Alessandro, giunto nelle vicinanze di Tebe, diede ancora ai Tebani la possibilità di pentirsi di ciò che avevano fatto, in quanto chiese soltanto la consegna di Protite e di Fenice, che egli considerava ispiratori e promotori della ribellione, e fece annunciare da un banditore che coloro che fossero passati dalla sua parte avrebbero avuto salva la vita. I Tebani, per niente intimoriti, gli chiesero di consegnare loro Filota e Antipatro e, per completare la simmetria, facevano annunciare da un banditore che coloro i quali avevano l’intenzione di difendere la libertà dell’Ellade sarebbero stati ben volentieri accolti tra le loro fila. Alessandro, reso furente da ciò che riteneva un sarcasmo dei Tebani irriverenti neiconfronti della sua figura regale, spinse i Macedoni alla battaglia. I Tebani lottarono con valore e impeto superiori alle loro forze, benché avessero schierato contro di loro un nemico molte volte più numeroso; nessuno indietreggiava, gli opliti cadevano colpiti al petto e i sopravvissuti stringevano la schiera en taxeis; la falange sacra faceva prodigi di valore; ma quando il presidio macedone che si trovava nella Cadmea compì una sortita e piombò su di essi alle spalle, si trovarono accerchiati e, prodi quali erano, preferirono cadere quasi tutti durante la battaglia che essere resi schiavi o uccisi per vendetta o per scherno dai loro nemici, dopo che fossero stati presi prigionieri. La città fu conquistata, saccheggiata e, infine, rasa al suolo. Lo scopo principale per cui Alessandro si comportò in maniera tanto crudele era quello di spaventare gli altri Elleni: egli pensava che, allorché avessero visto cosa era capitato a chi aveva osato ribellarsi, per paura delle conseguenze, se ne sarebbero rimasti tranquilli. Inoltre avrebbe potuto ottenere la riconoscenza degli alleati, mostrando come era sollecito ad ascoltare le loro lamentele: infatti Focesi e Platesi si erano ripetutamente lamentati per essere stati sottoposti a soprusi dai Tebani. Tra gli abitanti operò una scelta, escludendo dalla punizioni i sacerdoti, coloro che avevano rapporti di ospitalità con i Macedoni, i discendenti di Pindaro e quanti avevano votato contro la risoluzione che aveva dichiarato la ribellione; tutti gli altri furono venduti come schiavi e si trattò di circa trentamila persone. I morti furono più di seimila.In quella evenienza la città fu teatro di molti e gravissimi misfatti. Fra gli altri, ci fu una masnada di Traci che fece irruzione nella casa di Timoclea, una signora onesta e stimata nella città. Mentre i soldati semplici si davano al saccheggio della casa, il comandante prendeva la donna a forza e la disonorava. Timoclea cercava di resistere e, siccome era fiera, forte e risoluta, egli chiamò alcuni soldati, distogliendoli dal saccheggio con la promessa di un premio maggiore e li invitò a costringerla con la forza ad assumere le posizioni che lui indicava, insultandola e umiliandola col sottoporla alle pratiche più oscene e vergognose. Egli, siccome era un uomo ignobile, stupratore di vergini e di fanciulli nel corso di razzie che poi venivano definite guerre, non era mai riuscito a farsi concedere da una donna, la sua entrata segreta, e allora, trovandosi fortunosamente davanti ad una donna nobile, bella e desiderabile, quale lui non avrebbe mai potuto pretendere di avvicinare, fu preso dalla possibilità di avere quella avventura eccezionale e insperata. Fece girare la donna dai due soldati, che obbedirono all’ordine, sghignazzando insultanti, e la sodomizzò senza neanche usare le precauzioni lubrificanti che, in genere, si prendono in casi consimili. Quando ebbe finito, perché non più in grado di risvegliare ancora la sua virilità messa a dura prova dagli assalti reiterati, non ancora pago dei suoi misfatti, le domandò se avesse oro o argento nascosto da qualche parte, minacciandola di tortura e di morte. Ella confessò di averne; lo condusse da solo nel giardino e gli mostrò un pozzo: “Lì dentro – disse piangendo, avvilita per l’affronto subito e dolorante per la pratica inusitata alla quale era stata sottoposta – ho gettato con le mie stesse mani gli oggetti più preziosi che possedevo, quando la città fu presa. È tutta roba tua, ma, ti prego, lasciami salva la vita”. “Vedremo” rispose il Trace che già meditava di darla in pasto ai suoi soldati, una volta che essi non avessero più avuto niente da saccheggiare e che ingordo, si chinò per guardare nel buio del pozzo, cercando il luccichio dell’oro. Timoclea, che astutamente si era tenuta alle sue spalle, ve lo spinse dentro e poi gli getto addosso un gran numero di sassi, finché non riuscì ad ucciderlo. I Traci attirati dalle urla del loro comandante, ma in ritardo, perché distratti dall’opera del saccheggio che stavano praticando, giunsero sul posto quando era tutto finito. Allora legarono la donna, spossata, ma fiera di essersi vendicata e la condussero da Alessandro. Questi subito, appena la vide, capì dallo sguardo e dall’andatura della donna, che si trattava di persona di grande dignità e di cuore nobile perché seguiva i suoi aguzzini senza dar segno di paura e di alcun turbamento. Quando le domandò chi fosse, ella rispose fieramente di essere sorella di Teagene, il Tebano che aveva schierato l’esercito contro Filippo di Macedonia a Cheronea, per difendere la libertà dell’Ellade ed era caduto, colpito nel petto mentre dirigeva la battaglia. Alessandro ammirò la risposta coraggiosa della donna, non meno dell’azione che ella aveva compiuto. Rimproverò aspramente i soldati, parlò con disprezzo del loro comandante ucciso e diede ordine di lasciare Timoclea in libertà insieme con i suoi figli. Con questo atto di clemenza Alessandro avrebbe voluto far dimenticare le centinaia di donne che, in quell’occasione, furono violentate dai suoi soldati senza che egli alzasse un dito e quelle che durante la violenza furono uccise per crudeltà o per sbadataggine, ma non ci riuscì e la presa di Tebe sarà ricordata come uno degli atti violenti e spietati che macchiarono la vita, peraltro gloriosa, del giovane sovrano.
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