i sveglio che sono le otto e trenta del mattino. Apro gli occhi e voltandomi mi accorgo che mia moglie è già andata via. È sempre più difficile restare da soli, avere momenti d’intimità e scambiarci effusioni d’amore. Un amore che non s’è mai assopito in tutti questi anni, che è ancora vivo come il primo mese che ci siamo messi assieme, dopo che ci eravamo corteggiati per interminabili settimane. Dovrei aspettare la telefonata dall’ufficio, prima di recarmi al lavoro. Dovrei aspettare la chiamata di Alessia che mi comunichi l’arrivo dei genitori della test, prima di mettermi a lavoro. Ma sto valutando seriamente la possibilità di alzarmi dal letto e dirigermi alla centrale, non ce la faccio a restarmene solo in casa senza avere Maria tra i piedi, senza avere il suo corpo da ammirare, la sua bocca da baciare. Senza avere la sua pelle da accarezzare ed annusare aspirandone il profumo di muschio, vellutato, l’odore inebriante dei suoi capelli. Mi alzo e nudo, come solitamente dormo, raggiungo l’armadio per scegliere i vestiti da indossare. Prima che possa compiere una qualsiasi scelta, squilla il telefono sul comodino. Lo raggiungo e porto la cornetta all’orecchio. “Si?” domando. “Il detective Roma?” chiede una voce femminile dall’altra parte della cornetta. “Sono proprio io. Chi è che parla?” domando. Attraverso la finestra guardo il luccichio del sole sulle onde. Ringraziando Dio oggi sarà una bella giornata. Niente umidità, niente pioggia ad inzupparti. “Sono Barbara Palmer”. Forse la nostra test è riuscita a trovare il modo per farmi entrare nell’esclusivo club del quale lei e la sua amica facevano parte. “Mi dica…” “Sono riuscita a farle avere un contatto. Ma sarà sottoposto ad una sorta di valutazione da parte dei soci fondatori del club”. Mi spiega la ragazza. Non ho certo paura dei loro giudizi, e poi, del resto, non ho altre alternative. La strada da seguire è stata scelta, non mi resta altro da fare che percorrerla. “…la accompagnerò io” continua a dire la ragazza dall’altra parte del telefono, “…l’appuntamento è per stasera alle 22, può passare a prendermi intorno alle 20 a casa mia, se non le dispiace. Oppure può dirmi lei stesso dove possiamo incontrarci”. Dopo l’omicidio la casa dove alloggiavano le due ragazze era stata messa sotto sequestro da parte della polizia, così avevamo provveduto ad affittarle, a spese dello stato, un monolocale poco distante dalla centrale, su al Financial District. “Va benissimo. Ci vediamo stasera alla 20, si faccia trovare pronta”. Poi ci salutiamo e, dopo aver riagganciato il telefono, mi dedico nuovamente all’abbigliamento che dovrò indossare, questa volta stando bene attento a quello che dovrò mettere per l’occasione. *** La giornata è trascorsa nell’attesa, aspettando il momento in cui sarei andato a prendere Barbara al suo appartamento. Me ne sono rimasto per tutto il tempo in casa, in completa solitudine, senza nemmeno recarmi alla centrale, fino ad un attimo prima che tornasse mia figlia dall’università. Avevo bisogno di restarmene da solo, di riflettere sul lavoro che dovevo compiere. Arrivo al Financial District, in Water Street, davanti il palazzo dove avrebbe vissuto Barbara per qualche giorno, alle otto meno dieci. La città è già illuminata, da un bel po’, dalle luci artificiali. Le lunghe giornate estive sono ormai un ricordo che lentamente si assopirà fino alla prossima primavera. Scendo dalla BMW e suono al citofono. “Sto scendendo” è la risposta immediata della ragazza che, evidentemente, m’ha visto arrivare attraverso la finestra del suo monolocale. Per la serata ho indossato un completo grigio, con mocassini marroni, che mi conferisce un’aria molto professorale. Dopo circa un paio di minuti il portoncino d’ingresso del palazzo si apre sul marciapiede. Le strade sono ancora affollate, ma ben presto saranno pressoché deserte. Quando i riflettori si spengono sul distretto finanziario di