Più di un’occasione mi sono trovata a fare i conti con quel diavoletto dispettoso che dimora in me. I suoi occhi nei miei ti guardano brillanti di scherzo e gioco. – mi piacerebbe sapere che ti passa per la testa- mi hai detto più di una volta e credo che neppure te fossi preparato alle Performance in cui mi sono prodotta quando sono ispirata. Purtroppo però, non sempre riesco rimanere nella linea di condotta che tu pretendi; capita di passare il segno. In quei casi molto dipende dal tuo stato d’animo e dalla gravità del gesto compiuto. Ricordo che non hai affatto gradito il piccolo, viscido serpentello di gomma, che ti sei trovato nel letto. Non hai colto il mio scherzo bonario e mi sono trovata con il fondoschiena scaldato dalle saette di cuoio sibilante che hanno lasciato sulla pelle segni per giorni. Per mia fortuna questa giocosità produce anche opportunità che tu apprezzi sinceramente: uno spogliarello per porgerti gli auguri, una romantica cena a lume di candela servita sul mio corpo, o essere la tua gattina morbida e carezzevole. In alcune occasioni però, sono io che mi trovo ad affrontare il “tuo” diavoletto”, che occulti così bene dentro di te che in pochi ti potrebbero attribuire: la sottile perfida ironia nei giochi, la ricerca di un piacere che va al di là del semplice gesto, la fantasia che ogni volta ci porta in una situazione diversa. È un atto che ristabilisce e traccia in modo netto il confine tra noi nel gioco e nel tipo di rapporto che viviamo. Confonde l’immagine calma e pacifica d’acque ferme, che invece nascondono misteri e segreti nelle proprie profondità, rendendoti ogni volta una curiosa, invitante meta da scoprire. Era una tersa giornata invernale. Il cielo azzurro senza nubi faceva da sfondo ai picchi innevati delle Alpi. Ci svegliammo sotto il calore del soffice piumino che ci avvolgeva. Mi girai verso di te e annullai la breve distanza che mi toglieva il piacere del tuo calore. Mi trovai da subito avviluppata nel tuo abbraccio e sorrisi nel silenzio del mio appagamento. Lentamente il tuo odore s’intrufolò nella mia mente, agitando mille campanelli, che entrando in vibrazione fecero tendere i muscoli e pelle. La tensione si allargò come un’onda di marea, placida ma inarrestabile, ai miei seni e al pube. Un calore che dal dentro saliva in lunghi brividi d’attesa. Mi schiacciai al torace, scodinzolando il sedere sulla tua eccitazione che giù premeva caldissima su di me. Le tue mani salirono ai capezzoli che ne urlavano la presenza, li stuzzicarono dapprima con lievi tocchi, che ebbero l’effetto di frustrare la mia urgenza, e poi ne presero il possesso con una decisione che mi dette un sospiro di gioia. Mugolai a labbra serrate il grido di piacere che le tue mani mi strapparono, facendo impennare la mia eccitazione in spire voluttuose. Mi voltai: avevo bisogno di sentirti, annusare l’odore dell’eccitazione, godermi il tuo sapore. Infilai le dita nella fitta peluria del tuo torace, ma ci giocai solo un attimo perché l’urgenza di averti spazzò via ogni preliminare di dolcezza a cui ci abbandoniamo volentieri. Ti baciai con trasporto e mi trovai issata su di te, impalata con un lungo sospiro, nel piacere che cercavo. Mi mossi lentamente, godendo di ogni istante, del calore. Del brivido. Del sentirti dentro che mi toccavi l’anima. I nostri occhi parlavano una loro voce, unica e inalterata da millenni: dell’uomo e della donna che si fondono in un’unica cosa. Ben presto quella danza atavica prese il sopravvento, dettando il suo ritmo e trascinandoci in alto in una esplosione di godimento che ci lasciò appagati e coperti di sudore. Mi accasciai su di te col fiato ancora corto, lunghi brividi mi scuotevano e ad un tratto sentii freddo. Quella sensazione stonata mi portò alla realtà come lo schiocco delle dita di un mago. Scivolai al tuo fianco. Le tue labbra mi cercarono sorridenti e morbide. Mi accorsi che mi ero addormentata solo quando la tua mani mi stuzzicò un capezzolo, facendomi emergere dal sonno in cui ero immersa. – sveglia micia pigrona! Andiamo sulla neve oggi! – Spalancai gli occhi tutta contenta. Adoro la neve, quel abbacinante luce che vi riflette, il profumo dell’aria di montagna e il freddo pungente. Eccitata come una bambina, scalciai le coperte e ti abbracciai e baciandoti con tutto il mio entusiasmo. Tu ridesti e non mi frenasti e finimmo a rotolarci nel letto come bambini. In tutta fretta mi preparai, senza tralasciare le tue precise istruzioni di sempre, ma evitando di perdere tempo, conoscendo a “pelle” la tua irritazione per i ritardi. Afferrai la giacca a vento e corsi nell’ingresso. Sorpresa mi accorsi che non c’eri. Perplessa tornai indietro ed entrai nel tuo studio. Tu eri lì, seduto vicino alla finestra perso in chissà quali pensieri. Ti voltasti lentamente e con un dolcissimo sorriso mi facesti segno di avvicinarmi. Ti osservai meglio e colsi un lieve crepitio nell’aria della stanza, una tensione latente che la elettrizzava. Qualcosa l’aveva creata….ma cosa? Mi avvicinai. Tu allungasti la mano, mi togliesti la giacca e la gettasti su una poltrona. Con gesti lenti e caldi iniziasti una deliziosa esplorazione del mio corpo che mi dette brividi inattesi. Sorrisi di quest’intermezzo. Con molta lentezza s’infilarono sotto il maglione e raggiunsero