La mia Padrona mi aveva ordinato di recarmi da Lei indossandole calze velate di nylon che mi aveva comprato appositamente inuna precedente occasione, da abbinare ad un paio di scarpe coitacchi a spillo di dieci centimetri, nere, di vernice, lucide,della mia misura, anch’esse comprate apposta per me. Due regaliche avevo molto apprezzato, anche se delle scarpe potevo disporresolo quando mi recavo da lei e con lei presente. Le calze inveceme le lasciò perché potessi indossarle ogniqualvolta mel’avesse ordinato, come in questo caso.Fino a quel momento le scarpe mi erano state fatte indossare soloin casa, ma con una serie di allusioni al fatto che ben prestoavrei dovuto sfoggiarle anche in pubblico. Oltre alle calze neremi ordinò di indossare una guaina intera color carne, con undisegno a rombo in raso sul davanti, fatta a body, con spalline estriscia tra le gambe fissata, come il resto della guaina, congancetti metallici.La guaina era molto molto stretta, me la infilai a forza poichéanche aperta faticava a passare sul sedere, me la fissai coigancetti sopra i quali chiusi una cerniera che li coprivaesteticamente e rafforzava la stretta. Una volta stretti igancetti la carne del ventre fu subito compressa, la pressioneera per il momento leggera ma sapevo si sarebbe trasformata nelcorso delle ore in una cosa ben più angosciante.Inizialmente mi aveva chiesto di andare da lei a serata inoltrataperché aveva un appuntamento con un altro schiavo, e ci tenne asottolineare che aveva un altro schiavo, per farmi sentire tuttala mia fragilità, tutta la mia debolezza, paventando lapossibilità di essere sostituito in qualsiasi momento da uno deitanti schiavi che lei ha. Poi però cambiò idea, ordinandomi diandare prima del suo appuntamento e di portarle anche qualcunodei giocattoli che di solito ama usare con me, questo perchéalcuni le piacciono molto e voleva collaudarli con l’altroschiavo. Forse anche questo era un modo per umiliarmi, usare lemie cose per un altro, mettendomi da parte?Mi disse di arrivare prima delle 21.00; alle 20.45 ero giàvicino a casa sua quando mi chiamò al cellulare persollecitarmi, e si arrabbiò quando arrivai alle 20.58."Ti avevo detto di arrivare prima delle nove" urlò, ea nulla valsero le mie giustificazioni sul fatto che comunquemancassero ancora pochi minuti alle nove."Ti permetti di discutere anche?" e il discorso siconcluse con un sonoro ceffone sul mio viso.Mi fece entrare, mi fece aprire la borsa, ed estrasse igiocattoli che preferiva: il frustino da cavalli, la museruola dicuoio che le piace tanto, le manette, il bavaglio a pallina,tutte cose che aveva già sperimentato con me e che avevadimostrato di gradire. Poi volle vedere se avevo indossato tuttoquanto ordinato, incuriosita dalle sporgenze che si notavano sulmio petto; mi spogliai e ne fu soddisfatta, soprattutto del fattoche la guaina comprimendo il busto fin sotto il petto, ne facevafuoriuscire i muscoli fino a formare delle tettine che riempivanole piccole coppe della guaina, coppe minute, fatte probabilmente per una donna poco prosperosa."Bene, bene, – disse ridendo – visto che hai già le tetteti potrò portare fuori un giorno, vestito da donna, con una miagonna in stretch e una bella camicetta, che ne dici?"La guardai, titubante come sempre a mostrare una mia reazione,con l’aria neutra che assumo quando qualcosa che mi dice mipreoccupa ma non voglio darlo a vedere per non stimolarle lavoglia di metterlo in atto immediatamente. Mi fece richiudere ivestiti normali sopra quelli da donna e si mise a leggere ilresoconto del nostro precedente incontro, cosa che mi fa semprescrivere, e mi concesse di farle compagnia sedendomi lì vicinoin silenzio.La mia Padrona era vestita in modo molto eccitante eprovocatorio: indossava un paio di scarpe nuove vertiginosamentealte, con un tacco a spillo alto almeno 10 cm. Non avevo maivisto un tacco così dal vero, sottile, aguzzo, elegantissimo,finiva con la punta non più larga di due-tre mm, acuminato eaguzzo.Intanto che aspettava ancora lo schiavo infatti me ne diede unassaggio premendolo sulle gambe, e soprattutto in mezzo alcavallo dei pantaloni. Poi me lo appoggiò sulle labbra, micostrinse a baciarlo e leccarlo, me lo infilò in boccacostringendomi praticamente a fare un pompino al suo tacco. Presodalla smania di piacerle cominciai a succhiarlo in tutta la sualunghezza, leccando e baciando l’esterno della scarpa nontrascurando le caviglie.Nel frattempo arrivò l’orario dell’appuntamento e dello schiavonemmeno l’ombra, la Padrona iniziò giustamente a dare segni diagitazione: come?, uno schiavo che non si presenta senza nemmenoavvisare? Passò di mezz’ora l’orario e lei era ormaiarrabbiatissima. Mi fissò con uno sguardo truce e mi disse"Avanti, usciamo io e te" avviandosi verso la porta.La seguii senza proferire parola, felice per il fatto che questopseudo schiavo (perché non si può, definire altrimenti uno cheosa mancare ad un appuntamento con la propria Padrona senzanemmeno degnarsi di avvisare e di giustificarsi) non si fossevisto, felice che la serata si volgesse a mio favore e cheavrebbe avuto più tempo da dedicare a me. L’unica cosa che mipreoccupava era che sapevo per esperienza si sarebbe prima o poisfogata su di me.Mi portò in giro nelle zone della città dove"lavoravano" i travestiti, e non mancava di ricordarmiche un giorno avrebbe portato lì anche me, "Vestito dadonna naturalmente -aggiunse ridendo – così vediamo se porti a casa un po’ disoldi."Lei mi camminava a fianco e io ero ipnotizzato dal rumore deitacchi sul selciato, e ogni tanto non mancavo di sbirciarli, comequando, arrivati ad un bar, ci sedemmo e lei si alzò per andarein bagno; non potei fare a meno di fissare i suoi piedi, i suoipassi, il suo incedere, cose che