Le cose hanno cominciato a prendere una strana piega con l’arrivo di Daniele, mio fratello. Mia madre ha quarantaquattro anni e ha già avuto una figlia (che sarei io) diciott’anni fa, quindi certamente non mi aspettavo questa novità. E a quanto ho captato di certi discorsi in cucina, non se l’aspettava neanche papà. Con mia madre ho sempre avuto un rapporto normale, complicità ed incomprensioni in egual misura, come nella norma. Credevo fosse moderatamente soddisfatta della sua vita, del suo lavoro(commessa in una profumeria, niente di speciale), ma evidentemente mi sbagliavo. Questa storia del bambino ha praticamente risucchiato ogni sua energia, ogni suo entusiasmo, eclissando qualsiasi altro interesse. Per tutto il periodo della gravidanza non ha fatto altro che guardare la tv sdraiata sul divano del salotto ed impegnarsi in estenuanti passeggiate pomeridiane sul lungomare. Di solito lei e mio padre uscivano la sera, magari anche solo per un cinema, ma dall’annuncio della gravidanza l’unica uscita serale di mia madre è stata la comparsata d’ufficio nella pizzeria dove ho festeggiato il mio compleanno. Mio padre è diventato irritabile, scontroso, a un certo punto ha smesso di affannarsi a nascondere quanto poco lo convincesse questa storia del secondo figlio. Hanno cominciato a discutere, a litigare, sempre più spesso la mattina trovavo mio padre sdraiato scompostamente sul divano del salotto. “Io tua madre non la capisco, Elena. – mi ha detto un giorno- Avevamo raggiunto un certo equilibrio, mi pare, no? Che bisogno c’è adesso di stravolgere tutto un’altra volta?”“Be’, ma non è che è rimasta incinta da sola… Anche tu potevi starci attento.” “Mi ha preso in giro, Elena…Lo sai cosa intendo.”“Cioè? Vuoi dire che l’ha fatto apposta?”“Esattamente”. Ho pensato che non avesse senso. In fondo mio padre aveva ragione:non è che navighiamo nell’oro, e un altro figlio avrebbe ingarbugliato la matassa alla grande. Poteva succedere, certo, ma andarsela proprio a cercare…Ho capito che invece era andata proprio così una domenica mattina, credo fosse aprile. Mia madre era in soggiorno, seduta sulla sedia di vimini che le aveva regalato la sorella qualche natale fa. “Elena, vieni qua… – mi ha detto – Vieni a sentire…” Mi sono avvicinata, lei mi ha preso la mano e se l’è portata sulla pancia. Era all’ottavo mese in quel momento. “Lo senti?” Mi guardava con un’espressione quasi estatica, con gli occhi lucidi. Ho passato la mano sul pancione ma l’unica cosa che ho sentito è stata la sua pelle liscia. “Lo senti che si muove?”“Sì…Credo… di sì.” In fondo era quello che voleva sentire. “Oh, dio, amore, vieni qui…”Mi ha tirata a sé e mi ha abbracciata. “Questo bambino è un miracolo per me…” Mi sono stretta al suo pancione mentre mia madre ha cominciato a singhiozzare e ad accarezzarmi i capelli. Confesso che in quel momento mi ha fatto paura. Ho pensato che fosse uscita fuori di testa. E adesso che Daniele è nato la situazione non è cambiata di molto. Anzi, direi che è peggiorata. E lo direbbe anche papà. Le giornate di mia madre sono praticamente la fotocopia l’una dell’altra:passeggiata mattutina con carrozzina, parco, supermercato, le soap-opera del pomeriggio, cena e ancora il caro vecchio divano davanti alla tv. Il tutto intervallato dalle poppate di Daniele. Saranno state la tensione e la confusione che si respirano in casa ormai da un anno, ma non mi sono molto affezionata al bambino. Lo guardo e mi sembra ridicolo, anzi mostruoso. Chissà, forse sono un mostro io. Mio padre proprio non lo può sopportare. Quando mia madre glielo mette in braccio guarda da un’altra parte, con un sorriso tirato. Mia madre se ne accorge, ma non dice niente. Sembra che quello che pensa papà non le interessi, persa nella cura maniacale del suo bambino. Non sente più neanche le amiche con cui ogni tanto usciva a fare shopping, o solo un giro in centro. La casa e i piccoli punti fermi del quartiere sono diventati il suo universo. L’altra mattina l’ho vista, passando davanti alla camera da letto. Era seduta su una poltrona, la camicetta sbottonata, il bambino attaccato al seno. Aveva gli occhi chiusi, un’espressione rilassata e beata. Mi sono fermata a osservarla, sulla soglia della