Dormivo profondamente quando il cellulare cominciò a squillare. Aprii gli occhi e guardai la sveglia sul mio comodino. Erano le otto. Mi ero addormentato molto tardi la sera prima e non dovevo andare a lavorare. Mi spostai dal lato opposto del letto. Risposi al telefono. La voce femminile ansimava. – Pronto, sono Elvira. Sei tu? – Era la madre di Elisabetta. Anche se molto agitata, la riconobbi subito. Aveva una voce inconfondibile. Le risposi. – Si, sono io. Cosa succede? – Parlò in modo frenetico. – Sono sola in casa. Mio marito e mia figlia sono usciti. E fuori dal cancello c’è Alberto, il giardiniere. Continua a suonare il citofono. Ma non ho risposto. Sono terrorizzata. Che cosa devo fare? – Usai un tono pacato. Per cercare di calmarla. – Non devi fare nulla. Non rispondere e aspettami. Vengo subito lì. – Prima di riappendere, disse. – Grazie. – Mi preparai con calma. Feci una doccia e mi vestii. Arrivai alla villa quasi un’ora dopo la telefonata. Davanti al cancello non c’era anima viva. Suonai. Non rispose. Allora le telefonai con il cellulare. Rispose subito. – Pronto? – Era ancora agitata. Le dissi. – Sono io. Sono qui fuori. Suono ma non mi rispondi.- Il cancello si aprì. Mi invitò a entrare. – Vieni avanti. – Lasciai l’auto fuori e percorsi a piedi il vialetto fino all’ingresso. La porta si aprì ed entrai. Appena fui dentro Elvira mi buttò le braccia al collo e si strinse a me. Teneva il viso appoggiato al mio petto e tremava. Mi spiegò. – Ho avuto tanta paura. Mauro ed Elisabetta sono usciti molto presto stamattina. Lui è arrivato poco dopo. Ha cominciato a suonare il citofono e poi, visto che non rispondevo, il clacson del camion. Ma sono rimasta nascosta dietro le tende e non mi ha visto. Non era solo. Aveva altri due uomini con sé. Gridava e mi dava della troia, mentre gli altri sghignazzavano. Diceva, con quel suo misto di dialetto e italiano, che se li facevo entrare mi avrebbero dato una bella sistemata. Sono rimasti lì fuori più di mezzora. Poi i due che lo accompagnavano lo hanno fatto salire a forza sul camion e se ne sono andati. Sono rimasta immobile fino ad adesso. Avevo paura che tornassero. – La strinsi e la rassicurai. – Hai fatto bene. I suoi amici penseranno che si è inventato tutto. E se dovesse tornare, chiama la polizia. Non devi temere nulla. Nessuno potrebbe credere che tu abbia provocato quel povero energumeno per mandarlo fuori di testa e farti scopare con brutalità. Sei una donna onesta e rispettabile. – Le alzai il viso e le dissi. – Guardami. Dimmi che non hai paura di quel bestione. Non è altro che un animale da monta che hai usato per il tuo piacere. Ricordi? Ieri, dopo che ti ha scopata, mi hai detto che ti era piaciuto. – Si rilassò un poco. Sorrise. La guidai verso il salotto. La staccai delicatamente da me e la feci sedere su una poltrona. Era pallidissima. Continuai. – Ti preparo qualcosa di forte da bere. Ti rimetterà in sesto. – Protestò. Ma debolmente. – Ma sono le nove di mattina. E sono a stomaco vuoto. Non sono abituata a bere. – Presi dal mobile bar una bottiglia di rhum e ne versai due dita in un bicchiere. Gielo porsi, dicendole, con tono deciso. – Bevi. E senza protestare. Ti aiuterà a ritrovare la calma. – Lo sorseggiò. Le guance ripresero rapidamente colore. Suonò il telefono. Si alzò e andò a rispondere. – Ciao, Eli. Si, tutto bene. Come? No, non ho niente. Solo un po’ di mal di testa. Sai, la cervicale. Non ti preoccupare. E tu? Come mai mi chiami a quest’ora? Ah, ho capito. Mi raccomando. Ciao. – Riappese e tornò a sedersi in poltrona. Riprese a sorseggiare il rhum. Quando appoggiò il bicchiere vuoto, gliene versai ancora due dita. Mi raccontò. – Era mia figlia, Elisabetta. Mi ha chiamato perché