ad onor del vero erano notate eosservate anche da tutti gli altri avventori.Usciti dal bar ci avvicinammo alla macchina e lei lamentò ilfatto che quelle scarpe cominciassero a farla sentire stanca eavrebbe tanto voluto riposare i piedi. Mi ordinò di darle le miescarpe visto che portiamo la stessa misura. Obiettai: "ma iocosa mi metto adesso? ""Le mie, no?" fu la risposta divertita e decisa dellaPadrona.Mi infilai così quelle fantastiche scarpe, che scivolaronofacilmente sulle sottostanti calze di nylon dopo che mi fui toltole calze da uomo; eravamo sul marciapiede in una zona buia, oltremezzanotte, il che non mi fece preoccupare molto per quello chestavo facendo. Una cosa che comunque mi sembrava normale proprio perchéordinatami dalla Padrona e in sua presenza: da solo non avreiforse avuto tanto coraggio.Le scarpe mi andavano leggermente strette e per di più dovevostare praticamente in punta di piedi, perché i tacchi eranocosì alti da rendere l’equilibrio veramente instabile. Avevo, èvero, provato dei tacchi a spillo, ma mai cosi alti. Lei si misele mie scarpe affermando che le stavano molto comode e si sedettein macchina. Sempre ridendo mi ordinò di salire e partire: mi trovavo dal suolato poiché lei vuole sempre che le apra e richiuda la portiere,e se mi dimentico sono punizioni che fioccano, così feci il girodell’auto passando davanti, facendo attenzione che non provenissequalcuno che mi potesse notare, e mi infilai al posto di guida.Al momento mi trovai in difficoltà non essendo abituato a quellungo stiletto, quello spuntone aguzzo sotto il calcagno che miimpediva di appoggiare i piedi. Lei mi diede istruzioni su comeguidare coi tacchi visto che aveva molta più esperienza di me ein qualche modo riuscii a partire.Mi fece fare un altro giro in centro e a un certo punto miordinò di fermarmi ad un bar tabacchi per acquistare lesigarette. Era il classico bar aperto la notte, meta di tutti ifumatori, e al banco c’era un certo affollamento.Parcheggiai davanti e aspettai che scendesse, ma mi guardòsorridendo come sempre quando sta macchinando e tramandoqualcosa, e mi disse "Cosa aspetti?""Non devi andare a prendere le sigarette?" chiesi ioingenuamente."No caro, ci vai tu per me, cosa credevi?"Sentii il sangue montare alla testa "No, no, ti prego""MI PREGHI? Cosa mi preghi? Tu devi fare quel che io tiordino, avanti, scendi""Ma c’è un sacco di gente ""Appunto, l’ho fatto per quello""No dai, poi in questi bar sai che gente ci trovi,cominciano a sfottermi, magari iniziano a dirmi qualcosa, aprovocarmi, non saprei come reagire; magari succede un casino percolpa mia""Oh, quante storie, allora deciditi, o qui o in stazione aldistributore automatico."Presi l’occasione al volo e accettai immediatamente l’offerta"Preferisco la stazione""Ok, allora gira la macchina e andiamo"Arrivato alla stazione vidi però che l’atrio era affollato digente."Ah ah – fece lei – speravi forse di non trovarci nessunoqua?""Beh almeno non devo parlarci con la macchinetta dellesigarette""Si si, vedi tu, basta che ti sbrighi"Ci misi qualche minuto prima di trovare il coraggio di scendere,e quando lo feci cercai soprattutto di non sbilanciarmi perevitare di cadere aggiungendo ridicolo a quello che già stavovivendo. Cercai di guardare sempre verso terra con l’aria di unaverginella timida, evitando di incrociare lo sguardo della genteintorno.Mi portai alla macchinetta che fortunatamente in quel momento nonaveva davanti nessuno. Mi parve di sentire dei risolini sommessidi un gruppo di ragazze lì vicino, non so se fu la miaimmaginazione o se era vero, non guardavo chi fossero, magariridevano per fatti loro, ma era impossibile non avessero notatoquest’uomo che si era avvicinato con l’andatura traballante e colclassico, inconfondibile rumore di tacchi a spillo. Oltretutto ipantaloni non coprivano nulla delle scarpe, che erano lì daammirare in tutta la loro eleganza.Infilai con mani tremanti la banconota, che però vennerifiutata. Iniziai a tremare per la prospettiva di dover tornare alla macchina a prenderne un’altra,allungando cosi la mia penosa situazione. Ogni minuto infatti mi sembrava che millealtri occhi si aggiungessero alla platea degli spettatori, eaddirittura immaginavo che qualcuno avesse diffuso la voce e chealtra gente stesse arrivando a ridicolizzarmi.Provai a raddrizzarla e a rinfilarla, e finalmente fu accettata,premetti il pulsante e scese il primo pacchetto di sigarette,ripremetti il pulsante ma il secondo non scese, ancora più tempodi agonia… Provai con un altro pulsante e con mio sollievosentii il rumore della scatola cadere.Prelevai i pacchetti, presi il resto e mi avviai deciso verso lamacchina cercando contemporaneamente di accelerare il passo mainsieme di non inciampare alzando il più possibile i piedi.La mia Padrona era girata verso di me e rideva di gusto; salii inauto che stava ancora ridendo e le chiesi "Sei contenta?""Certo, mi sono divertita da matti a vedere il tuo visoimbarazzato e il tuo sguardo a terra. Inizi bene, la prossimavolta farai di più.Ci avviammo verso casa, ma quasi a destinazione lei si ricordòdi una cosa: "Dovevamo comprare il gelato per mia figlia ele mie amiche, non ricordi?""Ok, dove andiamo?""Al bar dove eravamo prima, vai"Tornammo alla birreria, parcheggiai di fronte e di nuovo siripeté la scena del bar tabacchi."Eh eh, non credere di scamparla, ormai che ti sei abituatomi vai tu a prendere il gelato" mi disse sempre ridendo. "In questo locale affollato?""Dai dai, prima che perda la pazienza e tu sai bene cosa tipuò succedere se la perdo, no?"I1 pensiero della Padrona adirata che nel chiuso della sua stanzami avrebbe fatto pagare con tormenti indicibili quelladisubbidienza mi fece scattare a terra, e mi incamminai cercandodi figurarmi