua voce è calda, bassa, avvolgente. “Così? Dicevi così?” Resto ammutolito, non so cosa dire. Sono sbalordito, incantato… “Allora, Piero…?” Mi avvicino con un certo imbarazzo… esitante, perplesso… Mi tende la mano. Ci troviamo abbracciati. Quel velo non esiste. Sento la sua pelle, le mani la carezzano. Il seno sul mio petto, le mani che stringono le sue natiche, e la sento incollata a me, col suo grembo che sembra cercare qualcosa di me, si strofina a me. ‘Lo’ sente! Si stacca appena, seguita a guardarmi e, intanto, slaccia la cintura dei pantaloni, sbottona la camicia, i polsi, me la toglie, la getta a terra. Passa le palme delle sue manine sul mio petto, lentamente, teneramente. Sto impazzendo. Ora sbottona i pantaloni, li lascia cadere sul pavimento, armeggia per far scendere anche le mutandine che sono tese dall’erezione incontenibile che mi tormenta, si china e slaccia le scarpe, me le toglie. Mi toglie tutto. Rimango nudo come un verme, con ‘lui’ che sembra un bompresso d’assalto. Noto che lo guarda e le sue nari fremono. “Vieni…” Si avvicina al letto, toglie anche il velo della camicia, si sdraia, mi tende la mano. L’eccitazione è tale che mi butterei subito su lei, tra le sue gambe, e ‘lo’ infilerei dentro di colpo, stantuffando follemente, fino a…. Forse distruggerei tutto. Mi adagio accanto a lei, su un fianco (non potrei diversamente!), e le bacio un capezzolo, lo prendo tra le labbra, lo lambisco, lo succhio… sento che lei non resta immobile… faccio scendere la mano sulla sua pelle, titillo l’ombelico, proseguo. Col palmo aperto, leggero, carezzo i riccioli del pube, insisto, carezzo il rigonfiamento delle grandi labbra. Sento le gambe che si dischiudono appena, Le dita si introducono, dolcemente, mentre seguito ad alterare la mia bocca sui suoi capezzoli. Il polpastrello ha sentito ergersi il suo piccolo clitoride che freme inarrestabilmente. Le gambe si dischiudono ancora, le ginocchia si alzano. Ora percepisco le contrazioni dell’apertura calda e umida del suo sesso. Il suo grembo sussulta, il suo respiro diviene pesante, un lungo lieve gemito esce dalle sue labbra dischiuse. Le mie dita sono in lei… senza estrarle, mi muovo in modo che la mia bocca, lasciato il seno, vada a prendere il posto della mano nella sua valle della voluttà, e la mia lingua, guizzante, dia il cambio alle dita. Penetra in lei: era calda, bagnata, salata… frenetica … Allungò la mano, afferrò il mio fallo che temevo esplodesse da un momento all’altro… “Adesso, Piero…. Adesso… subito… subito…” Mi misi in ginocchio, tra le sue gambe… ‘lo’ portò tra le sue piccole labbra, iniziai a penetrarla con lentezza. Calda, bagnata, ma sembrava chiusa, tesa, come se fosse in difesa. Sentii il palpitare del suo grembo, e il bacino che s’inarcava, mi veniva incontro. E ‘lui’ lento ma inarrestabile, andava aprendosi la strada, stirando ogni piega in lei, che si trasformava in una voluttuosa carezza. Quando non fu possibile andare oltre, mi fermai un attimo. Sentivo, ora, le contrazioni della vagina, che ‘lo’ fasciava, stringeva, mungeva. Il gemito era continuo, in crescendo, e così il muoversi di quella meravigliosa femmina, che si dimenava sempre più ardentemente, con gli occhi chiusi, le labbra appena aperte, fin quando non fu travolta da un incontrollabile orgasmo che la sconvolse. Sentii stringere convulsamente il mio fallo, e poi delle indescrivibili contrazioni che lo strizzavano, fino all’ultima goccia del seme che andava spandendosi in lei. Poi giacque, esausta, spossata, ansante, sudata. Allora aprì gli occhi e mi sorrise, beata, come in estasi… La voce era rotta dal respiro affannoso. “Sono in Paradiso, vero?” “Sì, amore, e io sono Pietro!” Ero su lei, mi strinse, mi baciò sugli occhi, sulle labbra. Non so quanto restammo, così. Sentii lei che si muoveva. Mi guardai intorno, luce fortissima. I nostri corpi erano riflessi negli specchi: io su lei. Lei aveva abbassato le ginocchia, disteso le gambe. Accennai a muovermi, la guardai. Annuì. Gentilmente attese che io mi ponessi accanto a lei, ma fece in modo che lei rimanesse dalla parte della sponda del letto, verso l’armadio. Era voltata su un fianco, io dietro lei. Lo specchio diceva della sua bellezza. Con quel sederino prensile