questa mattina quando è uscita non ci siamo salutate. E’ molto dolce. – La stuzzicai. – Sarà anche molto carina. Ti somiglia? – Si schernì. – Si, è molto carina. Somiglia molto a suo padre. – Mi avvicinai a lei e le accarezzai il viso. Le dissi. – Guarda che ho visto tuo marito. Se è carina come dici, credo che assomigli alla mamma. Lo sai che stamattina sei bellissima? – Svuotò il bicchiere. Poi si alzò e mi baciò. La sua lingua mi diede una scossa che mi fece indurire immediatamente il cazzo. Si staccò e sorrise. Scherzò. – Mi sa che piaccio anche a lui. – Riprese a baciarmi, con passione. Intanto mi slacciò i pantaloni e mi infilò una mano nei boxer, impugnando il mio uccello. Questa volta fu lei che mi guidò verso la poltrona. Lei rimase in piedi, davanti a me. Indossava la sua vestaglia, quella pesante. Quando la slacciò e la lasciò cadere, rimasi senza parole. Sotto indossava una guepiere di pizzo nero con le coppe a balconcino. Le sue grosse tette erano ben sostenute e completamente scoperte. Non aveva addosso nient’altro. Né slip, né calze. Cominciò a toccarsi la figa e a pizzicarsi e torcersi i capezzoli. Mi chiese. – Ti piaccio? – Ero senza parole. Presi in mano il cazzo e iniziai a masturbarmi, guardandola. Avevo la gola e la bocca completamente asciutte. Non riuscivo a parlare. Si girò, dandomi la schiena, e si piegò spingendo il bellissimo culo verso di me. Continuava ad accarezzarsi. Poi si avvicinò, camminando all’indietro, e quando fu vicino al mio viso si allargò le labbra della figa e disse. – Leccami. – Non me lo feci ripetere. Appoggiai la faccia alle sue chiappe e tirai fuori la lingua. La leccai con avidità, con gusto. Intanto, mentre io mi masturbavo, lei restava piegata in avanti e si toccava le tette e i capezzoli. Sussurrava. – Che meraviglia. Hai una lingua d’oro. Me lo immaginavo. Dai, succhiami, fammi godere. – Avvicinai la bocca e, aiutandomi con la mano libera, arrivai a chiudere tra le labbra la clitoride. La assaporai dolcemente. Con gusto. Quando sentii che il suo respirò diventò affannoso, la bloccai, tenendole i fianchi con entrambe la mani e alternai lingua e labbra aumentando il ritmo. Poi le infilai di colpo due dita e lei urlò, godendo. – Siiii, vengo, vengo… Mi fai godere… E’ stupendo… – E, vibrando con tutto il corpo si lasciò scivolare a terra, sul tappeto. Non le lasciai il tempo di riprendersi. Mi misi in ginocchio dietro di lei, la guidai per farla mettere carponi ed entrai dentro di lei. Riprese a parlarmi. – Che bello, lo sento, lo sento. E’ un sogno. Dai, scopami. Fammi godere ancora. Fammi impazzire. – La pompavo con regolarità. Poi all’improvviso, acceleravo aumentando la forza dei colpi. Appoggiò la testa e le braccia a terra, spingendo indietro con il culo per rispondere ai miei affondi. La presi per le spalle alzandola leggermente da terra e le dissi. – Allargati. Mi sentirai di più. – Obbediente, si portò le mani alle chiappe e le allargò. Cominciò a mugolare, mentre sentivo l’orgasmo avvicinarsi. La avvisai. – Sto per venire. – Sussurrò. – Anch’io, anch’io. – La alzai e la presi per le tette, stringendole, giusto in tempo per sentire il primo schizzo contemporaneamente alle sue contrazioni. Stavamo godendo. Insieme. Rantolava. – Ti sento… Vieni, riempimi… Così… Godo, godo, godo… – La tenni contro di me per tutto il tempo dell’orgasmo. Poi, lentamente, mi sdraiai sul tappeto, facendola girare per farle appoggiare la testa al mio petto. Rimanemmo in silenzio a lungo. Fu lei a parlare per prima. – Sei dolcissimo. Un amante stupendo. – E mi baciò. Prima con le labbra chiuse. Poi, con la lingua, dolcemente. Si fermò per dirmi. – Non avevo mai goduto così. – La provocai. – Nemmeno ieri con il giardiniere? – Finse