cosa avrei fatto una volta dentro il locale. Devodire che camminavo già più sicuro su quegli stiletti altissimi;una volta sulla porta, posta di fronte al bancone, vidi conorrore che il barista non era al suo posto, il che significavache avrei dovuto attenderlo o addirittura andare a cercarlochissà dove all’interno.Attesi un po’ poi pensai che era anche peggio restare lì adaspettare che entrasse o uscisse qualcun altro, così allungai latesta tenendo le gambe fuori vista e vidi con sollievo la personache cercavo a pochi metri dalla porta.Con aria naturale gli chiesi che volevo e lui andò alfrigorifero, però invece di portarmeli come speravo lì dov’erotornò coi gelati dietro il banco dove si mise a fare i conti delprezzo."Accidenti – pensai – ora mi tocca proprio entrare"Aspettai comunque che finisse i conti, ma a un certo punto,probabilmente incuriosito dal mio stazionamento sulla porta, midiede un’occhiata veloce, che dopo avermi scrutato sul viso corseverso il basso, ed ebbi la certezza che aveva visto le calzatureche portavo ai piedi. Da bravo professionista comunque fece fintadi niente e si chinò sulla sua calcolatrice. A quel punto era inutile che stessi li e per di più ormai dovevaaver finito i conteggi per cui sarebbe stato assurdo che iopretendessi di pagare sulla porta. Mentre stavo per avvicinarmiuna coppia si alzò da un tavolo e si accostò al banco perpagare anch’essa: restai bloccato, ma sicuramente non avrebbefatto il loro conto prima che io regolassi il mio, per cui ilmale minore era entrare e fare finta di niente. Cercai dicamminare in punta di piedi, per non ticchettare sul pavimento,anche se questo avrebbe reso ancora più ridicola la miaandatura: ci riuscii e mi appoggiai al banco.C’è da dire che essendo la coppia molto vicina non avevanomotivo di guardarmi i piedi, mentre gli avventori seduti altavoli invece li vedevano, eccome, e io temevo sempre di sentirequalcuno avvicinarsi con qualche commento salace. Per colmo disfortuna dovette ritornare al frigorifero perché avevadimenticato i cucchiaini, il che non fece che aumentare la miaansia: il tempo era un fattore maledetto in quei frangenti.Finalmente riuscii a pagare e mi affrettai ad uscire semprecercando di non inciampare e sospirai quando mi ritrovainell’oscurità amica dell’esterno. Di nuovo vidi la Padrona chese la rideva beata in auto."Allora, com’è andata?" mi chiese."Bene" risposi. Che altro potevo dire? Non volevo darletroppa soddisfazione perché non ci prendesse gusto e rincarassela dose, poiché solitamente quando qualcosa mi mette inimbarazzo è la volta che insiste.Passata anche questa prova dirigemmo finalmente verso casa,parcheggiando di fronte, e l’attraversamento della strada conquei tacchi fu un gioco rispetto a quello che avevo dovuto fareprima. Salii i pochi gradini fino alla sua porta, che varcai dopodi lei.Sentii il commento di Michela e Gianna: "Che scarpehai?" riferito alle mie scarpe basse con la suola in gomma,calzature del tutto estranee al suo normale abbigliamento. Miaffacciai alla soglia sporgendo solo il busto e dissi "Lemie!!!" con uno sguardo eloquente come a dire"indovinate allora io che porto?"Ma la Padrona abbreviò il gioco ordinandomi di entrare e farmivedere. Un po’ imbarazzato (ma niente in confronto a prima)entrai in sala seguito da due paia di occhi e dal commento diGianna: "Però, ti stanno bene, ma riesci anche acamminare?""Eh come no – si compiacque la Padrona – L’ho addestratobene, su fai vedere come te la cavi."Iniziai così ad andare avanti e indietro dalla sala alla cucina,dove mi recai anche per preparare i cucchiaini, le coppette, ecc,unendo cosi l’utile al dilettevole (loro), onde permettere allaPadrona e alle sue amiche di godersi il gelato procurato contanta… sofferenza.Poi ci trasferimmo tutti in cucina dove la mia Padrona sidivertì a mettermi ancora in difficoltà ordinandomi di levarmila camicia e raccontando nel frattempo ciò che mi aveva fattofare in stazione e al bar.Togliendomi la maglia misi allo scoperto la guaina, che attiròl’attenzione di Gianna."Ma l’hai portato in giro così?""No, per stavolta solo con le scarpe, ma ho in mente diportarlo in giro vestito da donna con una mia gonna in stretch,che ne dici?"Ottima idea, certo che quella guaina deve essere benstretta eh?""Si, infatti, glie l’ho fatta mettere io apposta"confenn0 la Padrona.Dopo tutte quelle ore infatti cominciavo a sentirne veramente lastretta che sebbene con dolorosa come quella di un corsetto erasufficientemente fastidiosa."Bene, vai di là, togliti anche i pantaloni e torna qui afarti vedere" fu l’ordine della Padrona. Una volta eseguito l’ordine ritornai in cucina dove venniscrutato e valutato pare positivamente a giudicare dai risolinidelle ragazze."Ho voglia di bere qualcosa, che c’è in casa?"esclamò la Padrona."Nulla temo, a parte acqua" le rispose Gianna."Bene, lo mandiamo a prendere qualcosa da bere. Che ne diteragazze?""Mah, io non ne ho voglia", "Io nemmeno"furono le risposte.Ringraziai mentalmente la loro mancanza di voglia, poiché giàtemevo che mi avrebbe fatto uscire in quelle condizioni…Pensando però che ciò potesse dipendere dalla voglia di poteriniziare presto a giocare col mio corpo come spesso fanno, misentii scorrere un brivido dietro la schiena."E dai, prendiamo da bere e poi facciamo la festa"insistette la PadronaSì, farete la festa a me, pensai; l’idea venne comunqueabbandonata e quindi la Padrona mi diede un ordine diverso."Ok, allora torna in camera, prepara quattro corde easpettaci."Feci quanto ordinato, immaginando che volesse legarmi a croce, eattesi che decidessero quando e come iniziare il gioco. Lesentivo ridere e immaginai stessero caricandosi a vicendaraccontandosi cosa avrebbero voluto farmi e in che ordine.Avevo è