il seno, lo palparono. – togliti il reggiseno … – Sbattei gli occhi per la richiesta fuori luogo. Era tardi. e non era previsto niente che una semplice giornata sulla neve.. ma se voleva che mi togliessi il reggiseno per me non sarebbe stato certo un problema. Mi sfilai il golf e me lo tolsi. I miei seni ricaddero sui tuoi palmi come pomi maturi. Vidi con un brivido avvicinarsi la bocca ad uno dei capezzoli e tremai d’eccitazione. Trattenendo a stento un gridolino. – togliti la gonna .. – Scombussolata dalle forti emozioni rinunciai a “provare” a capire cosa volessi fare, d’altronde era la cosa migliore e più giusta: lasciare il mio corpo al tuo desiderio e fermare la mente. Feci scorrere la minigonna di lana lungo i fianchi e rimasi con i collant di lana nera. Mi passasti una mano sul pube e tra le gambe, ridacchiando ti accorgesti della mia eccitazione. – sei incorreggibile! Approfitti di libertà che non ti spettano! – il tono della voce era insolitamente tra il serio e il faceto. Qualcosa apparve tra le tue dita, ma non lo notai finché non sentii nettamente, il suono del taglio della lana al tassello: mi stavi aprendo il collant con un taglierino!!!!!!!!!! Mi tesi all’istante, mentre un leggero soffio d’aria investì le mie carni umide e calde messe allo scoperto. Le tue dita vi s’intrufolarono facendomi piegare le ginocchia dal piacere. – sei fradicia micia! Ti ho forse fatto concessioni che non mi ricordo? – mi chiedesti mantenendo la voce bassa e sensuale. E’ veramente difficile in quei momenti far ragionare a testa e formulare un pensiero concreto, in più ero confusa da quell’atteggiamento diverso. – …non mi pare … – mormorai temendo il suo no delle mie stesse parole: qualcosa di vago e lontano mi mise in allarme agitandomi – ECCO! Mi sembrava! – commentati senza mai fermare l’esplorazione che stava creando un dolce miele tra le mie gambe. – come mai ti sei presa la libertà di eccitarti senza il MIO permesso? – Il respiro mi perse un colpo. Lentamente sentii qualcosa di pesante scendermi sul petto. Abbassai lo sguardo evitando il tuo. Nella mente annebbiata si fece largo un pensiero, un vecchio ordine, dato molto tempo prima, ma mai verificato. Ingollai aria e voce. Non seppi cosa rispondere. Per istinto provai ad allontanarmi dalle tue mani che mi sconvolgevano, ma la presa ferrea su un fianco mi fece trasalire e restare dove ero. Dolore e piacere s fusero insieme, un’alchimia da sballo. – guardami ! – adesso il tuo tono era fermo e non lasciava dubbi. A fatica portai i miei occhi nei tuoi. – … mi hai chiesto il permesso di eccitarti? – le tue iridi mi bruciavano come la mano che ancora artigliava il fianco. Scossi la testa incapace di parlare. – RISPONDI! – ebbi un sussulto per l’impatto del tuo ordine. – …. No. – mormorai con un filo di voce stentato. – ti ho FORSE concesso, in un attimo di distrazione, la libertà di farlo? – -.. no.. – – ti ho detto o no che i miei ordini una volta dati restano gli stessi nel tempo, senza bisogno di doverteli elencare ogni volta? – -…si…- dovetti ammettere la mancanza che dentro feriva il mio orgoglio: mi ero dimenticata! – Come mai ora sei così? – sibilasti, mentre le tue dita si chiesero con violenza sul mio clitoride gonfio. L’urlo che mi uscì fu inatteso come il dolore che lo aveva provocato. Per poco non ti caddi addosso. Mi spingesti in piedi alzandoti tu stesso. – Sei davvero incorreggibile, micia! – mi sussurrasti scostando i capelli dalla nuca e affondandoci i denti. Rimasi immobile inebetita da una ridda di turbamenti. Ti sentii trafficare alle mie spalle. Non osai voltarmi per para di irritarti. Mi afferrasti dolcemente i polsi e li legasti dietro con qualche giro di corda ben stretta. Qualcosa poi sfiorò la mia faccia e una piccola pallina nera si appoggiò sulla mia bocca. Sapevo che avrei dovuto aprirla, ma quella costrizione m’irritava più di quanto riuscivo a gestire. – .micia apri, tanto sai che il modo lo trovo per mettertela.. – mi giunse la tua voce calda e leggermente perfida. – ti prego! Non griderò più! – implorai sperando di smuovere il tuo lato di “buono”. Oh lo so ! non sei però nella posizione di poter pregare e non è per questo motivo che te la metto. Mi piaci, quando la indossi. Mi piacciono i tuoi occhi che lanciano strali, mi piace e basta! Ora apri! – Analizzai ogni tua parola, espressione della voce e dedussi che era una battaglia persa in partenza. Lentamente socchiusi le labbra e la pallina mi fu forzata in bocca. Tutte le mie fibre urlarono la rivolta a quell’intrusione, ma furono tacitate, più che dal mio autocontrollo, dalle attese della tua prossima mossa. Tornasti di fronte a me stringendo un sacchetto scuro. Conoscevo bene il contenuto di quel sacchetto: erano le clips! Un lungo brivido mi scivolò per la schiena. Lo appoggiasti sulla sedia e mi bendasti. Sprofondai nel buio silenzioso che amplificava ogni percezione, l’attesa mi sconvolgeva l’anima. Sentii le labbra sui seni, mi tesi aspettando il morso diabolico delle clips che a momenti mi avrebbero stretto i capezzoli. Il freddo del metallo mi fece trasalire, ma riuscii a non far uscire un suono. Seguii il lento scorrere dell’anello, salire lungo le sottili aste delle pinzette delle clips, stringersi vicino alle punte, amplificando la fitta di dolore, che