Era ormai l’una, l’una di una delle tante notti in cui Jean rincasava da solo dopo l’ennesimo litigio con Giselle. Lei era bellissima ma terribilmente irrequieta come tutte le donne che sanno di avere tanti, forse troppi uomini ai loro piedi. Jean non ne poteva più. Era stanco di ingoiare bocconi amari, di mettere da parte, ancora una volta, la sua dignità e tornare indietro a riprenderla. Sapeva benissimo che Giselle era lì ad aspettarlo, tronfia del suo sconfinato potere. Non voleva dargliela vinta, almeno quella volta. Premette a fondo il piede sull’acceleratore e diresse la sua coupè fuori città. Non aveva voglia di tornare a casa. D’altronde Giselle l’avrebbe tempestato di telefonate e non aveva alcuna voglia di affrontarla, di ammettere che la sua dignità valesse meno del suo corpo, della sua bocca, dei suoi seni. Era passata circa un’ora da quando aveva lasciato la città e fu allora che accostando lungo il ciglio destro della strada scorse un cartello su cui vi era una freccia e la scritta “segui il tuo destino”. Pensò tra sé che suonava un po’ come presa in giro, ma, quasi inconsciamente, imboccò la strada che di lì a poco divenne un viale alberato. Percorse quel lungo e tortuoso viale per una decina di minuti che gli sembrarono interminabili fino a quando gli si presentò davanti agli occhi un ameno maniero anch’esso immerso negli alberi. Notò che c’erano una decina di automobili di grossa cilindrata parcheggiate non molto distanti da quello che ritenne fosse il portone d’ingresso. Il posto non era affatto accogliente e l’aura che aleggiava attorno ad esso era tutt’altro che rassicurante. Jean nonostante ne fosse per certi versi spaventato, sentiva crescere dentro di se un’attrazione irrefrenabile e in breve si accostò al portone lasciando cadere il grosso maniglione di bronzo posto su di esso. Il massiccio portale si aprì dopo qualche istante. Ad aprirgli però non vi era anima viva. Varcò la soglia del portale cercando qua e là qualcuno che potesse fargli capire dentro cosa fosse entrato. Gli interni erano di un colore rosso scarlatto con lunghi e sontuosi drappeggi che addobbavano con gusto le grandi finestre. Nel primo ampio salone erano disposti in modo ricercato un numero imprecisato di divani anch’essi di un rosso cupo. Avanzò con molti indugi. Attraversò un altro salone, poi ancora un altro e un altro ancora. Tutto attorno era silenzio e alla luce fioca delle torce le stanze di quel lussuoso maniero sembravano ancora più sinistre. Jean cominciava ad avere paura, ciononostante continuava ad addentrarsi nelle stanze più interne al castello. Nell’entrare nell’ennesima stanza vide finalmente una figura incappucciata venirgli incontro. Capì subito si trattasse di una donna. Sotto quel lungo saio riusciva a scorgere i suoi seni, il corpo esile ma dalle curve sinuose. Senza dire una parola gli fece cenno di seguirlo. Non riusciva ad opporsi a quello che stava succedendogli. Non gli sembrava vero che il razionale e avveduto Jean stesse seguendo una sconosciuta incappucciata in un castello chissà dove nella Provenza francese. La sua guida ben presto lo condusse in una sala in cui una dozzina di figure anch’esse incappucciate sedevano attorno ad una sorta di trono. Tra loro, quella seduta su di esso si alzò e disse con tono imperioso ai convenuti “il nostro re che tanto abbiamo atteso è tra noi, così come era scritto”. Jean sembrava pietrificato ed anche se provò a spiccicare qualche parola le labbra gli sembrarono come cucite tale e tanta era la tensione accumulata. La donna aggiunse “Sire, prenda il suo posto”e si allontanò andando a sedere poco distante. Jean timidamente sedette su quel sontuoso seggio che sovrastava la sala. Due donne incappucciate gli si fecero incontro strisciandogli fin sotto i piedi. Le loro voci bramanti desiderio lo invitavano a liberarsi dei vestiti. Una delle due, senza indugi, gli aveva liberato un piede da una scarpa e lasciava