vero già sperimentato ciascuna di loro con la miaPadrona, ma insieme era la prima volta e non sapevo cosaavrebbero fatto e come ne sarei uscito io. Quella sera per laprima volta avrei avuto non una ma tre padrone, anche se due informa di allieve.Pensavo tutte queste cose mentre seduto sul letto mi lisciavo lecalze velate che la mia Padrona mi aveva fatto l’onore di regalarmi; godevo al lorotocco, probabilmente l’ultima cosa piacevole prima di quello chemi aspettava.Entrò per prima la Padrona, che mi ordinò subito di togliermile scarpe ricordandomi che erano le sue, non quelle che avevaacquistato per me, e io non avevo certo il diritto di vestirmicon l’abbigliamento di una Padrona.Tolte le scarpe presi dalla borsa, su sua richiesta, alcuni deifoulards che avevo portato, tra i quali ne scelse uno setoso elucido che piegò a striscia e mi appoggiò sul viso. Lo annodòdietro facendosi aiutare da me a stringerlo tenendo un dito sulnodo, finche lo sentii spremermi gli occhi.Accertatasi che la benda mi impedisse completamente la visuale miordinò di alzarmi in piedi e di spogliarmi nudo. Nel frattemposentii che anche le allieve padrone erano entrate nella stanza emi stavano sicuramente osservando, pregustando il momento dipotermi avere a loro disposizione. Mi tolsi la guaina e le calze,la prima non senza fatica, ma almeno con il sollievo di poterridare la loro forma ai testicoli, ormai schiacciati quasicompletamente dalla striscia di stoffa della guaina fissata inmezzo alle gambe."Girati" fu l’ordine secco della Padrona.Una volta eseguito sentii una corda passarmi dietro le braccia,avvolgercisi intorno e tirarle fra loro."Uniscili" mi intimò la Padrona.Come spiegarle che era difficile per i muscoli delle bracciafarle unire dietro come desiderava lei, senza un interventoesterno? Cercai comunque di assecondarla, anche se a un certopunto trovò da sola il modo dando un deciso strattone alla cordache mi spinse inesorabilmente i gomiti uno verso l’altro. Sentiiil morso del legaccio nella carne dell’avambraccio, accompagnatopoi dalla stretta avvolgente della corda che mi fu fatta passareattorno a ciascun arto, singolarmente, bloccando così findall’inizio la circolazione del sangue. Inoltre avendo fattocosì pochi giri, uno o due al massimo, la pressione eraconcentrata in un solo punto e rendeva il tormento ancora piùinsopportabile. Se questo era il suo scopo l’aveva raggiunto, nonmi restava che sperare che per immobilizzazioni più lunghe, diore o addirittura di giorni come spesso mi aveva promesso,avrebbe pensato a fare molti più giri di corda che rendesseropiù distribuita la pressione.Le mani ancora libere già non potevano fare nulla, ma le agitavopiù che altro per trovare un posizione in cui il morso dellacorda non fosse così cocente, ma lei mi ordinò di stare fermoed unire i polsi. Infatti non contenta del tormento appenaapplicato pensò bene di fissarmi anche quelli col resto dellacorda che penzolava dai gomiti.La fece girare intorno ad entrambi i polsi, sempre con pochigiri, e la incrociò nel centro serrando ulteriormente le spirein modo che anche i polsi fossero completamente avvinti etormentati.Il solito spintone concluse l’operazione mandandomi letteralmentea gambe levate sul letto; mentre cercavo di recuperarel’equilibrio sentii due mani che mi afferravano le caviglie e cheme le tenevano unite mentre il tocco familiare di una corda leavvolgeva. Anche per loro non vi fu scampo, come per i polsi lacorda passò prima intorno con solamente un giro o due, e poi inmezzo alle caviglie, segando la carne e rendendo impossibileliberarsene. Anche lì venne lasciata molta corda libera e almomento pensai mi ci volesse incaprettare unendola ai polsi. Miaspettai quindi di sentire i polsi, che già non reggevano,martoriati dalla stretta inesorabile delle corde, figuriamoci sefossero stati ulteriormente straziati dalla trazione verso ilbasso. Ancora sentivo il dolore al nervo di una cavigliacausatomi dall’ammanettamento crudele di qualche settimana primain una immobilizzazione pressoché totale.Fortunatamente non era quello il suo scopo, infatti mi fece sipiegare le gambe ma molto più indietro, talloni contro le cosce,intorno alle quali fu fatta passare la corda residua tornando poia cingermi le caviglie, finche venni bloccato in quellaposizione. Non ero incaprettato ma era come se lo fossi,l’impossibilità di allungare le gambe rendeva difficile persinospostare il peso del corpo, figuriamoci muoverlo.Come imparai dopo a mie spese però, le padrone sanno far fare alcorpo degli schiavi cose al di là delle umane possibilità, maandiamo con ordine…La mia Padrona mi pose due dita sulle labbra, che io prontamentebaciai in segno di rispetto, ma lei disse "Apri invece di fare il cretino"Socchiusi la bocca. "Apri bene sennò te la squarto io"Obbedii immediatamente al che mi fu cacciata in bocca una palladi stoffa enorme che occupo’ tutto lo spazio disponibileminacciando di riempire anche la gola se non l’avessi fermata conla lingua. Infatti ho notato che la mia Padrona non mi lega maila classica striscia di stoffa tra i denti prima di riempirmi labocca, probabilmente le piace pensare che io sia costretto adarmi da fare con la lingua per tenere lontano il bavaglio dallagola evitando di soffocarmi; così ogni rilassamento è esclusoed è comunque una sofferenza in più, un impegno a cui debbosottostare non solo per il piacere della mia Padrona ma per lamia stessa sopravvivenza.Mi fece chiudere le labbra e prese la sua amata museruola dicinghie che ho capito essere il suo giocattolo preferito.Naturalmente non fu tenera nel tendere le cinghie soprattuttoquella intorno al collo, che se non arrivava a soffocarmi poco cimancava. Non che le altre fossero lente, visto che alla fineavevo la