verso me, ‘lui’ si ringalluzzì subito e andò a sistemarsi tra quelle superbe natiche. Zia Elda allungò la mano, si accertò della consistenza. Non capivo bene cosa volesse fare. Era sul fianco sinistro. Si poggiò sul gomito sinistro, e alzò la gamba destra, molto in alto. Lo specchio mi faceva vedere il suo sesso, spalancato, nella valle rosa, incorniciata dal boschetto nero. Alzava anche il bacino, tendeva la mano, prendeva il mio sesso e lo portava nuovamente alla sua vagina, si muoveva con dolcezza, ma con decisone. L’angolatura del suo bacino era tale che io potei penetrarla agevolmente, sempre, però, spianandone lentamente le pareti. Lo specchio mostrava il suo volto, il suo seno, il suo ventre piatto, le gambe spalancate (una ben alta) e la parte del mio fallo che non era entrata in lei. Lei aveva cominciato ad ondeggiare, lascivamente. Ero attratto, incuriosito e affascinato da ciò che vedevo per la prima volta. Il mio ‘coso’ entrare e uscire dal sesso d’una donna. E scorgevo il movimento dei muscoli. Ecco, quello era il clitoride… lo raggiunsi con la mia mano. Le contrazioni della vagina incrementarono. E quelle erano le belle tette, sode. Le tormentai. E quelli i capezzoli, li titillai. Uno spettacolo eccitante, che aumentava il piacere. Gli occhi di zia Elda erano sullo specchio, ed anche lei andava sempre più eccitandosi ed agitandosi, sempre più, fin quando non si spinse indietro, verso me, e la gamba alzata non resisté più, si abbassò. Ero ancor più stretto in lei, ed anche questa volta il dolce dilagare ci unì nello stesso fremito. Forse zia Elda voleva vedere ancora, perché aprì le gambe… io sgusciai da lei, e un rivolo biancastro uscì da quella fonte di voluttà. Tutto mi era minuziosamente raccontato dallo specchio. Volle essere abbracciata, stretta, e, malgrado le luci, quasi accecanti, si assopì. Lo vedevo dallo specchio. A me, non posso nasconderlo, quella illuminazione cominciava a infastidirmi. E’ vero che specchio e luci avevano cooperato a rendere ancora più voluttuoso i nostri amplessi, ma ora… io non riuscivo ad addormentarmi in tali condizioni. Niente di più falso, perché quando mi ridestai la bellissima Elda era ancora tra le mie braccia, con quel suo meraviglioso culetto che tra le sode natiche custodiva il rigermogliante mio sesso desideroso. Eppure, per usare termini poco eleganti, quella femmina meravigliosa mi aveva letteralmente spompato. Con quella sua ‘cosina’ speciale, che sembrava non volersi dischiudersi e che, poi, ti accoglieva come un guanto stretto accoglie il dito della mano, e poi lo avvolge, lo scalda, lo protegge. Al solo pensarci l’interessato dava segni di scomparsa stanchezza. E’ vero che ero giovane, voglioso e sempre pronto, ma se si fosse instaurato un regime ‘Jone+Elda’ chissà per quanto tempo avrei resistito…. malgrado gli zabaioni di Jone. Le mie risorse, comunque, non erano del tutto esaurite. E forse furono loro a sollecitare il risveglio della creatura che giaceva, beata, tra le mie braccia. O erano le mie mani che non riuscivano a stare ferme, e non potevano trascurare tette e grotta delle meraviglie. Evidentemente un po’ di tutto. Si svegliò, girò la testa, e mi sorrise. “Sognavo il Paradiso, Piero, ed invece è realtà.” Si voltò verso me, mi baciò appassionatamente. Si alzò, andò nel bagno, per pochi istanti. Tornò e rimase in piedi, accanto al letto. Io mi misi in ginocchio, di fronte a lei, e le baciai il seno. Dolcemente, mi spinse fino a farmi stare supino, prese le mie mani e mi tirò a lei facendomi girare nel contempo. La mia testa era sulla sponda, vicino al suo grembo. Mi sporsi in fuori, riversai il capo, cominciai a frugarla tra le gambe, con la lingua. Un sapore che mi inebriava, stordiva. Rimase un po’ così, dischiudendo le gambe, piegandosi leggermente sulle gambe, ma ad un tratto saltò su letto, lasciandomi così, e si mise a cavallo a me, poggiando sulle ginocchia. Prese il mio fallo e lo posizionò tra le sue piccole labbra, lentamente s’impalò, con contrazioni meravigliose, eccezionali, incantevoli. Cominciò una lenta cavalcata. E si guardava allo specchio. Il ritmo incalzava, diveniva cavalcata travolgente. Sempre più. I suoi occhi erano sempre fissi allo specchio. Le nari frementi, i