mi esplose in testa. Le tue mani scivolarono sulle mie braccia, leggere come piume, passarono sulle spalle, provando ad allentare la tensione, mentre la tua bocca mi lasciava una scia umida di baci sulla pelle. Il dolore scemò lentamente, aumentando la pressione al pube. Come lo avessi intuito, andasti a carezzarmi lì. Sobbalzai per la sorpresa e le clips mi ricordarono all’istante la loro pressante presenza. – piccola miciotta… mi prendesti in giro – hai un lago qua sotto..uhmm questo mi fa venire in mente molte idee. Purtroppo non abbiamo tempo. Le tue dita mi stavano portando pericolosamente vicino all’orgasmo. – voglio però essere sicuro che tu non dimentichi e stasera ti voglio così: pronta e calda! Ho in mente qualcosa che te lo farà ricordare… – Non sentii più le tue mani e persa dietro il mio piacere mugolai per la brusca interruzione. Fu solo un attimo. Sentii che prendevi la bustina e un secondo più tardi una fitta lancinante mi fece gridare. Sentii le tue braccia sostenermi, ma il dolore non mi dava respiro. Due minuscole clips di metallo mi avevano artigliato le piccole labbra ai lati del clitoride e il dolore era incredibile, da togliere il fiato. Più mi muovevo più aumentava. Perfino le clips ai seni parevano niente al confronto. Oltretutto l’essere in piedi aumentava il peso e il tirare verso il basso. Mi togliesti la benda, ma da quanto serravo le palpebre fu solo una sensazione tattile; nessuna luce filtrò fino ai miei occhi. I secondi passarono lentissimi. Respirai a fatica temendo anche quel leggero movimento. All’improvviso barcollai perché mi lasciasti e mi sentii perduta senza il tuo appoggio. Lacrime leggere colarono lungo le mie guance. Aprii gli occhi e vidi con sorpresa che ti eri di nuovo seduto di fronte a me, mi stavi fissando senza che alcun’emozione di trasparisse dal volto. Ebbi un momento di incertezza. Quello sguardo vuoto mi fece paura. Seguendo un istinto atavico cercai di raddrizzare le spalle, a fronteggiare, pronta all’inevitabile scossa di dolore che mi sarei provocata. Ce la feci e senza energia rimasi ferma a guardarti sperando di scorgere una luce, un brillio in quegli occhi fermi come acque di un lago. Dopo quella che mi parve un’eternità, afferrasti una sottilissima catena con un piccolo moschettone ad un’estremità. Ti piegasti verso di me che di scatto feci un mezzo passo indietro. Sollevasti appena lo sguardo, senza una parola, e furono quegli occhi a farmi tornare dove ero, a ricordarmi “chi” ero… Con movimenti precisi e senza alcuna fretta agganciasti il moschettone alla catenella che univa le clips alle piccole labbra e con delicatezza tirasti su facendo passare l’altra estremità nell’anello che univa l’altra catena delle clips dei seni. Trattenni il fiato seguendo ogni tua mossa, cercando di capire qual era il tuo fine. In un gesto quasi teatrale, lasciasti andare la catena che rimbalzò sulla mia pancia. Respirai velocemente per ammortizzare il colpo, la saliva si accumulò improvvisamente in bocca e iniziò a colarmi fuori di lato. Odiavo profondamente quella sgradevole situazione. Mi sentivo mortalmente umiliata di non riuscire a trattenerla. ma il dolore fu quasi insopportabile. Senza una sola parola afferrasti la gonna che ancora giaceva ai miei piedi e la tirasti su, rimettendola a posto. Spalancai gli occhi non volendo credere a quello che ormai era palese: mi avresti portato fuori in quel modo! Scossi la testa e tentai di slegarmi agitandomi e peggiorando la mia situazione. Capii subito che era stata una mossa assurda, ma quando mi faccio prendere dal panico, mi scatta qualcosa che non mi fa più ragionare lucidamente: rabbia ribellione ira mi travolgono. – più ti agiti e peggio è… – furono le uniche parole che dicesti, sistemandomi la gonna, facendo passare la catena oltre il bordo della vita e lasciandola ciondolare sopra come una cintura brillante. Ti alzasti e mi venisti di fronte inchiodandomi con uno sguardo brillante e vivido ma fermo. – ora ti slego i polsi. Prova solo un gesto e le tieni fino a stasera…- Il cuore nel petto pareva volermi uscire. Attendesti che recuperassi un minimo di controllo e mi sciogliesti le corde. Sentii appena la fitta dei muscoli contratti. Mi togliesti anche la gag-ball che mi fece sospirare di sollievo riattivando la deglutizione. Con molta attenzione m’infilasti il golf e mi porgesti la giacca a vento. Spalancai gli occhi incredula – non posso muovermi così! – protestai disperatamente – oh povera miciotta- esclamasti con un calore che quasi mi convinsi d’averla spuntata – puoi benissimo camminare! Solo non potrai fare una camminata stretta – Sogghignasti facendo crollare tutte le mie speranze uscendo risoluto dalla stanza. Sudata come dopo una lunga corsa, non riuscivo a decidermi di muovere il primo passo. Lottavo contro paure e preoccupazioni, mentre una sottile assurda eccitazione si stava impadronendo di me. Con infinita cautela mi voltai, sentii una fitta al pube che mi tolse il respiro. Il freddo del metallo sbatté sulla mia carne e mi ricordò la scomoda presenza di corpi estranei al mio. Un lento perverso bruciore mi stava percorrendo il corpo dal basso verso l’alto. La cosa era appena accettabile. Ancora immobile al lato dello studio sentii la tua voce che mi chiamava dall’ingresso. Esitai, ma