testa che scoppiava!!! Una volta bloccato cosi non poteifare a meno di assumere una posizione prona, con la facciaaffondata nel materasso, mentre udivo il sibilo dello scudiscioche fendeva l’aria: era Gianna che ne provava la consistenza.Cominciai ad agitarmi perché sapevo che quello strumento eraveramente doloroso, quel frustino in punta aveva una striscia dicuoio sottile e flessibile, che però calata con la dovuta forzariusciva ad essere lancinante sulla pelle. Il resto poi erapraticamente un bastone avvolto di cuoio, rigido e doloroso.Infatti più che frustate si può dire che presi un sacco dibastonate quel giorno, sulle dita, sulle mani, sulle spalle, suigomiti, sul sedere, e su quel punto delicato dei fianchi appenasopra il sedere, poi sulle cosce, sui piedi, sulle gambe,….Infatti dopo poco divenni il bersaglio dei suoi colpi, colpi chevenivano calati con una determinazione e una ferocia terribili. Sentivo la rabbia inognuno dei colpi che si abbatteva sulla mia carne, non tanto delcorpo ma degli arti. Infatti in quella posizione le parti piùesposte erano braccia e gambe, che ricevettero infatti in quellaseduta la maggior parte delle "attenzioni" e che ancoraoggi ne portano i segni. Non era una mia scelta ma era l’unicacosa con la quale potevo cercare di fare scudo al fondo schiena,altra parte scoperta. Ponevo le mani aperte davanti, come adimplorare "Basta", ma Gianna non si fermava mai, colpiva, colpivae colpiva, qualunque cosa si trovasse a colpire, braccio, mano, dito.Era una scarica di colpi che sembrava non finire mai, e cominciaiveramente a preoccuparmi e impazzire di dolore, temevo non sifermasse più, continuava, continuava, era una cosa terrificante,un ritmo massacrante, e sempre con più rabbia, sempre con piùforza, sembrava non stancarsi mai, sembrava stesse sfogando unarabbia atavica contro tutto il genere maschile. Temetti nevedesse in me il simbolo e volesse finirmi a bastonate perpunirmi di essere uomo.Mi agitavo per quanto potevo in quelle pastoie, mi dimenavocercando di far uscire dallo stretto bavaglio qualche suono dirichiesta di clemenza. Cercai di farle capire che la cosa eraveramente terribile, ma non pareva che la cosa le importassemolto, anzi forse proprio il mio dimenarmi e mugolare la eccitavae la incitava a continuare.Da ricordare che la posizione in cui ero stato legato mi bloccavaquasi completamente, non potendo far leva da nessuna parte; almassimo potevo puntarmi sulle ginocchia ma per fare questo dovevotendere i muscoli costretti dal legaccio intorno alle cosce,legaccio che segava la carne causandomi dolori lancinanti, mentrele braccia ormai si facevano sentire solo per il dolore dellescudisciate ricevute, non potevo certo utilizzarle per muovermi. Eppure le sferzate erano così cocenti che il corpo riuscì amuoversi persino senza l’aiuto degli arti: ad ogni colpo saltavacome colpito da una scarica elettrica, e a forza di sobbalzi sispostava come un verme (chissà se questo pensiero colpì lepadrone, mai paragone fu più appropriato) strisciando sul lettofinche sentii il vuoto sotto di me. Ero arrivato al bordo delletto, annaspai con le mani inermi nel vuoto inutilmente finchecaddi sul pavimento; il letto era fortunatamente basso, ecomunque il dolore delle sferzate era talmente forte che quellodi una caduta praticamente scompariva al confronto di quello chestavo subendo.La scarica di colpi si fermò, non credo per compassione, moltopiù probabilmente per la difficoltà di colpirmi visto che miero rannicchiato contro il letto come un pulcino sotto l’aladella chioccia, cercando un riparo."Beh, che fai lì? Non penserai di riposarti per caso?"- sbottò la Padrona con tono indispettito – "Alzati subito"Io continuavo a mugolare nel bavaglio un inutile ("no,no", cercavo di farle capire che non stavo giocando, che nonstavo fingendo, che ero veramente caduto e che comunque non ce lafacevo più a sopportare i colpi sempre più forti di Gianna."Ti ho detto di alzarti, vuoi farmi arrabbiare?"Mi misi a piangere disperato, feci forza con tutto il corpo peralzarmi, ma tutto quel che riuscivo a fare era agitare queimonconi di arti impastoiati nei legacci, disteso sulla schienacome una tartaruga. Davo furiosi colpi di reni che mi portavano amalapena ad appoggiare i piedi per terra, mentre cercavo di tendere le gambeil più possibile; cercavo di non ascoltare il dolore pulsantealle mani e alle braccia mentre si appoggiavano a terra cercandodi spingere il corpo in avanti.Le braccia erano intorpidite e doloranti sia per i colpi ricevutiche per il blocco ormai quasi totale della circolazione; sentivo fitte acutissime aigomiti là dove i legacci li univano strizzandoli terribilmente.Unico risultato era comunque quello di far penetrare i legaccinelle cosce e nelle caviglie torturandomi i muscoli già intensione, mentre il corpo dopo aver dondolato avanti e indietro,tornava nella posizione iniziale.Feci tre o quattro di questi patetici tentativi durante i qualila mia Padrona mi incitava con argomenti come "Avanti, dai, sbrigati sennò è peggioper te, ti conviene riuscirci altrimenti te la farò pagare, ricordatelo" e giù qualchecolpetto di frustino, fortunatamente non così forte come iprecedenti ma sufficienti a farmi ricordare quanto potevanoessere più duri.Da aggiungere che nel frattempo mi tirava poderosi calci aifianchi fortunatamente a piedi nudi: se avesse avuto i suoiterribili tacchi aguzzi mi avrebbe certamente perforato. Queicolpi però avevano come effetto di farmi perdere l’equilibrioche talvolta riuscivo faticosamente ad ottenere, costringendomi aricominciare tutto da capo. Mi venne persino il dubbio che leistesse coscientemente cercando di non farmi alzare, per potersidivertire a tormentarmi ."Adesso mi sto proprio stufando" urlò la