stanza. C’era qualcosa di ipnotico in quella scena, mi sembrava un quadro. Mamma ha aperto gli occhi, mi ha visto e mi ha sorriso. “Amore…Vieni qui. “ Mi sono avvicinata e ho continuato a fissarla. Quell’espressione placida, quelle mammelle gonfie di latte e quella piccola ventosa umana che succhiava insaziabile. Ho provato l’impulso di staccarle il bambino dal seno e lanciarlo contro la parete. Mi sembrava un parassita. “E’ stato così anche per te, piccola…Tanti anni fa.” mi ha detto mamma. Ed era vero. Quel corpo caldo e quelle tette avevano nutrito anche me, ma pensarci mi ha fatto un effetto straniante. Come arrancare col pensiero per seguire il professore di fisica che ti spiega la curvatura spazio-temporale. Assurdo. “Una creaturina raggrinzita e brutta che non sa fare altro che piangere e succhiare? – ho pensato – Nooo…Io non posso essere stata così!” Ma la vita è uno specchio rotante, un marchingegno da luna-park, e i suoi orrori te li sbatte in faccia a orario continuato. L’altra mattina a scuola era sciopero;papà era al lavoro e mamma nella vasca da bagno. Ha detto a me di dare un’occhiata a Daniele e io mi sono ritrovata là, nella camera da letto dei miei, davanti a quell’improbabile lettino di legno con le ruote. Dormiva beato, mio fratello, anzi non mi sembrava neanche che respirasse, come un bambolotto abbandonato sul letto. Sono rimasta a osservarlo seguendo il filo dei miei pensieri, lasciando che il tempo mi scivolasse addosso. Mia madre mi ha raggiunto senza che me ne accorgessi e mi ha fatto sobbalzare mettendomi una mano sulla schiena. Era avvolta nel suo accappatoio bianco, a piedi nudi, ancora gocciolante. “Oddio… Mi hai spaventato” ho detto. “Scusa…” Si è avvicinata a dare un’occhiata al bambino, e ho visto un sorriso allargarle la bocca come una fisarmonica. “Dorme…” ha sussurrato. “Sì. “ “Non è bellissimo?” Come no…Mi faceva impazzire. “Certo…” ho risposto. “Anche tu eri così bella…” Ah, grazie. Voleva dire che adesso sono diventata uno schifo?Ho pensato che mia madre fosse drogata. O almeno in leggero stato di alterazione delle percezioni sensoriali. L’espressione che aveva sul volto mi ricordava quella che accompagna certi trip all’insegna della cavalcata del dragone. F issava il bambino come un appassionato di complotti scruterebbe il video dell’assassinio di Kennedy. Uno sguardo famelico. Chissà, forse aveva frugato nei cassetti della mia stanza e trovato l’occorrente per rollarsi un cannone. Mi ha preso la mano e mi ha guardato, persa. “Tuo padre non capisce, Elena…” – mi ha detto – “Io non ce la facevo più…Questo bambino…mi ha riempito un vuoto. E’ tutto per me. “ “Noi non eravamo abbastanza?” le ho chiesto. Mamma mi è sembrata sul punto di piangere, e ha cominciato ad accarezzarmi una guancia. “Ma no, amore…Che vai a pensare…Sei la mia bambina, ma ormai…sei cresciuta e non hai più tanto bisogno di me…”. “Non è vero…”. Credo di averlo detto più per consolarla che per altro, ma a mia madre deve essere sembrata una verità particolarmente commovente. Mi ha attirata a sé e mi ha abbracciato, poggiandomi la testa su una spalla. Mi sono ritrovata con le sue tette che premevano contro le mie, lei che piangeva, la spugna del suo accappatoio bagnato sotto le dita…Era una sensazione strana. M i è sembrato di essere finita in un batuffolo di ovatta. Lontana dal mondo, riscaldata, protetta. Forse è questa l’anticamera del fragore del mondo, la culla delle origini. Mamma mi ha guardato col suo sorriso lieve e mi ha posato un bacio leggero sulle labbra. “Io ci sono sempre per te, amore mio…” mi ha detto. Sono rimasta con le braccia allacciate alla sua vita ancora un istante, senza dire niente, poi mamma si è staccata delicatamente e si è diretta verso l’armadio a muro. “Vestiamoci va’…” ha detto. Ha aperto l’armadio e ha fatto scivolare a terra l’accappatoio. L’ho guardata di spalle, nuda, che sceglieva i vestiti da indossare, e mi sono resa conto di non averla mai vista così. Le caviglie ancora così sottili, le gambe liscie, il culo, i fianchi, la cascata di capelli corvini sulla schiena. Confesso di averci ripensato quella sera. Da sola, al buio, nel mio letto, dove i contorni del mondo reale sfumano nello sfondo indistinto dei