iniziai ad infilarmi la giacca che non appena si appoggiò sui seni mi strappò un grido per il dolore che il solo sfiorarlo mi procurò. Nelle orecchie mi risuonava il tamburo del cuore, mentre goccioline di sudore andarono a bagnarmi la fronte. Mossi un passo e poi in altro e la mia mente registrò ogni piccola sensazione che provavo. La porta si chiuse alle mie spalle. – sono indeciso se scendere con l’ascensore o le scale… – mi dicesti pensieroso osservando di sottecchi la mia reazione. Ebbi un vuoto allo stomaco pensando di scendere i gradini e il pallore del mio viso fu più chiaro delle parole che non dissi. Sorridesti appena, mentre aprivi la porta dell’ascensore – che donna fortunata sei! Hai un padrone a cui sta a cuore il benessere della sua…. Proprietà! – marcasti di proposito sull’ultima parola studiando la mia reazione, ma mi forzai a rimanere in perfetto silenzio pur di non darti quella soddisfazione. Uscimmo fuori nell’aria frizzante. Alla macchina mi fermai fissando con orrore il sedile dove dovevo sedermi che mai mi era parso così basso. – non so se riuscirò ad entrare e sedermi! – piagnucolai come una bambina Sbuffasti ridacchiando – ti lamenti sempre!!! Non sei mai contenta! Si va in montagna… vuoi farti una sessantina di chilometri a piedi? Fai pure! – esclamasti e con la mano m’invitasti a farlo – Scegli pure come.. io vado in macchina! – detto questo entrasti in macchina e mettesti in moto. Strinsi i pugni e aprii lo sportello fissando con angoscia il comodo sedile vicino al tuo, “devo farlo” mi ripetei un paio di volte e alla fine mi sedetti. Solo qualche secondo dopo mi accorsi che avevo trattenuto il respiro, ma l’impatto fu meno traumatico di quello che mi aspettassi. Cercai una posizione che mi facesse stare più comoda possibile, ma le tue parole mi fecero irrigidire. – vedo che non ti è difficile ricordare di tenere le gambe aperte in mia presenza! – commentati ironico occhieggiando verso le mie ginocchia – sto pensando di adottare questo sistema ogni volta che andiamo in macchina.. !- Evitai di guardarti o i miei occhi avrebbero parlato per me. Partimmo e il breve viaggio fu nell’insieme piacevole. Rimanendo ferma il dolore fu sopportabile e feci molta attenzione ad evitare inutili movimenti. Tu invece trovasti ogni scusa per farmi muovere, se non fossi stata tanto tesa ci avrei riso, da quanto fu comico, ma in quel momento tutto avevo fuorché la voglia di ridere… In poco tempo arrivammo al posto stabilito. Scesi dalla macchina con estrema lentezza e ti seguii fino al ristorante. Il locale era stato ricavato dai fondi di una casa in mezzo al paese. Probabilmente era adibito a stalle negli anni passati e di quel periodo manteneva intatta l’aria rustica rurale. I pavimenti in pietra, le travi di legno massiccio a vista, i soffitti bassi, un paio di caminetti e delle stufe di terracotta rendevano l’ambiente accogliente e rilassante. I tavolini erano coperti da deliziose tovaglie bianche, mentre non c’era una sedia uguale ad un’altra. Su ciascun tavolo spiccava un vasetto di fiori. Sulle mensole dei camini, nelle nicchie dei muri e sui ripiani sparsi nel locale erano accumulati un po’ alla rinfusa sculture di legno intagliato e oggettini della vita contadina, strumenti di lavoro, pannocchie di mais. Dal piatto di una stadera attaccata ad una trave scendeva una rigogliosa pianta d’edera. Osservai il tutto dall’ingresso rimanendo molto colpita dall’atmosfera d’altri tempi, così accogliente e rilassante. Mi mossi con cautela. Alcune persone si voltarono a guardarci e mi parve che quegli sguardi potessero “bucare” i miei indumenti e vedere com’ero “sotto”. Avvampai, mentre un sottile disagio mi prese. Ti sfiorai appena e tu mi prendesti la mano sorridendo. Ebbi la certezza che tu capissi perfettamente come mi sentivo e ti divertissi un mondo del mio imbarazzo, restandomi però vicino. Vidi avvicinarsi una signora sorridente con indosso il classico abbigliamento candido da cuoca. La salutasti e fu chiaro che già vi conosceste. Lei non ti fece dire altro e ci condusse al nostro tavolo. Solo che non ci accompagnò ad un tavolo di quelli che vedevo, no, ci portò verso un angolo della sala dove d’un tratto scorsi come un buco dove scomparivano degli scalini. Mi voltai a guardarti in cerca di spiegazioni. Tu invece sorridesti facendomi segno di scendere. La signora si raccomandò di prestare attenzione che gli scalini erano consunti. e in effetti notai che erano scavati nella parte centrale, mi chiesi quanti passi li avevano calpestati nel corso dei decenni.. Scendemmo così al piano inferiore e lì parve davvero di essere entrati nel passato. Nell’aria aleggiava il classico sentore pungente di cantina. Le pareti erano scavate letteralmente nella roccia tanto che si vedevano chiaramente i segni dei picconi. Rimasi affascinata sugli ultimi scalini a guardare. La signora ci fece cenno di proseguire, ma io le passai dietro con l’intenzione di scoprire il resto del piano. Le luci basse e gialle rendevano il tutto un po’ cupo, ma con un che di conturbante. Il dolore andava e veniva, leggero o acuto come ogni volta che mi si ergevano i capezzoli. Il fiato s’inceppava e poco dopo riprendeva un ritmo regolare. Mi guardai intorno affascinata dall’atmosfera che quel posto mi creava