di arrabbiarsi. – Sei proprio un bastardo. Ieri ho goduto per la morbosità della situazione. Ma con te ho provato un’emozione profonda, molto più completa e appagante. E poi, non dimenticare che mi hai quasi costretta a farlo, minacciando di mostrare in giro le mie foto. – Le confessai. – Ieri, quando ti ho fotografato mentre ti masturbavi, ho provato un desiderio folle di te. Hai un corpo così sensuale, così morbido. E anche quando l’animale ti ha scopato sul tavolo della cucina: non so cosa avrei dato per essere al suo posto. Avevo il cazzo durissimo e credevo di essermi eccitato per la situazione. Ma appena arrivato a casa, mi sono masturbato e non avevo negli occhi le immagini di te che subivi la violenza. Ma di te e basta. Del tuo corpo, del tuo viso, dei tuoi occhi. – Anche lei, a quel punto, si confidò. – Sai, quando i tre se ne sono andati, non ho perso tempo. Mi sono tolta la camicia da notte e mi sono preparata per te. Non vedevo l’ora che arrivassi. Non so cosa mi sia successo. So che dal momento in cui ti ho guardato negli occhi ho provato un desiderio intenso. Irrefrenabile. – Ci baciammo di nuovo. Le proposi di uscire. – Perché non andiamo a pranzo da qualche parte, insieme? – Accettò con entusiasmo. – Faccio in un attimo. – E corse via a prepararsi. Mi lavai e mi rivestii. Tornai in salotto. Ero confuso. Elisabetta era la mia schiava. Per puro piacere sadico avevo deciso di assecondare le mie fantasie malate e di arrivare a ricattare anche il padre e la madre. Per questo avevo scattato le foto a Elvira e l’avevo costretta a farsi scopare dal giardiniere. Ma adesso? Tutto d’un tratto avevo perso la cattiveria e la durezza ed ero caduto ai piedi di questa donna. Cosa mi aveva ridotto così? Cercai di riflettere, di capire. Elvira arrivò all’improvviso alle spalle e, cingendomi con le braccia, mi baciò su una guancia e disse. – Alzati mio signore. La tua geisha è pronta per accompagnarti e per assecondare tutti i tuoi desideri. – La scossa fu improvvisa. Bastarono le sue parole, la sua voce, per sentirmi sereno. La confusione sparì all’istante dalla mia mente. Mi girai e restai senza parole. Elvira era vestita con una specie di kimono bianco, di seta leggera. La fasciava completamente, evidenziando le forme generose. Aveva raccolto i lunghi capelli sopra alla testa e si era truccata disegnando intorno ad ogni occhio un ovale. Assomigliava ad un’orientale. Fece un giro su se stessa e mi mostrò il disegno floreale che aveva sulla schiena. Mi complimentai. – Sei uno schianto. – Si inchinò in modo palesemente esagerato. Rispose. – Per te, mio signore. – Mi sentivo euforico. Era una donna veramente particolare. Uscimmo di casa e ci avviammo verso l’auto, che avevo lasciato fuori dalla villa. Eravamo appena fuori dal cancello, quando un uomo anziano, alto e magro, che indossava dei pantaloncini e una canotta, uscì dai cespugli e sorridendo chiamò a gran voce. – Corri Alberto. Sono arrivati i piccioncini. – E, prima che potessimo salire sulla macchina, ci resero impossibile qualsiasi manovra, posizionando il camion dietro all’auto. Il primo a scendere fu Alberto. Era vestito come d’abitudine. Con suoi pantaloni blu, sostenuti dalle bretelle di stoffa, e gli stivali verdi. Avevo constatato il giorno prima, che non indossava nient’altro, nemmeno le mutande. E possedeva un corpo particolarmente robusto, completamente ricoperto da peli. Poi scese il terzo. Era un ragazzo, mingherlino. Avrà avuto una ventina d’anni. Maglietta e jeans. Fu il primo ad avvicinarsi ad Elvira. Fischiò e disse. – Che gnocca. Avevi ragione, zio. E’ proprio una figa da primo premio. – Ero indeciso. Non sapevo come reagire. Io e Elvira eravamo separati dalla mia auto. Io, ancora una