Manhattan e i manager e finanzieri tornano a casa, per le strade del Financial District rimane ben poca gente, almeno rispetto alle altre aree dell’isola. Quello che viene fuori dall’atrio del palazzo è uno splendido esemplare di femmina orientale con una forte e densa carica sessuale tale da risvegliare un morto. Ha indossato una minigonna bianca molto corta, ornata in vita da una larga cintura nera; e un toppino celeste a bretelline, molto aderente da risaltare i seni di medie dimensioni che ha lasciato liberi dal reggiseno e dei quali s’intravedono, attraverso la stoffa del sottile indumento, i capezzoli eretti. Resto praticamente a bocca aperta mentre lei esce dall’atrio del palazzo e si chiude la porta alle spalle. Ha una carica sensuale straordinaria alla quale nessun uomo sarebbe in grado di resistere. “Andiamo?” domanda. Certamente ha notato il mio sguardo inebetito, l’espressione imbambolata che ancora mi resta stampata in viso. “Okay… andiamo” dico incamminandomi verso la vettura parcheggiata lungo il bordo della strada. L’aria della sera è frizzantina, ed il cielo è punteggiato da miliardi di stelle. “Dov’è che dobbiamo andare?” le chiedo una volta che siamo saliti in auto. “Ci vorrà un po’ di tempo. È fuori città, comunque” mi spiega. Avvio il motore ed accendo le luci. “…intanto raggiungi la FDR Drive imboccandola verso nord”. Ingrano la prima e parto lentamente. L’appuntamento coi gestori del club era stato fissato per le 22 e, molto probabilmente, avremmo impiegato almeno un paio di ore per raggiungere il luogo stabilito. “Dov’è che v’incontrate?” le domando voltandomi a guardarla per un momento. “E’ una villetta. Vedrai ti piacerà, è un bel posto” spiega con un sorriso malizioso che le colora il viso. Le luci artificiali di Manhattan illuminano ad intermittenza le cosce scoperte di Barbara. Nel sedersi la minigonna è risalita lungo le cosce rivelando una generosa porzione di pelle. Svolto a destra su Wall Street che percorro, poi, fino a raggiungere la South Street della quale attraverso l’incrocio proseguendo dritto per poter raggiungere le rampe d’ingresso della FDR Drive. Di tanto in tanto, mentre guido, distolgo lo sguardo dalla strada per rivolgerlo alle cosce della ragazza che mi siede accanto. Certamente s’è accorta delle occhiate bramose che le rivolgo, tanto è che allarga le gambe leggermente, quasi andando a mostrarmi gli slip. Che si sia accorta del mio sguardo famelico lo capisco anche dagli sguardi maliziosi che mi lancia quelle poche volte che, distogliendo lo sguardo dalla strada, lo rivolgo al suo viso che puntualmente si trova fissato al mio. “Quanto tempo ci vorrà per arrivare dove stiamo andando?” le chiedo voltandomi a guardarla. “A quest’andatura circa un’ora” risponde sorridendomi. Guardo il tachimetro e mi rendo conto che sto viaggiando a più di centocinquanta chilometri orari. Sorrido mentre, con l’indicatore di direzione sinistro azionato, sorpasso una Camaro percorrendo l’ultima corsia sinistra dell’autostrada. Ora, nell’abitacolo, è praticamente buio, eccetto per l’illuminazione del cruscotto che comunque non riesce a farmi vedere le sue cosce. Devo accontentarmi delle poche volte che i fari di un’auto appena sorpassata riescono a schiarire, anche se in maniera quasi impercettibile, l’abitacolo della BMW. “La vuoi sapere una cosa?”. Ora è passata a darmi del tu. “Dimmi” rispondo, questa volta senza distogliere lo sguardo dalla strada. “Non riuscirai mai ad immaginare la sensazione che si prova nel sentire lo sguardo avido di un uomo su di te, soprattutto quando questo uomo non è un tuo coetaneo sbarbatello, ma è un vero uomo, con tanta esperienza alle spalle, un uomo che conosce alla perfezione come farti sentire donna”. “Beh, si vede che sarò costretto a non riuscire mai a comprendere cosa si provi”. “Credo sia la stessa sensazione, come intensità, almeno, che voi uomini provate nel conquistare una donna di gran lunga più giovane di voi. Sono le due metà della stessa mela. Non trovi?”