dentro. La signora colse il mio sguardo e fu ben lieta di mostrarmi ogni angolo del posto. Vedemmo così le altre due piccole stanze sulle cui pareti erano ordinatamente disposte file di bottiglie impolverate dal tempo, dove qua e là si intravedevano nel chiaro scuro delle luci basse, cesti di frutta e verdure messe nelle gerle. Il tour fu presto finito e lei ci portò di fronte ad una porta di legno scurito dal tempo, le cui assi erano ruvide e tenute insieme da stanghe di ferro e bulloni a vista. Ebbi appena il tempo di notare che sulla porta c’era una finestrella, tipo le guardiole dei conventi, che lei aprì la porta e fummo investiti da una vampata di calore e luce. Rimasi attonita a fissare la piccola stanza rotonda al cui centro spiccava un tavolo accuratamente apparecchiato per due persone: un candelabro con le candele già accese brillava al centro, due calici lucenti, una rossa scarlatta adagiata su un lato una bottiglia di vino nel secchiello del ghiaccio. Mi voltai verso di te con gli occhi che mi brillavano di piacere e sorpresa. In quel momento dimenticai le clips, il freddo che saliva dai piedi fino al pube, del metallo che artigliava la carne tra le gambe. La donna si mise di lato e ci invitò ad entrare, soddisfatta della mia reazione e del tuo compiacimento. Feci il primo passo e mi sfuggi un’esclamazione, quando mi resi conto di essere su una lastra di vetro che fungeva da pavimento, un paio di metri sotto si vedeva la fine di quello che doveva essere stato un silos, la terra del fondo era coperta da luccicanti monetine. Mi fermai, mentre un senso d’ansia mi prese, quando mi parve di camminare nel vuoto. Un brivido m’increspò la pelle della schiena e una fitta dolorosa ai seni mi ricordò istantaneamente delle presenza delle clips. La tua mano calda si posò sulle spalle e mi spinse gentilmente avanti. La signora uscì e chiuse delicatamente la porta. Rimanemmo soli, io inchiodata vicino alla sedia te che mi fissavi. – allora che te ne pare? Ti piace la mia sorpresa? – mi chiedesti sorridendo Risposi al tuo sorriso imponendomi di superare il forte disagio che mi dava quel vetro sotto i piedi, il bruciore dei seni. – è bellissimo! -esclamai con sincerità perché ero rimasta davvero colpita dallo scenario di quel pranzo inatteso e inusuale. Mi porgesti la tua giacca che io presi velocemente per appenderla all’attaccapanni. Non ebbi il tempo di prevedere che le clips avrebbero di nuovo palesato la loro presenza che sussultai alla nuova fitta. Chiusi gli occhi ingollando il grido e il dolore che provai in quel momento. Sbirciai la tua espressione, ma niente trapelava dai tuoi occhi. Con estrema cautela mi tolsi anche io la giacca. Tornai al mio posto ma quando stavo x sedermi, mi chiedesti di avvicinarmi. Il tono di voce freddo mi mise sull’avviso che qualcosa stava cambiando. Trattenendo il fiato mi posi al tuo fianco. Tu iniziasti a spiegare con una voce molto tranquilla ma che non m’ingannò per un attimo. – questo locale è conosciuto oltre che per qualità della sua cucina, per questa saletta privata. Il cameriere che verrà con le portate busserà alla finestrella e da quella ci porgerà il vassoio, senza entrare. Saremo liberi d’essere e fare ciò che si vuole – gli occhi in quel momento ti brillarono giocosi – potrei perfino chiederti di spogliarti…tanto nessuno ti vedrebbe. Hai notato che la finestrella è posta molto più in basso del viso? È ad un’altezza che non permette di vedere altro le che mani di chi dà o riceve il vassoio. Molto studiata la cosa… – ridacchiasti soddisfatto. Mi sentii partecipe delle tue fantasie e la mia eccitazione ebbe un’impennata. Seguendo l’istinto mi chinai a baciarti, ma il grido che mi uscì dalle labbra smorzò per un attimo l’atmosfera calda della stanza. Ebbi uno scatto indietro, ma trovai la tua mano che m’impedì di allontanarmi. – dove vuoi andare piccola micia? Resta qui vicino a me… – Mi trovai in una posizione scomodissima con un dolore che mi riempì la bocca di saliva e il sudore che mi bagnò la fronte, mentre le tue labbra mi baciavano il collo e il viso. – stai qui piccola micia, il tuo leggero soffrire ti fa brillare gli occhi e ti rende più bella – sussurrasti dolcemente. Mi morsi le labbra cercando di respingere il dolore che sentivo per essere come mi volevi tu. Mi rialzasti e potei tirare un pochino il fiato. Infilasti una mano nella tasca e ne tirasti fuori una lunga catenina che agganciasti all’anello di quella che pendeva dalla mia vita. – vai fino alla porta per favore – quel tono leggermente formale mi causò un brivido di eccitazione. Con un mezzo sorriso accolsi la tua richiesta. Con molta con cautela mi mossi. Il mio cervello elaborò prima ancora di sentirle le conseguenze di quei passi. Sentii scorrere la catena sulla pancia e sullo stomaco, ma non fui preparata allo strappo, quando ad un passo dalla porta afferrasti la catena fermandola nel tuo palmo. Il grido mi si strozzò in gola facendomi retrocedere immediatamente. Per un attimo mi parve di vedere tutto attraverso un velo rosso. Sentii i battiti cupi del mio cuore risuonare impazziti negli orecchi. Ogni fibra si tese per arginare quel dolore così intenso che pareva non avere un epicentro, ma solo una chiazza pulsante di fuoco puro che bruciava tutto. Tentai di prendere fiato, ma il sollievo che cercavo non ci fu. Mi voltai verso di te, il viso che palesava la mia sofferenza. – allora? arriva fino alla porta! Devo ripetere le cose che ti dico? Hai problemi d’udito? – I tuoi occhi parvero trapassarmi. Sentii il bruciore tra le gambe marciarmi la carne e i seni diventare due globi ardenti e pulsanti. La mente iniziò a confondersi. Era come se quel dolore diffuso spazzasse perfino i pensieri. – muoviti! – il tono divenne basso e prometteva tempesta, ma ero come pietrificata, inchiodata a terra dal dolore e dall’ansia di provarne ancora. – vai alla porta!