volta, ero combattuto tra l’amore sincero e sano per una donna e l’oscuro pensiero di vederla posseduta brutalmente da altri uomini. Lei si appoggiò con le spalle alla portiera mentre i tre uomini la circondarono. Erano molto vicini. E fu allora che Alberto, con quel misto di dialetto e di italiano, le parlò. – E mò che facite? Nun ce sta chiù nulla e nisciuno che ve po’ salvà, eh? – Poi, rivolgendosi agli altri due, aggiunse. – Pensateci voi, Nenè. Portatilla into a’ casa. Io e o’ guaglione pensiamo a ‘sto sfacimme d’uomo. – Ero incapace di reagire. Il gorilla e il ragazzo mi presero uno per parte e, senza alcuna resistenza da parte mia, mi legarono i polsi dietro alla schiena e mi spinsero fin dentro alla casa. Quando arrivammo, trovammo il vecchio seduto in poltrona e Elvira in piedi, davanti a lui. Alberto mi spinse a terra e mi legò, seduto, ad un termosifone. Fu l’anziano Nenè a stabilire tempi e modi della violenza. Restando seduto, spiegò. – Purtroppo non mi è più possibile godere in modo normale. Il mio uccello non si rizza più. Però, provo un piacere intenso a maltrattare una donna. E, raramente, arrivo ad avere un’erezione. Facciamo un patto, bella vaccona. Se ti darai da fare con Alberto e Tonino e darai spettacolo come una vera troia, magari mi sentirò soddisfatto e non avrò bisogno di prenderti a cinghiate per provare piacere. Se no, le tue grasse mammelle e il tuo culone assaggeranno la mia cintura. Ci siamo capiti? – Elvira mi guardò. Aveva lo sguardo implorante. Ma non potevo fare nulla. Nenè riprese. – Adesso devi ballare. E mentre ti muovi, ti devi spogliare. Lentamente. Tonino, metti un po’ di musica. – Il ragazzo si avvicinò allo stereo e accese la radio. Scelse una stazione che trasmetteva pezzi moderni e alzò il volume. La musica riempì la stanza. Elvira chiuse gli occhi e cominciò a muoversi. All’inizio era rigida. Poi, diventò morbida. E la sua sensualità catalizzò l’attenzione di tutti noi. E mentre ballava, si slacciò il vestito di seta. Sotto al kimono aveva un body di raso bianco e autoreggenti a velo. Il vecchio le disse di tenere le calze, ma di togliersi tutto il resto. Obbediente, sempre continuando a ballare con gli occhi chiusi, si tolse gli indumenti e restò con le sole autoreggenti. Intanto Alberto e Tonino si erano spogliati completamente e si masturbavano guardando Elvira. Anche Nenè si massaggiava, ma sempre restando seduto e completamente vestito. Intanto, il mio uccello si rianimò. La vista del corpo di Elvira, delle sue movenze sensuali e, in aggiunta, la perversione della situazione, mi provocarono un’erezione dolorosa. Non potevo toccarmi. Potevo solo godere con gli occhi. Il vecchio ordinò alla donna di inginocchiarsi. I due uomini le si avvicinarono e iniziarono a strusciarle sul viso i loro cazzi. Poi, Alberto le infilò di botto la bocca mentre Tonino prese una mano di lei e si fece masturbare. Ma non durò molto. Nenè ordinò a Tonino di prendere del burro. Sghignazzando, disse. – Mi ha sempre fatto effetto la scena di “Ultimo Tango a Parigi”. – Elvira cercò di sottrarsi e di dire qualcosa, ma Alberto le affondò il cazzo rendendole impossibile la protesta. Come il giorno prima, le teneva la testa con entrambe le mani e la fotteva in gola. Sembrava che le stesse scopando la figa. Elvira aveva imparato in fretta. Assecondava i colpi, facilitando lo scorrimento dell’uccello. Alberto stava emettendo dei versi osceni e sembrava ormai prossimo all’orgasmo. Nènè gli disse. – Fermati, bestione. Voglio che facciate un bel panino con questa puttana. Tonino, visto che non ha mai provato i piaceri del secondo canale, tu la inculerai. Ungiti bene con il burro e infilane un pezzetto su per il buco del culo della vacca. Così non