so-gni. L’immagine di mia madre nuda di fronte a me continuava a restarmi impressa nella mente, e la mia mano viaggiava meccanica verso l’orlo delle mutandine. La mattina dopo non ho incrociato mia madre per niente; dormiva quando sono uscita per andare a scuola. A pranzo, tra il rimbombo del televisore e i soliti discorsi di mio padre sull’inefficienza dei trasporti pubblici l’ho guardata, mia madre. Mi sono soffermata sui particolari, quelli a cui abitualmente non si fa mai caso più di tanto. La traccia di rossetto sulle labbra, i denti bianchi come quelli delle pubblicità, la linea dolce del mento, il piccolo neo sullo zigomo sinistro. Mamma ogni tanto incrociava il mio sguardo, e mi sorrideva. La pasta al forno che masticavo mi sembrava non avere alcun sapore. Mi sono chiusa in camera e ho messo a palla gli Audioslave, per non pensare. Ho aperto la finestra, in cerca di una ventata di aria fredda sulla faccia. Mi sentivo strana, come impasticcata. Sull’orlo di un accogliente burrone di panna montata. Dopo due ore perse su paragrafi di Storia che mi sembravano geroglifici sono uscita dalla stanza quasi barcollando, come i morti viventi di Romero. Mia madre era sul divano del salotto, davanti alla tv, Daniele che poppava dal suo seno. L’ho guardata come un miraggio, e lei ha alzato gli occhi su di me. “Ehi…L’ometto ha appena finito la sua razione” ha detto. Mi sono avvicinata come in trance. Mamma ha staccato delicatamente Daniele dal suo seno e lo ha adagiato nella carrozzina lì vicino. “Ecco qua…” ha sussurrato con un sorriso. Si è rimessa seduta sul divano e io non riuscivo a staccare gli occhi da quelle tette che prorompevano dalla camicetta sbottonata. Gonfie come nuvole di pioggia, misteriose come pianeti in orbita. Una era ancora imperniata di goccioline di latte. “C’è rimasto…un po’ di latte…” ho farfugliato. “Dove?” Mamma ha seguito il mio sguardo imbambolato e si è passata un dito sul seno, a raccogliere le gocce. “Chissà com’era…” ho detto. “Cosa?” ha chiesto lei. Non riuscivo a guardarla negli occhi. “Prendere il latte appena nati…Non me lo ricordo per niente. “ Mamma ha riso, piano. “Che scema…Certo che non te lo ricordi” ha detto. “Chissà che gusto aveva…” Mamma mi ha guardato in silenzio, l’accenno di un sorriso sulle labbra. Poi mi ha offerto il dito bagnato di latte. “Prova” ha detto. Ma era in tono scherzoso, non diceva sul serio. Io però non ero in grado di distinguere, avevo la testa leggera come un pallone aerostatico. Le ho afferrato la mano e mi sono messa il dito in bocca. Mamma d’istinto ha cercato di ritrarlo, ma io l’ho trattenuto. E ho cominciato a succhiarlo invasata, come un ciuccio. “Elena…” Ho continuato a ciucciare per qualche secondo, poi il barlume di razionalità rimasto nel mio cervello, isolato come la particella di sodio(o era iodio? azoto? non mi ricordo più)nell’acqua minerale, si è fatto sentire. Mi sono staccata il dito dalla bocca e mamma lo ha ritratto, delicatamente. Non riuscivo ad alzare gli occhi su di lei, mi veniva da piangere. “Elena…Elena che c’è?” mi ha chiesto, preoccupata. L’ho guardata. Quei capelli neri lucenti, gli occhi verdi, la bocca leggermente incurvata, la linea del collo, la nudità di una spalla, e quelle tette tonde e cariche di latte…Mi è sembrata bellissima, come una dea. “Mamma…” sono riuscita a sussurrare. “Che c’è amore?” Voglio succhiarti le tette. L’ho pensato ma non l’ho detto. Non avevo perso il controllo fino a quel punto. O forse l’avevo perso al punto tale da non riuscire a proferire parola. L’ho fissata in silenzio come un’idiota, poi lei si è chinata verso di me e mi ha accarezzato il viso. “Elena mi stai facendo preoccupare…” Ho chiuso un istante gli occhi, mentre lei mi accarezzava una guancia. Sentire quella mano che mi toccava mi dava un brivido lungo la schiena, come mi capita ogni tanto con Jessica, la shampista, quando mi massaggia la testa sotto il getto d’acqua tiepida. Ho abbracciato le ginocchia di mamma e ho affondata la testa nel suo grembo, abbandonata come una bambina. “Elena…” Mamma mi accarezzava la testa, come per farmi stare buona, e io ho cominciato ad accarezzarle le gambe. Sentivo la sua pelle liscia, dai polpacci fino alle caviglie, alla curva del