- scandisti lentamente in un tono se possibile più freddo, ma anche questo richiamo cadde nel vuoto. Ero nel panico totale. Ti fissavo, ma il corpo non rispondeva più ai miei comandi. Vidi come in un film a rallentatore ogni tua mossa. Le tue gambe flettersi nell’alzarsi, gli occhi glaciali che mi trapassavano, la mano che, mentre ti avvicinavi arrotolava nel palmo la catena, finché non mi fosti a pochi centimetri dal viso. Alzasti lentamente la mano con la catena e mi sentii tirare su fino a pensare che la carne si sarebbe lacerata. Mi alzai sulle punte dei piedi fin dove potevo nella speranza di alleggerire quella micidiale trazione. La tua mano arrivò fino alla mia bocca. Il panico di prima era niente alla confusione che stavo vivendo. Il dolore era diventato più profondo e non mi capacitavo in che modo lo stessi subendo senza impazzire. Qualcosa mi serpeggiava dentro.. in una parte di me che raramente si faceva sentire. Una parte così profonda e a volte scomoda che se ne restava in silenzio, ma che adesso emergeva sotto la tua spinta – baciala! – mi ordinasti con quel tono quasi metallico, estraneo alla tua persona. Per un attimo mi vidi in quell’assurda posizione: una ballerina in precario equilibrio sulle punte dei piedi, terrorizzata al solo pensiero che non avrei potuto resistere a lungo, e infine dover cedere alla gravità e poggiarmi sui talloni. E’ incredibile le energie che si scoprono del nostro corpo, quando è sotto stress. Ha risorse inaspettate, in quel caso disastrose perché mi permisero di rimanere a lungo sotto una tortura mai provata. Avvicinai le labbra e sfiorai il freddo metallo con un leggero bacio. Ero come sdoppiata, come se una parte di me guardasse l’altra che ubbidiva. – leccami la mano! Voglio sentire la tua gratitudine! – Mai avrei immaginato da te una tale fermezza degli intenti Mai la sottile perversa soddisfazione che in quel momento provavi, non almeno spinta fino a quel punto! La mia agitazione crebbe ogni minuto che passava, lentissimo, le dita dei piedi iniziavano a dolermi per la posizione e al più piccolo movimento delle gambe mi rispondeva un dolore acuto e irradiante che mi coprì in breve di sudore freddo. Ero terrorizzata che la pelle alla fine cedesse e si lacerasse sotto la stretta delle clips. Ansimando disperatamente leccai la tua mano, le dita, ma con orrore incrociai lo sguardo sadico che in quel momento animava i tuoi occhi: stavi muovendo la mano sotto la mia lingua, un giro di palmo e sentii la mia voce alzarsi in un grido violento. Mi parve che mi si stesse per strappare l’anima, le mani corsero alle tue spalle, mentre lacrime copiose mi tolsero la visuale. – toglimi le mani di dosso, micia! – capii perfettamente le parole, ma non accettai quell’ ordine disumano. Scossi la testa come una pazza singhiozzando. “Non posso, non posso” ripetevo nella mia mente. – TOGLI – LE – MANI – scandisti di nuovo Tra le lacrime vidi le MIE mani scorrere docilmente sulle tue spalle, sulla lana del maglione. Ero ormai preda di uno stato confusionale che non avevo mai provato prima. Lasciai che il dolore mi attraversasse, ma il fisico non rispondeva più in modo logico e sentii scemare ogni controllo… – Pa…Pa..drone … – mi sentii balbettare Sentii il tuo sorriso nella voce, quando mi sussurrasti agli orecchi – si piccola micia? – – potresti allentare la presa? Chiesi serrando gli occhi nello sforzo sempre più difficile di non arrendermi e appoggiare i piedi a terra. – visto che me lo chiedi, devo dedurre che sei arrivata ad un tuo limite.. – commentasti pensoso ma senza accennare alcun gesto della mano – …. Mi pare che uno dei nostri fini era quello di riuscire a superare certi limiti. Ora mi chiedo: è giusto che assecondi una tale richiesta, quando sei così vicina ad un traguardo? – – Padrone .. – mormorai con la bocca impastata dalla frenesia di fermare quella tortura.. – non ce la faccio ad andare oltre…. – arrivai a supplicare, una cosa mai fatta prima, mentre una voglia sempre più urgente di dar voce alla mia frustrazione mi saliva dentro.. Non riuscivo più ad alzare la testa. Il tremito delle gambe divenne incontrollabile. Lentamente sentii i piedi scendere senza poter far altro che attendere il momento dello strappo finale. Quando sentii il freddo del pavimento credetti di svenire dal dolore, ma fu un solo attimo intensissimo. Un secondo dopo ero libera.. la tensione si era allentata di colpo: avevi lasciato la catena! In quel momento il desiderio più forte fu quello di baciarti ovunque. Una vampata di calore m’investì salendomi dal basso fino al viso. Il dolore era niente in confronto a quello che avevo provato poco prima, tutto mi parve sostenibile al paragone. Un sorriso