. Certo che trovavo, cazzo. E soprattutto trovavo arrapante il suo corpo, le sue cosce lunghe, i suoi seni tondi, sodi, duri come mele acerbe. Trovavo arrapante il suo volto ovale e gli occhi a mandorla, lo sguardo provocante carico di sensualità e di una fame di sesso che sarebbe stata capace di scaraventarti all’inferno. “cos’è… non parli più?” domanda accendendo, poi, la luce sopra lo specchietto retrovisore. La minigonna è risalita ancor più lungo le sue cosce ed ora si riesce a scorgere il colore candido delle sue mutandine. Deglutisco a fatica, mentre i miei occhi si posano sulla parte alta delle cosce tornite, mentre il cazzo mi guizza improvviso dentro ai pantaloni. “…vedo che non ti sono indifferente” dice appoggiando, subito dopo, la mano all’altezza della mia patta. Stringe nel pugno il mio arnese duro per sfiorarlo, poi, dolcemente e percorrerlo lungo tutta la sua lunghezza fino a raggiungere i testicoli e stringerli nella mano sinistra. Allunga anche l’altra mano ed inizia ad armeggiare con la patta nel tentativo di tirare giù la zip e far fuoriuscire la mazza turgida. “Cos’hai intenzione di fare?” domando preoccupato di sporcare, in qualche maniera, la mia immagine di poliziotto integerrimo. “Se davvero vuoi entrare nel club devi essere pronto a tutto”. Mi sorride in maniera provocatoria. Poi, finalmente, riesce a liberare il batacchio turgido che guizza nell’aria come un pupazzo a molla. “Hai davvero un bel pennacchio” sorride mentre inizia ad accarezzare l’asta turgida lungo tutta la sua lunghezza. Tira la pelle all’indietro e libera il glande paonazzo. Non è molto agevole guidare in quello stato, così rallento e mi porto sulla corsia di destra. “Oh mio Dio” esclamo mentre guardo la sua testa abbassarsi pericolosamente verso il mio inguine, mentre avverto la sua bocca dischiudersi e poi chiudersi attorno alla mia erezione, accompagnando i movimenti del capo con dei sapienti colpi di lingua. È la prima volta che una mi spompina in auto, in autostrada a cento chilometri orari. È una bella sensazione la sua bocca attorno al mio uccello. Ci sto prendendo sempre più gusto, quasi dimenticandomi di stare a guidare in autostrada. Lascio il volante con la destra e continuo a tenerlo soltanto con la sinistra, mentre la mano finalmente libera si posa sul suo capo. Accompagno i movimenti della sua bocca. Sono passati pochissimi minuti da quando ha iniziato a lavorarmi con la bocca e già avverto l’orgasmo montare. È questione di attimi, poi me ne vengo con spasmi violenti e densi spruzzi infondo alla sua gola. Ingoia ogni goccia del mio seme. Poi, quando l’orgasmo è finito, si alza e mi sorride, mentre l’angolo destro della bocca è sporcato da una goccia di sborra. “Avevo una gran sete… e poi non potevo permettermi di sporcarti la macchina”. Sorride e si accomoda, appoggiando la schiena, sullo schienale del suo sedile. Dopo circa un’ora e mezza di viaggio abbiamo abbandonato Manhattan e l’autostrada, raggiungendo il continente. Le luci di New York sono lontane dietro di noi, mentre la strada statale si snoda lungo la campagna che circonda la grande mela. “Quando manca?” chiedo alla mia accompagnatrice. “Poco…”. Dalla borsetta tira fuori un pacchetto di sigarette e se ne accende una. “…alla prossima, svolta a destra” dice aspirando una boccata di fumo dalla sua Camel Light. I fari della BMW illuminano la strada che si srotola davanti a noi e si perdono nel fitto scuro che sovrasta la campagna che ci circonda. Dopo circa mezzo chilometro, sulla destra, una stretta strada di campagna sbuca sulla strada statale. Un vecchio cartello appeso ad uno degli alberi che sono all’ingresso della stradina avverte che quella è proprietà privata. Aziono l’indicatore destro e rallento per poter svoltare nella stradina. “E voi venivate ogni volta fino a qui?” chiedo