Padrona,mentre io cercavo di dirle attraverso la palla di stoffa e lamuseruola di cuoio che proprio pretendeva l’impossibile, maprobabilmente lo sapeva e godeva di questo, di vedermi dibattereassolutamente e completamente impotente.Un paio di volte riuscii a puntarmi con la schiena contro ilbordo del letto e a sollevarmi di qualche centimetro, ma maiavrei potuto portare il sedere sopra il livello del materasso,non potendo assolutamente stendere le gambe e mi era comunqueimpossibile appoggiarmi sui piedi e saltare su.Sentii prendere la corda che mi univa le braccia e tirarla senzaesitazione verso l’alto. Era sicuramente la mia muscolosa Padronache si divertiva a sollecitarmi proprio in una parte, i gomiti,già martoriata all’inverosimile; a dire il vero il livello deldolore in quel punto era talmente alto che quasi non mi accorsidelle fitte lancinanti dovute al mio peso sorretto praticamentesolo in quel punto, fu un attimo di tortura e poi mi ritrovaisempre appoggiato al letto ma rannicchiato sulle punte dei piedi,in equilibrio instabile comunque, perché legato in quel modo nonpotevo bilanciarmi.Se fossi caduto di nuovo temevo le reazioni della mia Padrona, etale pensiero fu sufficiente a darmi la forza di resistere eaddirittura di forzare i muscoli delle gambe a tendersi di queipochi millimetri permessi loro dalle corde per spingermi versol’alto, e in qualche modo riuscii ad alzarmi sulle punte deipiedi e a portare il busto sopra il materasso, stringendo i dentisul bavaglio in un’esplosione di dolore generalizzato, infineagitandomi come un forsennato mi appoggiai in modo stabile sulletto.Sospirai profondamente potendo finalmente alleviare se non idolori già ricevuti almeno la stretta delle corde, pregando incuor mio che non ricominciasse subito la danza del frustino suquel corpo ormai ridotto ad un ammasso di carne pulsante etremante.Non fui esaudito, anche se i colpi che mi arrivarono sui genitalinon erano cosi forti come i precedenti, forse a causa dellaposizione forzatamente rannicchiata che li proteggeva. Le sentiiconfabulare tra loro, il che non lasciava presagire niente dibuono; infatti la Padrona stava mostrando a Gianna i marchi, chepur se sbiaditi per la formazione della pelle nuova al postodelle cicatrici lasciate dal ferro rovente sarebbero durati alungo e forse anche per sempre, a testimonianza della miaappartenenza sempre e comunque a Lei, la mia divina Padrona.Sentii Gianna chiedere se poteva anche lei avere un marchio aforma di G col quale divertirsi, e la Padrona acconsentìimmediatamente ordinandomi di costruirlo e di portarlo laprossima volta. Assentii col capo, rassegnato a subire di nuovoquel dolore lancinante dovuto al ferro rovente.Ma sembrava che non avrei dovuto aspettare così a lungo, poichéla Padrona propose a Gianna intanto di farmi lei stessa un altromarchio con la A, tanto per esercitarsi. Gianna era entusiastanaturalmente dell’idea, pur di infierire sul mio corpo avrebbeaccettato qualunque proposta. Decisero quindi di legarmi in unaposizione diversa, a croce, per avere più libero accesso a tuttoil corpo.Sentii infatti allentarsi la morsa delle corde intorno allecosce, e quindi le caviglie furono libere. Poi fu la volta deipolsi e infine dei gomiti ad essere liberati: non sapevo sepiangere per la gioia di essere sollevato da quel supplizio o daldolore causato dal sangue che riprendeva prepotentemente ascorrere negli arti quasi atrofizzati. Naturalmente non mivennero liberati né la bocca né gli occhi che nei nostriincontri sono sempre inesorabilmente tappati: posso soloindovinare dalle sensazioni fisiche ciò che mi viene fatto e dasuoni e rumori ciò che mi sta per venire fatto.Sentii le corde avvolgersi di nuovo intorno alle caviglie etirare verso l’esterno allargandomi le gambe fin dove erapossibile, mentre per i polsi mi fui ordinato di porgerli unitidavanti e li sentii fissare dalle manette, devo dire questa voltanon così crudelmente strette come al solito, mi fu lasciato uncerto gioco."Visto che non li ho stretti molto?" mi confermò lamia Padrona "spero che non ti lamenterai come alsolito"Lamentarmi? Anzi, cercai di ringraziarla, ma non so se lo capìdai mugolii che uscirono dalla bocca riempita di stoffa ecompressa dalla museruola. Improvvisamente dal sollievo perquella posizione decisamente comoda passai allo sgomento per ilfatto che il mio sesso era completamente esposto, e mi ricordaiil motivo per cui ero stato slegato dalla posizione precedente.Ora infatti le due allieve padrone potevano dare sfogo allavoglia di giocare coi miei genitali, facendo loro tutto quandogli passava per la mente, autorizzate in questo dalla mia Padrona che lasciava fare tutto quello che volevano, anziprobabilmente si divertiva a vedere con quanto entusiasmo le dueallieve si applicavano ad imparare… a mie spese.Sentii parlare di sigarette, sentii parlare di forbici, e infattidopo poco udii l’inconfondibile clic clic di forbici che venivanoaperte e richiuse, prima vicino al mio orecchio, poi più giù,tagliandomi qualche pelo dal petto, e fermandosi sui genitali conle lame aperte intorno alla base del pene."Che dici, tagliamo qui?" chiese Gianna"NO, vai più giù, ecco, un taglio netto lì, dai"consigliò la PadronaMi irrigidii non perché pensassi che lo volessero fare davvero,ma perché avere due lame appoggiate in quel punto non era certosicuro: poteva accadere di tutto, un crampo involontario di chiteneva le forbici, una spinta accidentale…; fui più tranquillocomunque quando me le tolsero.Quello che invece mi preoccupo’ di più fu quando accesero unasigaretta, poiché sapevo che a Gianna era rimasta la voglia dispegnermela addosso fin dalla prima volta che mi incontrò einfatti la sentii rinnovare la richiesta:"Questa volta posso