dolce mosse le tue labbra, gli occhi lucidi di tenerezza mi carezzarono. Tornasti al tuo posto dopo una lunga occhiata d’apprezzamento. – vai fino alla porta… Ero ancora scossa dai tremiti, ma questa volta mi avviai fino al battente vincendo ad ogni passo l’ansia che mi coglieva nell’aspettarmi lo strappo. Arrivai invece fino in fondo senza sorprese. Toccai appena il legno dell’anta e mi dicesti di tornare a sedermi. Mi sedetti con una lentezza di cui ridacchiasti. Di lì a poco arrivò il cameriere con la prima portata. Alzai lo sguardo e ti fissai in attesa. – vai pure a prendere il vassoio, per favore…- Mi alzai fissando di sottecchi la mano che teneva la catena. Avevo ancora il respiro affrettato e il bruciore ai seni e al pube era a dei livelli appena accettabili. Ogni passo mi ricordava la presenza del ferro sulla mia pelle. Aprii la guardiola e presi il vassoio dalle mani anonime di una persona. Mormorai un ringraziamento e richiusi. Sempre con molta lentezza ti venni vicino e appoggiai sul tavolo il vassoio. – Servimi ! – ordinasti, mentre giocherellavi con la catena : il solo veder muovere quel luccichio di metallo mi dette i brividi. Respirai a fondo, ma senza farmi notare, non volevo che tu capissi quanto ero sconvolta e coinvolta nelle tue perverse fantasie. Con un sorriso ti servii le pietanze e tornai al mio posto. Stavo per sedermi, quando tirasti la catena. Inatteso mi giunse il contraccolpo. Sobbalzai all’improvviso piegandomi in avanti. – mi hai chiesto SE potevi tornare al tuo posto? Me ne hai forse chiesto il permesso? – non mi guardavi nemmeno. Tranquillamente stavi continuando a mangiare, mentre nella tua mano sinistra stringevi la catena. Scossi la testa in segno di diniego. – sei molto distratta nei miei confronti, micia. Hai intenzione di irritarmi o vuoi rendere questo pranzo una piacevole occasione? – Tornai a capo chino verso di te e mi fermai al tuo fianco. – hai intenzione di stare in piedi per tutto il pranzo o vuoi sederti mangiare? Il tuo silenzio mi urta. Forza! Allora? – esclamasti e quello scatto mi presa alla sprovvista. – po…posso sedermi ? – balbettai agitatissima – come? – ribattesti con molta freddezza – non ho capito bene cosa hai detto… – po ..po..posso sedermi?- dissi ancora, ma la mia mente sbatteva senza riuscire a capire cosa volevi da me. Mi sentii come una mosca finita dentro una bottiglia da cui non sa più uscire. Ti vidi appoggiare lentamente le posate ai fianchi del piatto. Respirasti a fondo e alzasti gli occhi verso di me. Impallidii a quello sguardo furioso. – lo stai facendo di proposito, micia? Perché sto seriamente arrabbiandomi!- sibilasti Caddi preda di una confusione che non avevo mai provato. Non riuscivo a capire perché l’agitazione stessa mi confondeva e la paura di sbagliare mi creava un circolo vizioso aumentando la confusione. – no! No! Non lo sto facendo apposta! – ti supplicai di credermi. Le mie però parole non ti convinsero, o non furono quelle che ti aspettavi. Ti vidi afferrare la catena e strattonarla. Il dolore mi esplose, feroce, addosso. – INGINOCCHIATI! – mi ordinasti Eseguii immediatamente l’ordine, ma tremavo come una foglia per il dolore e per l’ansia di non comprendere e subire la tua ira che stavo aumentando mio malgrado. Una parte di me poi, stava soffrendo per l’incapacità di non essere all’altezza di ciò che volevi che fossi. Era come una spina nel fianco e non mi dava pace. – ORA… chiedimi ancora il permesso e questa volta.. fa che sia espresso nel giusto modo!- Inginocchiata piegata nel mio essere capii finalmente la leggerezza che mi aveva portato a non capire e a sbagliare. Sollevata provai una sorta di felicità nel chiederti di nuovo – Padrone mi è permesso tornare al mio posto? – Silenzio. Un lungo infinito silenzio accompagnò la fine delle mie parole. La mia certezza tentennò di fronte a quel vuoto. Mi tesi, mentre lacrime dispettose mi pizzicarono gli occhi. – vai pure! – la tua voce mi giunse come una liberazione. – mi è concesso di alzarmi Padrone? – chiesi oramai convinta di essere sulla strada giusta Un semplice si detto con palesata noia mi sollevò dalla posizione di disagio in cui ero caduta. Con fatica mi alzai e tornai al mio posto. Avevo lo stomaco chiuso per la tensione degli ultimi momenti. Fissai il cibo ben disposto nel piatto, ma non riuscii a farmi venire la voglia di assaggiare qualcosa. – inizia a mangiare, micia …. – sempre attento a ciò che mi riguardava non lasciavi passare un solo gesto che non fosse vagliato e giudicato. – non ho fame, grazie.