perplesso. “No… solamente nelle occasioni importanti, tipo l’entrata nel club di un nuovo socio”. Spiega sorridendomi. Poi aspira un’altra boccata di fumo. Sarà l’oscurità della notte e l’attesa d’una situazione che non riesco a definire precisamente, ma avverto un leggero brivido percorrermi la schiena. La strada è praticamente deserta, come se fossimo lontani dagli uomini e da Dio. Imbocco la stretta strada sterrata. “E le altre volte dove vi riunivate?” chiedo continuando la conversazione che poco prima avevo cercato d’impostare, in modo da sapere più cose possibili su tutta quella faccenda. “A casa di qualcuno di noi… oppure affittavamo qualche appartamento a Manhattan, o qualche locale privato a Chelsea” spiega. A questo punto avrei bisogno pure io di una sigaretta. Continuo a guidare sullo sterrato, molto lentamente cercando di evitare più buche possibili, evitando così che possano danneggiare gli ammortizzatori della mia auto. Dopo circa ottocento metri di buche, curve e dossi che s’inoltrano nella campagna, scorgo le mura chiare di una costruzione al centro di un’ampia radura. “Eccola lì, siamo quasi arrivati” mi dice indicandomi la casa e spegnendo, poi, il mozzicone di sigaretta nel posacenere sotto allo stereo. Intorno a noi non c’è che campagna, e silenzio. Un silenzio ovattato, per certi versi innaturale. Niente canto dei grilli in sottofondo, soltanto il silenzio assordante della notte. Scendiamo dalla vettura. La costruzione è un grosso casolare di campagna, con mura spesse e recentemente ristrutturate. Il grosso portone in legno è chiuso. Ad illuminarci il cammino è un grosso faro che illumina lo spiazzo antistante la casa dove sono parcheggiate anche altre vetture che, come posso notare, sono tutte di grossa cilindrata. Tutte persone benestanti. Non a caso la vittima dell’omicidio era un’universitaria con genitori dal grosso conto corrente bancario. Appena arriviamo davanti al portone, questo si apre con un forte cigolio. Ad accoglierci, oltre la soglia d’entrata, c’è un uomo sui cinquanta anni vestito con un abito blu scuro. “La stavamo aspettando, professor Roma” dice scostandosi di lato per farci passare. “…buonasera, signorina” aggiunge rivolgendosi al mio contatto. Oltre il portone attraversiamo una sorta di grosso atrio, aldilà del quale vi è un enorme cortile. Lungo il perimetro del cortile affacciano, su due piani, lungo tutti e quattro i lati, le stanze del casolare. Decine di finestre guardano all’interno del cortile illuminato con dei lampioni dalle luci arancione che donano allo spazio che mi si apre davanti un’atmosfera surreale. Attraversiamo il grosso cortile fino a raggiungere delle grosse scale che conducono ad un portoncino. Le saliamo ed entriamo nell’edificio. A destra del lungo e buio corridoio che mi si apre davanti, vi è una porta che è stata appena aperta dall’uomo che ci ha condotti fin qui. La stanza non è molto grossa, è lunga meno di cinque metri e larga appena un paio. Infondo alla stanza c’è una scrivania in legno massiccio e, addossata alla parete destra, una libreria su tre piani colmi di romanzi. “Prego, si accomodi” dice indicandomi delle sedie in legno massiccio davanti la scrivania, dietro la quale s’è appena accomodato. Accolgo l’invito e mi siedo sulla sedia a destra. “Mi sono permesso di frugare tra le sue carte, professore. Ma sa com’è? Bisogna assicurarsi di chi si ha di fronte, anche se ci è presentato da una nostra affezionata amica”. Indica, poi, la sedia a Barbara che si accomoda di fianco a me. “E cosa ne pensa?”