capelli scossi da quel cavalcare frenetico, sudava, dalle labbra qualcosa di indistinto, roco… “Si…. siiiiiiiiii…. siiiiiiiiii…. eeeeeccooooooooooooooooo…!” E si rovesciò su me, mentre il suo grembo impazziva. Quando cominciò a rilassarsi, lunga su me, le carezzai il dorso, le natiche, e pur in quel delirio sensuale, mi venne in mente che era la terza volta, quel pomeriggio, che facevo l’amore con zia Elda. Omne trinum est perfectum! Certo…ma… non solum tertium sed quartum… già pensavo al prosieguo… se ce la facevo…! Niente da fare, la ‘vis goliardica’ affiorava sempre. I latini dicevano anche ‘tertium non datur’, non c’è una terza volta, ma zia Elda l’aveva data, e come, anche la ‘terza’, per cui non era da escludersi la ‘quarta’. E il diavoletto ironico mi diceva anche che alla fine c’è anche la retromarcia. ‘Vade retro…!” E il mio ‘diavoletto’, il mio ‘satana’, potendo, non avrebbe certo disatteso tale esortazione. Com’erano belle le natiche di zia Elda. Che calore tra esse, E come palpitava quel piccolo bocciolo quando il mio dito lo sfiorava. Volevo baciarlo! Fuori cominciava la penombra del tramonto, ma le luci seguitavano a sfolgorare. Zia Elda alzò la testa, mi guardò. Sorrise. “Forse dobbiamo prepararci per la cena. Hai fame?” “Di te, sempre.” Mi dette un buffetto. “Bambino sciocco… non sei ancora sazio?” “Io no… e tu?” Ondeggiò il bacino. “Ché questa ‘mia’ che tu certo senti non lascia a te di sceglier altra via e mai non empie la bramosa voglia, e dopo ’l pasto ha più fame che pria. Io, tesoro, l’avrei scritto così quel passo dell’Inferno. Perché per me, invece, è il Paradiso, e del Paradiso non ci si sazia mai.” La baciai. “Né io vo’ sortir dal Paradiso.” Strinse le gambe. “Dobbiamo nutrirci, però, caro, perché le forze…ci servono!” Si levò, si mise a sedere. Eravamo ancora di traverso, sul letto. Lei, gattoni, si avviò per scendere, ma… Ma, così, carponi, lo spettacolo che offriva era incantevole, ammaliante, irresistibile. Mi misi dietro lei, in ginocchio, con delicatezza scostai le natiche, vi affondai il volto, e la lingua percepì il pulsare di quel buchetto, proseguì, raggiunse il sesso stillante, lo lambì golosamente. Lei cominciò a dimenarsi, come se scodinzolasse, la mano le carezzò il clitoride. Aprì ancora di più le gambe e ‘lui’, come impaziente lancia in resta, s’affrettò a immergersi in quel calore fascinoso che lo accolse esultante. Eravamo di fronte allo specchio… ancora una volta… e le mie mani brancicavano le tette, tormentavano il bocciolo rosa tra le sue gambe. Era la ‘quarta’! Si confidavano Zia Elda e Jone? Non è curiosità, è una domanda logica se si considerano alcuni particolari. Zia Elda, un giorno, dopo una movimentatissima interpretazione di una delle figure più ardue del Kamasutra, logicamente controllata allo specchio. Mentre cercava di riprendere il respiro normale, dopo la laboriosa acrobazia, mi disse che, certamente, una donna robusta ‘come Jone’ non poteva permettersi certe raffinatezze. Jone, dal canto suo, in una delle notti che occupava i nove decimi del mio letto, tanto, che la cosa migliore era accomodarmi su lei, caldo e morbido materasso ci carne, mi fece tutto un discorso complicato e tortuoso su quella che lei chiamò la ‘scopata anale’, cosa che, giurava, non aveva mai fatto ma che, ‘se l’omo che amava proprio lo voleva….’! Aggiunse anche che non riteneva che chiappe poderose, come le sue, potessero essere di ostacolo, era tutta questione ‘cul-in-aria’ e tenerle bene spalancate. Si domandava anche se una cosa del genere poteva piacere a una femmina. Cercai di spiegarle come lo strofinio del fallo nel retto si rifletteva nella vagina e quindi…. “Cioè, signorì, se me metti un dito nel didietro è come se me facessi un ditalino?” “Più o meno.” “Provace un po’!” Si voltò su un fianco, le cosparsi il buchetto di saliva e… procedetti, con dolcezza. Dopo un po’ cominciò a dimenarsi, piano, e si portò una mano tra le gambe. Gliela tolsi, la sostituii con la mia, e sentii che era ben bagnata e accettava di buon grado sia il titillamento del clitoride che il ‘dentro-fuori’ nella vagina. “Hai ragione, Pietruccio bello, seguita che Jone sta a venì…” Ma quando era il momento giusto si voltò di colpo, supina, aprì le gambe