farlo, dai?"Non udii la risposta della Padrona ma temetti non fosse stata deltutto negativa, poiché cominciai a sentire il tocco caldo dellabrace in vari punti del mio corpo; dapprima leggeri, sui fianchi,sul lobo dell’orecchio, sulle gambe. Un paio di volte lo sentiisul capezzolo, cosa che, mi vergogno a dirlo, mi fece ancheindurire il pene in uno sprazzo di assurda eccitazione, cosa cheinvolontariamente mi accade spesso durante le sevizie della miaPadrona.Probabilmente lei se ne accorse e me ne volle punireimmediatamente, perché il morso bruciante della sigaretta sifece sentire in modo molto acuto sulla base del pene, cosa che mifece sobbalzare data la sensibilità della parte, e mi fecebattere il cuore al pensiero che volesse insistere in quellazona.Io mi dimenavo a destra e sinistra per sfuggire a quel tocco chesi faceva ogni volta più pesante, ogni volta la sigaretta venivatenuta più a lungo a contatto della pelle, finché sulla panciasentii un bruciore molto più acuto e pensai che avessero infinedeciso di spegnerla veramente.Non seppi mai se era accaduto questo, certo è che sentii loscatto di un accendino e ciò che mi spaventò veramente fusentire l’incitamento della Padrona: "Bene adesso glielaspegniamo lì, sulla punta, dai, proprio sulla punta, aspetta chete lo tengo fermo", e mi si appoggiò sul petto.Io cercavo di divincolarmi, di dire di no, che lì mi avrebbeveramente fatto un male insopportabile, ma naturalmente non eroin condizioni di impedirlo se solo avessero voluto farlo. Sentiiuna mano tenermi il pene mentre io mi agitavo per quantopermessomi dai legacci e mugolavo forte nel bavaglio."Beh , che c’è? Hai paura?" Feci cenno di sì "Echi se ne frega – fu la risposta – avanti, deciditi a spegnergliela in punta""Ok, vado"Il cuore fece un sobbalzo mentre da un secondo all’altro miaspettavo quel tremendo supplizio. Urlai un "no" ilpiù deciso possibile mentre sentii qualcosa sfiorarmi quella cheè indubbiamente la parte più sensibile del pene, sobbalzai, miarcuai contro i legacci e mi aspettai l’inesorabile fittadolorosissima della bruciatura….. che non venne mai."Ah ah, era spenta ormai, non l’avevi capito eh? Ti seicagato sotto per niente, ah ah, che coraggio questimaschietti""Già, vediamo ora come resiste alla secondamarchiatura"In tutto quel trambusto mi ero dimenticato dell’altro motivo percui mi era stata cambiata la posizione di legatura, ma tutto mitornava ora in mente."Lo vuoi un secondo marchio con la mia iniziale, o no?"Cosa rispondere a una domanda del genere? Non so mai comecomportarmi in questi casi. Se dicevo sì mi autocondannavo anuovi supplizi, ma se dicevo no senz’altro la Padrona si sarebbeoffesa, perché mostravo di non gradire le sue attenzioni e mel’avrebbe fatto ugualmente, per cui tanto valeva dire di sì,cosa che feci."Ok, dove lo vuoi il marchio, dove?"Questa domanda mi mise veramente in imbarazzo, ci pensai unattimo di più il che scatenò le ire della Padrona:"Allora deciditi, dove lo vuoi?"Indicai la spalla destra con i polsi ancora ammanettati"Bene, e l’altro?"Non riuscii al momento a pensare che ai punti in cui già portavoi segni della marchiatura precedente e indicai quindi ilginocchio destro. Almeno, pensai, saranno simmetrici con glialtri, condiviso in questo dalla mia Padrona."Bene, bene, così faranno il paio con gli altri, passamil’accendino"E di nuovo quella fiamma si accese preparandomi nuovi supplizi.Non so perché ma a un certo punto la Padrona decise di togliermiil bavaglio. Mi vennero allentate le cinghie, levata lamuseruola, e infine sfilata la stoffa che mi riempiva la bocca,stoffa che dipanata divenne un grosso ammasso, al che sentiil’esclamazione di Gianna: "Ah, ma aveva anche tutto quellodentro.""Certo – rispose la mia Padrona – con un bavaglio soloesterno non si soffocano le grida, bisogna tappare ogni buco dadove l’aria possa passare, no?""Ah, è vero, non ci avevo mai pensato""Ovvio, sei qui per imparare, no?"Rimasi così senza alcun impedimento alle grida e pensai"non vorranno marchiarmi così? Come resisto io senzaurlare?La Padrona sembrò leggermi nel pensiero perché disse"Ricordati che di là c’è mia figlia che dorme, vedi di nonurlare sennò te la faccio pagare in un modo tale che neppureimmagini."E continuò rivolta alle allieve: "Lui sa che non deveurlare, perché sa anche che se mi costringe a imbavagliarlo, poine approfitterei per fargli cose inimmaginabili, quindi gliconviene trattenersi da solo, vero schiavetto mio?"Annuii senza parlare anche se avrei potuto farlo, e non solo perl’intorpidimento della bocca dopo le lunghe e strette costrizionia cui era stata sottoposta, ma proprio per mancanza di forze. Leultime forze infatti le riservai per serrare i denti in attesadel momento fatidico."Che ne dite, vi sembra arroventato abbastanza?" chiedela mia Padrona."Penso di si, è rosso incandescente, più di così…"rispose Michela"No, no arroventiamolo ancora un po’"Rabbrividii a quelle parole. Ma quanto volevano entrare nella miacarne? Un ferro di quello spessore arroventato l’avrebbe scioltacome burro."Ok, è pronto, tenetelo, dai"Ci fu un movimento frenetico, capii che non volevano dar tempo alferro di raffreddarsi, avevo qualcuno seduto sulla pancia, equalcuno che mi teneva le mani, sentii altre braccia che mitenevano fermo il busto. Capii quindi dove stavano per farmeloper primo il che non mi aiutò comunque quando arrivò. Ineffetti non essendo legato avrei potuto alzarmi a sedere e ildolore che mi stava per arrivare difficilmente l’avrei sopportatoin silenzio. Improvvisamente un bruciore acutissimo si diffuse intutta la spalla destra mentre sentivo il ferro che più cheappoggiato veniva premuto con forza nella carne di cui sentii ilrumore dello sfrigolamento.Non riuscii a trattenere un "AHHH, mio dio