. “Deve essere una persona deliziosa, e molto preparata se l’hanno accettata alla facoltà di psicologia di New York. Anche se da poche settimane, stando a quello che risulta dai suoi documenti”. “Si, infatti, fino a poco tempo prima ho insegnato in Canada, ma era arrivato il momento di tornare a casa” sorrido amichevolmente. “Abbiamo letto il suo curriculum” ricambia il sorriso. Come al solito, gli uomini alla centrale avevano fatto un buon lavoro creandomi una nuova identità ed una vita mai vissuta. “… abbiamo studiato attentamente i suoi documenti e, come potrà bene immaginare, siamo arrivati alla conclusione che lei aveva tutte le carte in regola per entrare a far parte del nostro club. Sa com’è? È un club molto particolare, e abbiamo bisogno di gente discreta, educata, e… come potrei dire? Progressista. Si. Progressista. Almeno per certi versi” aggiunge con un bel sorrisino allusivo stampato in viso. “…avevamo solo bisogno di conoscerla di persona. Ma credo che l’esito di quest’incontro sia alquanto positivo. Mancano solo due cose per il suo inserimento in questo club. “Già…” dico prendendo dalla tasca il carnet con gli assegni. Ne firmo uno da mille dollari. “…questa è la prima cosa… la seconda quale sarebbe?” chiedo. “Una specie di prova d’ingresso” mi sorride perfido. Mi volto a guardare Barbara, aspettando una sua spiegazione. Per tutta risposta alza semplicemente le spalle. “In cosa consisterebbe la prova?” domando. “Non si preoccupi, vedrà presto” Dice l’uomo alzandosi. “Prego… mi segua” aggiunge invitandomi ad andargli dietro. Raggiungiamo un piccolo spogliatoio poco distante dall’ufficio nel quale eravamo fino ad un attimo prima. “Si metta completamente nudo ed indossi quella tunica lì” m’indica un indumento appeso ad un attaccapanni. Esce dallo spogliatoio chiudendosi la porta alle spalle. Cazzo! Proprio non ci voleva sta storia della prova. Eppure devo dire che, nonostante la tensione, tutta questa faccenda m’ha messo una strana eccitazione addosso. L’ambiente nel quale mi trovo è freddo, niente termosifoni, niente stufetta che possa riscaldarmi mentre mi spoglio. Cerco di fare il più in fretta possibile, mentre mi svesto dell’abito stando attento a non sgualcirlo o sporcarlo. Infilo la tunica e mi guardo allo specchio. È un indumento di seta rosso, lungo fino ai piedi e stretto in vita da una cordicella che mi preoccupo di allacciare. La tunica ha anche un cappuccio che se calassi sulla testa mi coprirebbe completamente il viso lasciando visibili solo la bocca e gli occhi. Avverto i brividi, mentre mi guardo nello specchio così incappucciato con la pelle accarezzata dalla seta. E non è certamente il freddo a farmeli venire. Esco dallo spogliatoio togliendo, però, il cappuccio. “Credo sia più opportuno che lei lo indossi” dice l’uomo che, nel frattempo, s’è messo anche lui lo stesso tipo di abito, ma di colore nero. Obbedisco mentre anche lui si copre il viso. Non c’è più alcuna traccia di Barbara. Usciamo dall’edificio scendendo le scale del cortile che poi attraversiamo diretti verso destra. In un angolo del cortile, esattamente quello che dovrebbe essere a nord ovest, una ringhiera in ferro rivela la presenza di scale che scendono nel sottosuolo. Non mi sento a mio agio, ho quasi paura e, soprattutto, ho dovuto lasciare la pistola in macchina. Non so cosa mi aspetti di sotto, ma qualsiasi cosa sia non avrò alcun modo di difendermi, soprattutto se dovessero esserci troppe persone. L’unica cosa a consolarmi è il fatto che in centrale conoscono perfettamente la mia posizione. In ogni caso avrò dignitosa sepoltura, se le cose dovessero degenerare. Nonostante la tensione, e la leggera paura che di tanto in tanto mi attanaglia con crampi lo stomaco, provo anche una certa eccitazione. Eccitazione rivelata dal mio uccello che libero, senza costrizioni di mutande e pantaloni, sotto la tunica s’è drizzato gonfiando l’indumento di seta. Mi vergogno un po’, a dirla tutta. Ma è una reazione quasi involontaria. Le scale sono ripide e scendono per un paio di metri prima di svoltare a destra con un angolo di novanta gradi. Svoltiamo e mi si presentano almeno altri dieci metri di ripide scale. Le pareti, distanti poco più di un metro le une dalle altre, sono ornate da torce accese che ci illuminano il cammino. L’umidità