tallone. Sono risalita fino all’orlo della gonna, le ho tirato su la stoffa e ho infilato le mani ad accarezzarle le cosce. “Elena…” Adesso la sua voce aveva un tono sorpreso. Era come se non fossi più in me, se mi stessi guardando dall’esterno. Ho continuato ad accarezzarle le cosce, mamma mi teneva le mani sulle spalle, tesa, ma non si muoveva. Allora sono scesa con la bocca ad assaggiare quella pelle liscia così salata, così buona. Le ho baciato le ginocchia, le tibie, sono scesa fino alle caviglie e ai piedi infilati nelle ciabatte di gomma blu. Le ho percorso con la lingua una gamba di nuovo su, fino al ginocchio, ho spinto le mani ancora oltre, tra le sue cosce e il cuscino, tentando di arrivare al culo. “Elena…” la voce di mamma all’improvviso si era fatta roca. Quasi un sussurro. Adesso sembrava lei la bambina e io ho trovato la forza di guardarla. Credo di avere anche sorriso. “Che stai facendo?” mi ha chiesto. Mi riprendevo la mia mamma, che domande. Solo perché non sono una mocciosa che strilla in una culla non vuol dire che non ho bisogno del suo amore, no? Del suo corpo, del suo calore, dei suoi baci…L’ho abbracciata per la vita e l’ho guardata negli occhi, senza dire niente. Le ho accarezzato la schiena, infilando la mano sotto la camicetta aperta, e mamma si è lasciata sfuggire un sospiro. Era abbastanza per me. Mi sono tuffata sulle sue tette e ho iniziato a succhiargliele, a morderle, a baciarle. La pelle salata, i capezzoli turgidi e il latte, e una nebbia rosa nel cervello dolce come zucchero filato. Non mi sentivo più in me. Leccavo, baciavo, mamma gemeva, l’ho accarezzata fino a sotto le ascelle, per sentire il calore e il sudore, il sapore di quel corpo meraviglioso che volevo mangiare. Mamma mi ha messo le mani sulla testa, le ho succhiato un pollice e l’ho guardata, gli occhi lucidi, il respiro spezzato. Le ho palpato le tette a piene mani e l’ho baciata sulla bocca. Cioè, più che baciarla l’ho leccata, sulle guance, sulle labbra, sul mento, sul collo. “Amore mio…” ha sussurrato mamma, alzando gli occhi al soffitto. Poi mi ha guardato di nuovo e le ho infilato la lingua in bocca, abbracciandola. Mamma ha risposto al bacio, è stato dolcissimo. L’ho spinta sul divano senza staccare le labbra e mi sono sdraiata sopra di lei. La volevo tanto, ero come drogata di lei, mi rendo conto che è impossibile rendere l’idea a parole. Era come un desiderio di fusione, il sogno folle di un amore nucleare. La baciavo, la mordevo e la accarezzavo dappertutto:le cosce, le tette, il culo. Ero strafatta di lei, ma c’era ancora una cosa che volevo. Mi sono staccata dalla sua lingua e dalla sua saliva e sono scesa a strapparle le mutande. Gliele ho proprio strappate, credo che quell’elastico non valesse granchè. Erano già bagnate, cariche di umori, e quell’odore mi faceva impazzire. Mamma non ha detto niente, forse adesso era anche lei nel mondo morbidoso di Venere;si è limitata ad allargare le gambe, offrendomi tutta sé stessa. Il fiore, la fessura, il buco, la porta dimensionale dalla quale ero passata per fare il mio ingresso in questo mondo devastato e dalla quale adesso volevo rientrare per rituffarmi nel paradiso caramelloso del suo utero universale. L e ho affondato la faccia nella fica e ho leccato fino a non sentire più la lingua. Le mani salde sotto il suo culo imperiale, la bocca a ventosa su quel clitoride magnifico come l’oblio, tutti i sensi concentrati ad aspirare ogni sapore, ogni contatto, ogni odore. La mamma era sotto di me, gemente e dispersa come un naufrago, e io ero dentro di lei, innamorata fino alla follia, risucchiata alla velocità della luce da un vortice nell’iperspazio. Mio fratello nella culla ha ricominciato a piangere, ma a chi fregava più?La mamma stava facendo l’amore con me adesso, sua figlia, l’unica che la capisce davvero, l’unica con cui può condividere quel sentimento tanto speciale, quel legame d’acciaio di calore e sudore, sesso sfrenato e amore dolcissimo, sconfinato. Sono io l’unica che può scoparsi la mamma. Che credevi, fratellino, che con una smorfia e quattro strilli ti potevi garantire una poppata a vita? Ah!Ah!Ah!Ah! Ah!Impara a crescere, stronzetto…
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