che male"mentre la forza della disperazione mi fece girare su un fiancospostando il peso di chi mi teneva bloccato, mentre le maniandavano istintivamente a tenermi la spalla cercando di alleviareil bruciore. Venni girato a forza dalle robuste mani dellaPadrona, che mi schiaffeggiò violentemente sulla guancia."Allora, ti avevo detto di non urlare, o sbaglio? Avanti,scaldalo di nuovo, facciamogli anche l’altro".Di nuovo l’accendino scattò mentre io mi rotolavo ancora findove me lo permettevano i legacci alle caviglie, che perl’agitazione si erano allentati e permettevano alle gambe diagitarsi nell’aria."Stringete quei legacci, impastoiatelo al letto questostronzo, non deve potersi muovere di un millimetro. Stringete perDio, non avrete paura di fargli male no?"Sentii i risolini delle due allieve a questa frase, in effettinon dovevano certo preoccuparsi di quello… Sentii le cordeavvinghiare le caviglie ancora più strettamente di prima,caviglie che erano ormai indolenzite dal lungo tempo passatoavvinte da legacci. Per sicurezza comunque mi venne tenuta fermala gamba, onde evitare che la sollevassi verso l’alto anche dipoco, disturbando la marchiatura.Ciononostante al tocco del ferro caldo ebbi un guizzo istintivoche fece spostare il ginocchio. "Bravo furbo, così ora nonè venuta bene e ci tocca rifarla". Tremai all’idea che ilferro venisse riappoggiato là dove già vi era stata la feritaprecedente e infatti non riuscii a stare fermo mentre tentavanodi ritrovare il punto esatto per due o tre volte, causandomialtre bruciature."Adesso mi arrabbio veramente, o stai fermo per l’ultimavolta o te lo faccio sulla lingua" Rimasi paralizzato aquella prospettiva, quel tanto che bastò a permettere dipremermi il marchio nel solco già lasciato dalla primamarchiatura, dandomi un dolore ancora più forte. Io mi tenevo labocca con le mani, per non urlare; non riuscii ad evitarlo deltutto, ma non si sentì troppo forte all’esterno.Ora il marchio era profondo quel tanto che serviva perchédurasse tutto il tempo che desideravano, e venni lasciato legatoin quella posizione a "riposare". Per un po’ non sentiialtro che il pulsare delle ustioni e il battito del mio cuore.Poi Michela si avvicinò e mi chiese se volevo bere. Risposi dino, ringraziando dell’offerta, ma evidentemente volevano ad ognicosto danni da bere, perché Gianna mi sfiorò le labbra con ledita, ordinandomi di aprire la bocca.Appena l’ebbi fatto sentii un liquido caldo e vischioso entrarmidentro, e lo deglutii diligentemente, chiedendomi cosa fosse."Apri di nuovo" e altre gocce calde mi caddero inbocca; questa volta capii che era la saliva di Gianna che mistava praticamente sputando in bocca, usandola come sputacchiera.La terza volta la saliva mi cadde esternamente alle labbra, epensò lei a spalmarmela su tutto il viso con le mani.Poi mi si sedete sul petto girata verso il fondo del letto esentii che armeggiava coi miei genitali, cercando di eccitarli.Io faticavo a resistere ma cercavo di non darle motivo di risentirsi perché avevo osato eccitarmi senza autorizzazione,magari sfogandosi con qualche altra sevizia sul mio povero pene.In effetti un po’ si indurì ma fortunatamente Gianna noninfierì su di esso limitandosi a sballottarlo in qua e in là.Stanche probabilmente del gioco mi sciolsero le caviglie,lasciandomi però le manette ai polsi.Mi fu ordinato di alzarmi e di andare in un angolo, con le spalleall’armadio, posizione in cui mi vennero inflitte innumerevoliumiliazioni psicologiche, facendomi fare la parte del burattinoai loro ordini: dovevo fare tutto quello che a loro passava perla mente; feci il verso del cane, del gatto, del coyote; fecil’asino, la mucca; dovetti camminare a quattro zampe, ulularealla luna; dovetti ballare, cantare, piangere, ridere, parlare inlingue straniere, tutto su loro comando.La cosa che mi venne più naturale fu piangere; non mi fudifficile infatti soddisfare il desiderio della mia Padrona divedere le lacrime uscire da sotto la benda. Mi bastòconcentrarmi sul mio corpo dolorante e sulla mia situazione pervenire assalito da un pianto sincero e irrefrenabile. Piùdifficile era ridere, soprattutto di gusto, come mi chiesero difare.I1 gioco durò un tempo interminabile, finche Gianna disse che sene andava a casa e ringraziò la Padrona del divertimento."Figurati, sai che qui puoi venire a divertirti quando vuoi,basta che me lo dici e io ti faccio trovare qui ilgiocattolo"I1 giocattolo ero io naturalmente, e sperai tanto che nonfacessero come quei bambini che il giocattolo lo rompono per poipiangere, troppo tardi, per averlo rovinato e non potercisi piùdivertire."Mi accompagni?" fu la domanda di Gianna, non direttaad altri che a me. Mi sentii toccare le mani col frustino, neafferrai la punta che fino ad allora mi aveva accarezzato ilcorpo e lo tenni stretto. Lo sentii tirare e mi ci aggrappai,seguendo Michela che lo teneva ben saldo per l’impugnatura.Divenne la mia guida (io ero sempre bendato) attraverso porte ecorridoi fino alla porta d’ingresso. Venne aperta e sentii l’ariavenire dal pianerottolo: era piena notte e io ero nudo come unverme se si escludono le manette e il foulard agli occhi.Venni guidato verso il portone esterno che fu aperto dallaPadrona e sentii un’aria ancora più fredda colpirmi la pellenuda. Si sentivano le auto passare veloci nonostante fosse notte,venni spinto fuori per un attimo e fui terrorizzato all’idea chemi venisse chiuso il portone dietro: mi immaginai nudo,ammanettato, bendato, nel centro della città in balia diqualsiasi balordo.Fortunatamente non erano quelle loro intenzioni; Gianna misalutò e partì e io venni "ritirato" dalla miaPadrona per poter essere "riutilizzato" in una prossimaoccasione.
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