inizia a farsi sentire, tanto che devo stare attento a non scivolare coi sandali che mi hanno fatto mettere. Ancora una volta le scale di pietra svoltano a destra con un angolo di novanta, solo che stavolta, alla fine dei gradini, vedo che si apre una stanza, probabilmente anch’essa illuminata da torce. Non mi sbagliavo. Le pareti di pietra viva sono illuminate con delle torce appese al muro in posizione obliqua. La stanza, molto ampia, deve essere grande quanto tutto il cortile. Porca puttana! Al centro della stanza c’è un enorme tavolo di pietra e, tenuta da due uomini anch’essi incappucciati con abiti rossi, una ragazza. È minuta, bassina. Indossa una maglietta a maniche lunghe nera, molto aderente da stringerle il seno quasi piatto. Indossa, poi, una minigonna di jeans, aderente nella parte alta, ma con pieghettoni sulle cosce. Delle calze completamente bianche le coprono le gambe. È davvero un gioco? Non ne sono più così convinto. “Bene, professore” dice l’uomo apostrofandomi., “…lei sa perfettamente cosa fare” dice afferrandomi l’uccello che ha continuato a starsene su per tutto il tempo. Chiudo gli occhi, deglutisco a fatica. Dio! Datemi una Marlboro. Nessuno mi vieta di tornare indietro. Eppure questa è l’unica occasione che ho per potermi infiltrare nel club. Che Dio mi perdoni. Avanzo verso il centro della stanza, verso la ragazza tenuta dai due. Mi avvicino ed allungo una mano per toccarle il viso. L’accarezzo e intanto le infilo il pollice in bocca. “Succhia” le ordino. Obbedisce senza esitazioni, al dire il vero poco preoccupata per quello che accadrà. Nel frattempo spingo l’uccello contro il suo ventre e glielo faccio sentire in tutta la sua durezza. Mi chino leggermente e la bacio sulla bocca, insinuandole, poi , la lingua nell’orifizio orale. La sua lingua risponde al mio bacio. “Non muoverla” ordino. Anche stavolta obbedisce e non risponde più ai miei baci, mentre le perlustro ogni anfratto della bocca con la lingua saettante. I due bestioni continuano a tenerla per le braccia, evitando così che possa muoversi in qualche maniera. Il batacchio sembra dovermi diventare sempre più duro, seppure una cosa del genere fosse possibile. E, devo ammetterlo, la situazione mi sta eccitando e non poco. Sento la stoffa della seta frusciare ad ogni movimento, mentre mi muovo per accarezzarla, per toccarle i seni minuscoli, quasi inesistenti se non fosse per due capezzoli che sento, attraverso la stoffa della maglietta, molto grossi e gonfi di eccitazione. Spingo il bacino verso di lei ed inizio a muovermi con movimenti lenti e regolari in modo da strusciarle l’arnese turgido contro la pancia, contro lo stomaco. Le afferro la mano e la porto al mio sesso. “Afferralo” le ordino mentre guardo il suo viso, finto innocente, illuminato dalla luce tremula e calda delle torce. Esegue il mio comando e stringe la mano, anch’essa sottile e minuta come il resto del suo corpo, attorno al mio scettro. “Ti piace?” domando… “…spero proprio di si, visto che è in ghingheri proprio per te” continuo a dire. Qualcuno deve aver fatto cenno ai due uomini di allontanarsi, visto che abbandonata la ragazza si fanno da parte scomparendo alle mie spalle. Dimentico che quello deve essere semplicemente un modo per entrare nel club, e mi faccio prendere dalla situazione avvertendo un’eccitazione che mai avevo assaporato prima d’ora. Pongo una mano sul suo capo e con forza la spingo verso il suolo, facendole comprendere che deve inginocchiarsi. Dopo pochi istanti di smarrimento comprende le mie intenzioni. Le calzette bianche toccano il suolo umido della cantina, mentre s’inginocchia con la bocca che arriva esattamente all’altezza del mio pacco. “Succhialo come fosse un bel lecca lecca” dico accarezzandole il capo e spingendole il viso verso la protuberanza provocata dal mio sesso. Tenta di alzare la tunica per mettere a nudo il grosso batacchio che sta sotto la stoffa