- risposi compunta senza alzare lo sguardo dal piatto. – micia guardami! … ho detto guardami! – fu il tono a costringermi ad alzare lo sguardo e fissare i tuoi occhi scuri. – serviti e mangia. Non esiste che fai la bambina! È inammissibile! Godiamoci queste delizie! Forza! – A fatica allungai il braccio e i servii una minuscola dose di cibo. Con la coda dell’occhio vidi che storcevi la bocca, ma ignorai il segnale di disapprovazione e mi sforzai di mangiare. Piluccai, giocando con la forchetta. La nausea mi scuoteva lo stomaco. Cercai di prendere tempo in ogni modo. Finalmente il cameriere bussò alla porta. Scattai in piedi con un sorriso. – chi ti ha detto di alzarti? Siediti e finisci il tuo antipasto! – dicesti senza batter ciglio. Spalancai gli occhi attonita. – ma… ma il cameriere? – – può aspettare. Muoviti! Prima finisci, prima lui fa il suo lavoro. – Il primo pensiero che formulai fu “bastardo”, fissai il piatto e poi te con uno sguardo che se avesse potuto avrebbe bruciato tutto. – non sparisce se lo fissi così- ridacchiasti serafico – né lui né io… ne parliamo più tardi, micia. Sto aspettando…. Sai che m’infastidisce vero? – In pochi bocconi finii quel delizioso sformato di verdure che mi parve paglia in quel momento. Ingollai a forza e mi alzai. Rimasi un attimo interdetta aspettandomi un richiamo per non aver ancora una volta chiesto il tuo permesso. Evidentemente fosti magnanimo e soprassedesti al mio piccolo errore. Raccolsi i piatti e li portai alla porta e ancora una volta due mani sconosciute li presero e scomparvero. Tornai al tavolo e venni a versarti del vino. Mi parve di vedere che apprezzasti il gesto sincero e lentamente sentii scemare un po’ della tensione che mi aggrovigliava dentro. Non fu semplice stare al tuo fianco e intuire le tue voglie o necessità, ma è anche vero che non lo è mai stato e questo per me è una sfida che raccolgo volentieri. È il cuore stesso del mio “bisogno”. Quello di essere al tuo fianco e di servirti come meglio posso, d’essere e sentirmi profondamente TUA. Le portate si susseguirono tra le nostre parole e i nostri sguardi. Eravamo al dessert, quando mi chiedesti di venirti vicino. Ingollai la domanda che mi venne alle labbra e senza fiatare eseguii quello che mi avevi chiesto. I tuoi occhi mi sorrisero compiaciuti, intuendo lo sforzo che ogni volta compivo di adattare a te il mio modo di essere. Vidi le tue mani carezzarmi le gambe. Lunghi brividi mi scivolarono sulla schiena a quel gesto così caldo e carico di sensualità. Risalirono lentamente, coprendo ogni centimetro di pelle che trovavano. Ti misi le braccia al collo abbracciandoti provando a farti sentire cosa provassi in quel momento. Un attimo più tardi un dolore bruciante mi lasciò senza fiato. Afferrai il tavolo perché credetti di cadere. Ti guardai in cerca di una spiegazione, mentre te stavi tranquillamente giocando con le clips che avevi preso tra le dita con fare distratto. Volevo una risposta che non c’era o che se ci fosse stata non era necessaria. Ricordai la lezione di poco prima, e non mi uscì una sola sillaba. Il sudore mi colò sul collo e mi si addensò nel solco tra i seni. I palmi divennero scivolosi, artigliati al bordo del tavolino, le nocche bianche dalla forza con cui mi ci attaccavo. La marea d’emozioni che quel giorno avevo vissuto mi si rovesciò addosso come una lava incandescente. Sofferenza frustrazione, doveri e obblighi, parole non potute dire e non dette, emozioni e sensazioni portate al parossismo, tutto accadde in un momento. Sono in quei momenti, quando ti senti come sull’orlo di un precipizio che pare ci si stacchi dallo scorrere del Tempo. Si rimane sospesi in una dimensione che non ha più riferimenti con il mondo circostante, si fluttua in noi stessi, verso il nostro interno, in antiche e ancestrali sensazioni che ti fanno toccare il tuo animo. Per donarsi si deve conoscere innanzi tutto noi stessi, scoprire i meandri della nostra anima e solo allora svuotarsi, riempire ogni gesto di una consapevolezza che lo renderà completo e corretto. Le tue dita adesso si erano spostate e titillavano il clitoride, con delicatezza disarmante. Una dolce inaspettata sensazione si fece largo tra i lampi rossi di quel dolore senza più limiti. Qualcosa che invece di togliere aria, stava creando un piacevole languore. Aprii gli occhi e incrociai i tuoi. Ebbi un lungo brivido. Le tue dita mi stavano regalando spire di piacere fluido che salivano inarrestabili dentro di me. Sempre più forti e incontrollabili: ero inebriata da quel continuo alternarsi di fortissime emozioni. Toccasti ancora le clips e quel dolore scatenò uno degli orgasmi più forti che io abbia mai provato. Caddi in uno stato di profonda estasi. Il dolore che provai, quando mi staccasti le clips, scosse di poco quello stato di grazia. Ricordo ancora vividamente l’abbraccio che sostenne il mio lento scivolare ai tuoi piedi, il sommesso ringraziarti di quel qualcosa d’indefinibile che lega la slave al Master. Ancora non pago, mi facesti inginocchiare, pur sapendo quanta difficoltà mi costasse quella posizione. Mi alzasti il viso che si protese verso le tue labbra che mi baciarono a lungo gustandosi ciò che era incondizionatamente suo. Sentii che mi alzasti il golf e strinsi i denti capendo cosa stavi per fare. I tuoi baci sigillarono l’esclamazione, quando mi togliesti anche le ultime due clips dai seni. Mi abbracciati forte da togliermi il fiato e mi sentii sciogliere. Mi lasciasti andare e ti chiesi il permesso di alzarmi. A fatica mi rimisi in piedi: la magia galleggiava ancora nell’aria, calda e lucente della stanza. Mi sedetti ancora indolenzita al mio posto di fronte a te. Ti guardai cercando le parole per dirti quello che avevo provato. Che tu mi avevi fatto provare! Ma non ci fu bisogno di nessun suono. Mi sorridesti come solo in certi momenti avviene e non ci fu bisogno di altro per capirsi. Il cameriere tornò a bussare. Il pranzo era terminato. La mia lezione di quel giorno pure!
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