scorrere la sua lingua lungo le dita e fino a dove riusciva a scivolare nonostante l’ostacolo dei jeans. L’altra si era impadronita di un suo braccio e lo accarezzava facendo scorrere le sue lunghe unghie sulla camicia. Jean era in balia delle due donne che ben presto riuscirono a denudarlo. Fu invitato ad indossare anch’egli un saio rosso scarlatto. “sire” si levò una voce femminile, “noi siamo le sue serve, così come è scritto”. D’un tratto Jean realizzò che le figure incappucciate che aveva dinnanzi a sé erano tutte donne. “lei è il nostro re, il nostro padrone”, continuò la voce, “ha potere di vita e di morte su ciascuna di noi”. Jean non riusciva a credere alle sue orecchie. Stava vivendo una sorta di sogno. Aveva una dozzina di donne alla sua mercè, nessuna delle quali si sarebbe mai permessa di disobbedirgli. Giselle gli tornò prepotentemente nella testa, ma, fu soltanto un attimo. Poi, quasi rinfrancato di quanto gli era appena stato declamato ordinò alle sue nuove suddite di scoprire il capo liberandolo dal cappuccio. Le donne ubbidirono e lasciarono cadere le loro fluenti chiome liberamente sulle spalle. Chiamò a sé una che gli parve essere la più carina. La donna gli si inchinò in segno di assoluta devozione. Jean, ormai calato nella parte, afferrò la fulva testa della donna e la spinse con forza verso il suo cazzo. La donna cominciò a succhiarglielo riuscendo a malapena a respirare vista l’irruenza con cui Jean ormai le spingeva in gola la sua cappella. Di tanto in tanto le concedeva di prendere fiato ed era allora che la donna dava il meglio di sé leccando avidamente l’asta e raccogliendo, l’ormai paonazzo glande tra le guance solleticandolo con la lingua. Era quasi sul punto di venire quando puntò l’indice contro un’altra donna alla quale ordinò di smettere il saio. Questa volta la donna era mora, dalla vita stretta e dal culo esageratamente invitante. Le ordinò di chinarsi e di dargli le spalle. Con due dita le insalivò l’ano e con forza inaudita glielo infilò di colpo dentro fino alle palle. La donna gemeva contorcendosi e Jean la pompava con forza sprofondando sempre di più in quel meraviglioso orifizio di carne. Si sedette, poi, sul suo trono ed ordinò alla fulva, che nel frattempo aveva continuato da sotto a leccargli le palle mentre stantuffava la mora, a salirgli a gambe aperte sopra. La donna ubbidì offrendogli la sua fica calda e umida, ma, Jean voleva ben altro. Le divaricò le natiche in modo deciso e la penetrò con forza nell’altro orifizio. La donna saliva e scendeva lasciandosi impalare dal suo grosso cazzo. Non potendone più lo estrasse dal culo della malcapitata e ordinò alle due donne di inginocchiarsi davanti al suo scettro e terminare ciò che soltanto una delle due donne aveva cominciato prima. Fu allora che Jean riempì i loro visi e le loro bocche di calda sborra. La fulva lasciava che lo sperma le colasse sulla lingua per poi lasciarlo scivolare sulle palle di Jean per poi tornare a raccoglierlo nuovamente con la lingua. La mora ingoiava tutto senza farsi scivolare via neppure un fiotto. I lembi della sua bocca erano colanti di caldo seme e la fulva di tanto in tanto saettava con la sua lingua appropriandosene voracemente. Jean con gli occhi ancora fissi a guardare le due donne spartirsi gli schizzi del suo sperma cadde esausto sul trono e di lì a poco si addormentò. La mattina dopo il trillo del telefono lo destò improvvisamente. Era nel suo letto, aveva i suoi vestiti, le sue scarpe ai piedi. Afferrò la cornetta. Era Giselle. Le sue solite lagne, i suoi soliti rimbrotti. Appese dopo non molto rispondendo con monosillabi a tutte le sue domande. Si alzò ormai conscio che quello che ricordava non era altro che un meraviglioso sogno. Nell’alzarsi notò un indumento di colore amaranto adagiato su di una poltrona della sua camera da letto: era un saio dal cappuccio scarlatto.
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