di seta. “…no, fallo attraverso la stoffa” suggerisco. Mi guarda perplessa, ma quando le spingo con più vigore il capo verso l’ uccello, dischiude le labbra e si lascia scivolare il pene turgido in bocca. È una sensazione meravigliosa, indescrivibile, il contatto della sua bocca col mio pene avvolto nella seta. Cerca di succhiarlo alla meglio e nel farlo mi afferra le natiche spingendomi il bacino verso di lei. Il pompino va avanti per qualche minuto, prima che la faccia alzare, prima che l’afferri per le braccia e la metta a sedere sul tavolo di pietra. Inizio, con somma lentezza, il rituale della sua svestizione, mentre avverto sempre più insistente l’ eccitazione, ormai quasi dolorosa. Afferro i bordi della maglietta e, sempre molto lentamente, gustando il suono della stoffa sulla sua pelle, le sfilo l’indumento dalla testa. Sotto la maglietta non porta nient’altro, ed in effetti non ha certamente bisogno del reggiseno per tenere su le piccole mammelle. Mi chino su di lei e le bacio i capezzoli. Prima quello destro, poi il sinistro. Faccio cadere la maglietta al suolo. “Mettiti in piedi” dico continuando a restarmene incappucciato, come del resto hanno fatto anche gli altri nella stanza. Esegue e si volta di spalle, in modo da permettermi di sbottonarle la minigonna. Sotto il corto indumento ha messo degli slippini bianchi, molto piccoli e i cui bordi s’insinuano nello spazio tra le natiche. Le sfilo la minigonna e poi le mutandine, prima di avvicinarmi a baciare la chiappa destra, per poi passare alla sinistra. Per placare un poco la mia erezione mi tocco l’uccello stringendolo leggermente nella mano. Poi continuo a svestirla. Le abbasso le calze e finalmente nuda posso ammirare il corpo sodo e guizzante alla luce avvolgente delle torce. Una volta che si è girata posso ammirarle il sesso privo di peli, completamente depilato. Avvicino la bocca alla sua caverna e vi affondo la lingua, assaporando ogni goccia dei suoi umori, della sua eccitazione. La fighetta ha un sapore delicato, pungente e, per fortuna, con mio grande piacere, privo dall’odore di qualsiasi prodotto di protezione intima. L’afferro per i fianchi e la faccio sedere sul bordo del tavolo di pietra spalancandole le cosce prima di farla sdraiare sul dorso. Con la mano destra afferro la base del mio sesso e, con lentezza, avvicino la testa del batacchio all’entrata del suo corpo. Faccio penetrare il glande e poi spingo affondo infilando tutta la mazza nella sua vagina fradicia di umori, di eccitazione. Affondo dentro di lei con colpi sempre più veloci, sempre più profondi come a volerle sondare l’utero. I colpi sono accompagnati dai mugolii del suo piacere che in prossimità dell’orgasmo si trasformano in urla di godimento. Avverto l’orgasmo montare, lo sperma risalire attraverso i coglioni e raggiungere il glande per poi esplodere nella pancia della ragazza in densi spruzzi, con fiotti di caldo sperma che le riempiono l’utero. Dopo l’orgasmo me ne resto per qualche istante immobile, ancora chiuso dentro di lei. Poi, una volta che l’eccitazione è sbollita, mi ricompongo. Soddisfatta la ragazza si alza, raccoglie i suoi vestiti e lascia il centro della stanza. Mi guardo intorno e vedo che tutti gli altri, ancora incappucciati, cercano di ricomporsi e riacquistare dignità d’aspetto. Posso vedere macchie di sperma sul pavimento e, solo in prossimità delle figure che riconosco come donne, non noto alcuna strana umidità. “Bene, ora possiamo andare tutti quanti di sopra, e festeggiare con champagne e qualche dolcetto l’entrata nel club del nostro nuovo amico”. Le parole dell’uomo vestito di nero, che mi ha accompagnato fin qui nella cantina, rimbombano nel silenzio dello spazio. Lentamente, quasi mestamente, in una fila poco ordinata, lasciamo lo scantinato diretti ognuno nei diversi spogliatoi dove potremo rimettere i nostri vestiti.
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