sentirai dolore. E poi, sdraiati e falla calare su di te. Così tuo zio potrà fotterla e sfondarle quella figona fradicia. E tu, maialina, dì che cosa vuoi. Ma, mi raccomando, dillo per bene. – Mi sentivo un verme. Ieri, avevo trattato Elvira esattamente come faceva adesso il vecchio. Sentii la voce di lei dire. – Avanti, porci che non siete altro. Datemi i vostri cazzi. E riempitemi per bene. Vi voglio sentire, voglio che mi riempiate la figa e il culo con i vostri bastoni. Cosa aspettate? – Nenè annuì. Era proprio una brava puttana. I due eseguirono gli ordini del vecchio. E dopo pochi istanti iniziarono a pomparla con foga impressionante. Evidentemente il trattamento provocò una reazione maligna in Elvira che cercava di assecondare i movimenti dei due e, ad un certo punto, sollevò le gambe per portarle attorno ai fianchi dello scimmione e si avvinghiò a lui anche con le braccia. Ansimava e rantolava. Stava per godere. Lei, bianca come il latte, faceva corpo unico con la massa nera e pelosa di lui. Le sue gambe raccolte rendevano ancora più oscena ed evidente la penetrazione posteriore. Era un’immagine incredibile. Elvira prese a vibrare con tutto il suo essere. Ormai la conoscevo bene. Stava avendo un orgasmo travolgente. E non lo nascose. All’improvviso annunciò. – Godo… sto godendo… sono una vera puttana… una troia… avanti godete anche voi, forza. Cosa aspettate? Voglio essere riempita… Dai! – E i due non se lo fecero ripetere. Alberto grugnì come un animale, scaricandosi dentro alla figa di Elvira. Qualche istante dopo fu la volta di Tonino che venne dicendo. – Ecco.. Ti riempio il culo.. Toh, prendila tutta… Vengo, vengo… – Intanto, avvenne un mezzo miracolo. Nenè aveva tirato fuori l’affare che era quasi pienamente eretto e richiamò l’attenzione della donna. – Avanti, bella troiona. Datti da fare. Succhiami con quella bocca da puttana che hai. Forza. – Rammentando le minacce del vecchio, Elvira si mosse in fretta. E, inginocchiandosi ai piedi della poltrona, accolse quel coso parzialmente duro tra le sue labbra. E il miracolo si completò. Le bastarono pochi movimenti della testa e della lingua per portare ad una completa erezione il cazzo di Nenè. A quel punto, il vecchio aveva gli occhi socchiusi e delle lacrime gli solcavano il viso. Impugnando i capelli della donna le dava il ritmo della pompata. Pochi istanti e sborrò urlando nella bocca di Elvira. Ci fu un momento di silenzio. Poi i tre si rivestirono. Prima di andarsene Nenè disse. – Non credo che vi convenga raccontare a qualcuno quello che è successo. E da parte nostra non avrete noie. Quello che lei mi ha regalato, signora, è talmente prezioso che le devo almeno questo. Non ci rivedrà più. Addio. – E se ne andarono. Elvira rimase a lungo seduta su tappeto, con la schiena appoggiata alla poltrona. Poi si avvicinò e mi slegò. Ma, quando feci il gesto di abbracciarla, si ritrasse e mi spiegò. – Lo so che non è stata colpa tua. E so anche che non hai potuto fare nulla per evitarlo e per aiutarmi. Ma adesso, ho bisogno di stare sola. Ti prego, vattene. Qualunque gesto e qualunque parola sarebbero inutili, in questo momento. – Cercai di avvicinarmi ancora una volta, ma lo sguardo duro e deciso di lei mi tolse ogni possibilità. Uscii e tornai a casa. Per un momento avevo visto la luce ed ora ero ricaduto nel buio. Dopo aver fatto l’amore con Elvira avevo pensato di poter controllare il mio lato oscuro. Ma dovevo ammettere, almeno con me stesso, che poi, legato al termosifone, mi ero eccitato a dismisura. E, andando a casa, l’unico pensiero fisso era quello di potermi masturbare al ricordo della violenza subita da Elvira. Ero profondamente malato.
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