e.. “Vieni cocco mio, mettilo dentro, tutto e daie…” Un invito che non si poteva respingere, e quel caldo meraviglioso mi accolse e si contrasse voluttuosamente quando sentì che distillavo in lei il piacere che mi aveva fatto raggiungere, mentre sembrava rantolare nell’orgasmo che la squassava. Guarda caso, la notte successiva, zia Elda, allorché le carezzai il buchetto tra le natiche, si spinse proprio al momento giusto, e si appropriò di una falange del mio dito. Malgrado ogni attenzione, le esercitazioni notturne influivano sullo studio. E faticavo non poco per non perdere delle battute. Il contrasto tra quelle femmine mi eccitava. Mi portavano alla mente i contrasti della poesia religiosa del duecento. Il Contrasto tra la rosa e la viola, tra la Jerusalem Celeste e la Babilonia Infernali, di Fra Giacomino da Verona. Chi tra loro era la rosa? Nessuna infernale, ma certamente diabolica, nel senso di sottilissima, raffinata, la fantasia erotica di zia Elda. Giulia mi domandò cosa mi stesse accadendo, perché avevo diradato le andate in facoltà e ridotto la permanenza ai minimi termini. La verità era che molte volte, al mattino, nonna Rosa andava in chiesa, i bimbi a scuola, Jone a fare la spesa. Ma c’era anche che zia Elda voleva condensare tutto in quell’oretta che potevamo considerare tutta per noi. Forse qualcosa aveva subdorato, di ciò che a notti alterne accadeva tra me e la chiappona, perché mi strizzava sempre più ingordamente, e diceva non no avrebbe lasciato neppure un millimetro per le altre. Quella mattina, poi, più focosa di una Valchiria, la sua era stata una cavalcata travolgente, una vera e propria ‘carica’ impetuosa, ardente, e la stretta finale fu più appassionata, energica del solito… Come un gorgoglio usciva dalle sue labbra, mentre guardava nello specchio il suo galoppo. Si sentiva un ripetere sordo, roco. “Io te lo stacco…. Te lo stacco…. Non te lo restituisco più, lo tengo in me, per me, per sempre… te lo stacco…” E strinse le gambe come se volesse attuare quanto andava mormorando. Quello era il mio periodo quasi da Pascià col mio piccolissimo ma assatanato harem: coccolato, nutrito, circondato da mille attenzioni. Purtroppo le cose belle non durano molto. Dopo circa quattro mesi, da casa mi avvertirono che stavamo per trasferirci, molto lontano. Non potevo attendere la fine dell’anno accademico, la sede era all’estero. Mi sembrò che tutto crollasse. Il mio bel castello andava distrutto. Zia Elda ne fu informata telefonicamente. Quando la comunicazione finì, mi guardò, terribilmente pallida, cerea. Era una di quelle domeniche che restavamo soli. Il resto della famiglia a Santa Marinella. Avevamo dormito insieme, da me. Oddio, dormito, si fa per dire. Zia Elda ha solo dei brevi assopimenti. Per fortuna che ‘mi regge’ e non mi fa fare cattiva figura. “Quindi, Piero, martedì parti… chissà se e quando ci rivedremo… e se ricorderai la tua vecchia zia….” L’abbracciai. In effetti ero commosso e addolorato. Lasciavo molto, moltissimo. Lei si svincolò dolcemente. “Scusami…” Andò verso la sua camera. Passò un buon quarto d’ora. Mi chiamò. “Piero.” Era sul letto, a modo suo, di traverso. Completamente nuda. Non attese preliminari, nulla, mi tirò su lei, lo prese e lo portò all’ingresso smanioso del suo sesso, e il suo bacino sembra un mare in tempesta. Poi fu lei a voler essere sopra, sempre con furia, con un’espressione dura nel volto. “No, Piero, niente sciacqui, niente… e se nascerà… se nascerà….” Ma l’orgasmo non le consentì di finire la frase. Sembrava percorsa dall’elettricità. Una ventosa che stava mungendomi voracemente. E poi un pianto, lungo, con le lacrime che cadevano sul mio petto, dove aveva posato la sua bellissima testolina. Forse era l’ultima volta che stavamo insieme. Si mise supina. “Per favore, Pietro, apri l’armadio.” Non ne comprendevo la ragione ma, così, nudo com’ero, mi alzai, andai all’armadio e ne aprii l’anta… Uscì dai perni, cadde rovinosamente a terra, lo specchio andò in frantumi. Mi voltai, sgomento, verso lei. Mi tese la mano. “L’ho allentato io… quello specchio non deve esistere più. Non serve!” Qualcuno mi chiederà di Giulia. Ha ragione. Mi riservo di parlarvene.
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